Per parlare dell’al di là, di un’ipotetica esistenza dell’anima, della coscienza dopo la morte si deve far riferimento a un vocabolario forgiato sul concreto, sulla nostra realtà fisica. L’ho appena fatto anch’io utilizzando la parola “esistenza”, che usiamo per ciò che esiste, che cade sotto il nostro sguardo. Ecco, dunque, che la silloge di Marco Fregni, Oscillazioni tra poesia e morte, Campanotto, 2025, denuncia l’enorme difficoltà da affrontare, quando si vuole parlare di pura astrazione. Il poeta dichiara, fin dal titolo, che la sua indagine è svolta nella poesia e con la poesia. Non fosse altro che la poesia soltanto riesce a conservare un alone di indeterminazione particolarmente adeguato all’oggetto da descrivere.
Intanto, colpisce la rarità degli aggettivi che uno spoglio rapido (chiusa, notturna, bianca, vuote, lontana, leggera, ininterrotti, incerto, imminente, lieve, lento, calme, cieca) indirizza verso qualificazioni relative allo spazio e al tempo, le quali divengono, nella tessitura poetica, metafore dell’interiorità. Tuttavia, la metaforizzazione, quanto più astratta possibile, trova un inciampo. Tant’è che quel luogo, a cui si accederebbe dopo la morte, è segnato da un varco, una soglia, ossia da qualcosa di concreto ed è, inoltre, un luogo di cui si può avere un “presagio”. Ossia l’alone di approssimazione lascia le cose nel loro stato di visibilità. Difatti, il poeta, vagabondando con la mente durante l’insonnia, registra alcuni dubbi su tale luogo. Forse è proprio tale perplessità a legare il concreto al trascendente e, forse, è questo il vero luogo da percorrere: quella landa che separa lo stato della vita dallo stato della morte potrebbe essere sempre presente. Marco Fregni immagina la madre scomparsa, guardandola in relazione al suo presente: «non sei / più / voce, ora, // ma naufraga / e / prigioniera // oltre / l’insostenibile confine». Ovverossia, la vede ancora col suo corpo, rinserrata in uno spazio-tempo distinto dal suo. Al di là di tale orizzonte, il tempo non esiste; una volta che siano cadute le distinzioni cronologiche, quelle spaziali sembrano più restìe a sparire: ancora resistono in quanto orizzonte, varco, luogo di esilio. La luce che oramai manca alla defunta madre, non è mai per Fregni coincidente con la luce divina. Manca la luce, manca la voce, manca il tempo. Non si potranno conoscere “tutti i volti dell’ombra”.
Ci sono luoghi sulla terra che paiono preconizzare l’aldilà. È ciò che sente Marco Fregni nel visitare Bruges. Certe sfumature, imprecisioni, riflessi che trasudano dai giochi dell’acqua con la pietra sembrano rimandare direttamente all’immobilita del tempo e alla finitudine delle cose. È come se nella realtà fosse incisa l’irrealtà. Tuttavia è una predizione a cui Fregni non cede del tutto, sentendo nel peso delle parole, nella responsabilità del loro uso la possibilità di resistere alle illusioni, a “l’imprendibile figura”. Il poeta dedica all’analisi di queste percezioni un’acuta attenzione: vuole scoprire quanto tali sensazioni siano prodotte dal reale, anziché dalla mente, oppure quanto resistano e persistano «indifferenti all’umano / simili a dura pietra».
Difficile persino dire se i riflessi conservino “forma e colore” o se invece “svaniscano nel loro apparire”. E, pur tuttavia, tali riflessi sembrano indizio ignoto a se stesso, “al proprio oscillante navigare”. Quel “che ancora residua” del momento ultimo, prima che la luce si spenga per sempre. Resta il “dubbio solitario”, ma sarà forse anche vero che tali indizi non si sapranno interpretare in quanto sono relativi agli ultimi passi non ancora compiuti. Si potrà magari cercare, anziché nella realtà, nel linguaggio, nel «lato oscuro / del Nome». Nondimeno, quando la fascinazione di tali riflessi cade, non rimane nemmeno il ricordo; soltanto la lontananza incastonata come un’emblema nei giorni trascorsi a Bruges. Null’altro sarà possibile trarre: «Non sveleranno / altri nomi / o destini / questi inquieti / corpi / di statue ».
Esplicitamente richiamato da Marco Fregni: «Davvero quest’onda / ferisce la notte / e porta in sé / la voce / d’ogni eterno ritorno», il concetto specifico del discorso di Nietzsche viene utilizzato dal poeta in quanto si riferisce a un’ontologia circolare, in cui l’universo, a cicli, si ripete, coinvolgendo anche la vita umana. Comprendere la suddetta ripetizione dovrebbe condurre l’essere umano a non pensare più in termini di passato e futuro, di principi da rispettare e scopi da raggiungere, ma a vivere nell’attimo presente. Marco Fregni, però, non crede all’eterno ritorno, lo dichiara nella nota che allega al suo libro di poesie: egli risente della «melanconica ferita legata alla propria dissoluzione, al vuoto successivo ed all’assenza di ogni possibile ritorno». Pertanto, il lirismo metafisico che caratterizza apparentemente la sua raccolta poetica si colloca tutto sul versante dell’al di qua, dove la sua immaginazione disegna un regno di ombra e di cenere, di silenzio e di smemoramento, ma totalmente terreno. Alla luce, difatti, è affidato il ruolo principale di segnalare la vita; è il vero segno certo che si è in vita; in seconda battuta anche la memoria, che altrimenti affonda nell’incertezza, recepisce la vitalità e la levità dell’esistere contro la labilità della scomparsa. Un ultimo invito, un’ultima domanda provengono dalle poesie della sezione Paesaggi: il vuoto, che tutto sembra contenere e riassorbire potrà mai rivelare « cosa unisce / vento e cenere, / cenere e parola» o sarà invece ciò che tutto spegne?
Rosa Pierno

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