mercoledì 22 giugno 2011

La poetica del silenzio: una retrospettiva di Enrique Brinkmann


(a Londra presso la galleria Rosenfeld Porcini dal 24 giugno al 24 settembre 2011)

Il punto di sutura tra stile geometrico e informale è un paradosso perché ciò che definisce l’uno è l’esatto contrario di ciò che definisce l’altro. Ci sono campi del sapere (che potremmo definire “insiemi”) che contengono le unioni paradossali e uno di questi campi per antonomasia è l’arte, ove Enrique Brinkmann rende la sua opera uno spericolato esercizio di equilibrismo in cui, anziché far confliggere gli elementi paradossali, li fa dialogare, li abitua alla convivenza, ne ottiene intersezioni e osmotiche penetrazioni. Nella serie intitolata “Sequenza”, presenze atomistiche, punti-luce, si accendono e si spengono su una tela che ne intercetta ora lo stato energetico ora lo stato di massa.  E quando si verifica un infittimento dei punti, ecco consolidarsi inspiegabilmente, poiché i punti non hanno dimensione,  sotto il nostro sguardo, un arco, qualcosa a cui non si può negare il riconoscimento di solida sostanza.

Le opere di Brinkmann riescono a rappresentare ciò che è invisibile ad occhio nudo tramite analogie con ciò che è visibile. E, d’altronde, nuove forme nascono proprio tramite questa relazione: entità astratte, a cui peraltro se non possiamo dare un’attribuzione di realtà, nondimeno dobbiamo riconoscerle come potenzialità della nostra mente. Le tele per Enrique Brinkmann sono strumenti di intercettazione, vere trappole per catturare l’invisibile, schermi per mostrare che esso esiste e che si possono addirittura fare ipotesi, immaginare relazioni, individuare traiettorie per via intuitiva, i cui risultati scorrono autonomamente rispetto a quelli scientifici, ma fra i due, a tratti, si scoprono tratti in comune.

La passione di Brinkmann per i lucori, le texture, non è solo amore per il segno,  per la scrittura, è anche appassionato collezionismo di tracce: le sue tele potrebbero essere tavole della memoria, su cui il tempo non ha potuto cancellare interamente i segni. Se scrivere la totalità è azione impossibile  e infinita, pur tuttavia essa è tracciata nel nostro stesso corpo in quanto portiamo come staffette il ricordo e la cancellazione allo stesso tempo di tutto quello che è stato e di quel che diverremo.

Dalla parvenza all’idea: ecco il passaggio metafisico che ci balena in mente dinanzi a queste opere. Ma anche la sensazione che queste opere vogliano indagare il processo mentale come situato a metà strada tra il corpo e la mente.  Per Brinkmann è attraverso la rappresentazione delle cose che si può indagare il loro funzionamento. E, pertanto, sulle tele, vere e proprie trappole per mosche, secernenti liquori zuccherosi o pigmenti contrastivi che consentono di catturare il moto attraverso i segni che lascia,  pare d’individuare cellule nervose che si slanciano l’una verso l’altra a cercare l’incontro o a negarselo, scie, macchie, legamenti che certo se illustrano il processo fisico rinviano inevitabilmente anche a quello mentale.  

Anche le figure condividono al pari dei fotoni la caratteristica di essere appena una parvenza: ambiguamente site tra uno stato gassoso (informale) e uno stato materico (geometrico) esse emanano arcaica forza. Sono figure che hanno assorbito l’ombra, che proiettano luci provenienti da cavità interiori, con le quali riescono a illuminare uno sfondo altrimenti senza sbocchi o che con lo sfondo ingaggiano una lotta carnale  al limite del disfacimento. In seguito, lo sfondo avrà introiettato il corpo, schiarendo i suoi colori, dividendosi in porzioni, mimando una regressione: dal corpo alla divisione cellulare. In posizioni temporali successive, nell’arco storico della produzione di Brinkmann,  si riconosceranno parti di corpo smembrate, organi che hanno vita autonoma, fino all’iscrizione dei segni sulle membrane organiche: dal corpo alla scrittura per l’oramai compiuto passaggio tra fisico e mentale.  

                                                                          Rosa Pierno

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