Le poesie presenti nella raccolta sono state scritte dal 2015 al 2022 e, anche se presentano ciascuna uno stile diverso, sono strettamente connesse sul piano della riflessione esistenziale e politica di cui la poesia è scaturigine. Espressione creativa. Immemoriale è il linguaggio nella stratificazione giunta fino a noi: gli autori citati nella silloge di Marco Palladini, Via memoriæ / Via Crucis (tra il poetico e il politico), personalmente conosciuti o semplicemente letti, hanno ricevuto la staffetta, e ora possono a loro volta rilanciare, creando il proprio stile. L’azione letteraria è complessa e mobile, pesca in profondità, non astrae, cesellando e idealizzando, ma sommuove il terreno, fino a rovesciarne le zolle, riportando alla luce del sole le sue parti ascose. Dunque, è proprio attraverso il rapporto diretto con i rappresentanti di una cultura condivisa che Marco Palladini inizia la propria riflessione a consuntivo di una stagione sperimentale, quale è stata quella del Sessantotto, nella silloge Via memoriæ / Via Crucis (tra il poetico e il politico). Naturalmente, il poeta ridefinisce i concetti in base alla personale esperienza. Così si vedono fioccare le prime definizioni: <<Il senso è la vita, se solo sapessimo che vita è>>, poiché appare come non-vita. Se diamo senso alla vita anche con il linguaggio, il linguaggio stesso può apparire come non-senso. Ma subito Palladini corregge la rotta, è il poeta che addossa ai valori di scambio e alle parole-merci il disastro della mancanza di valore. Il linguaggio appare, così sotto una giusta lente: strumento malleabile, da non colpevolizzare. È pertanto un affidabile compagno per ravvivare la memoria degli amici sodali oramai scomparsi, da Valentino Zeichen a Blanchot, da Balestrini a Céline, in un collage di voci rivissute tramite la propria soggettività. La memoria stessa è un fatto linguistico. Si pensi al titolo di un libro di Sanguineti, Laborintus, che diventa: <<Dal nostro laborinto usciva un preciso punto di vista>>. Per coloro che scrivono, la coincidenza tra letteratura e vita è già data, non va cercata distruggendo la letteratura come voleva Marinetti. Anzi, il linguaggio consente meravigliose acrobazie. Ad esempio “surfonemi phonofluenti”, “mimodeclama”, “mundiloquio villadromico”.
Marco Palladini riconosce ai poeti visuali, ad esempio ad Arrigo Lora Torino, la consapevolezza di una poesia in liquidazione, quasi uno scoprire le carte sulla certezza che certi lavori non avrebbero sortito l’effetto sperato. Palladini riconosce che, oggi, anche i poeti <<sversati reclamano una concreta bio-eversione>>. Dinanzi all’onestà intellettuale degli intellettuali che speravano in uno scatto di visione, sebbene variamente graduato, ora, sembra esservi soltanto il tempo della resistenza memoriale, la conservazione di quei testi che si scorrono con la medesima convinzione di chi li ha scritti, ma che è già messa in discussione da chi sta per restituire a sua volta la staffetta ridendo, come se si trattasse di un’operazione inutile. Tuttavia, svalorizzare il linguaggio vuol dire non poter più nemmeno descrivere, nemmeno essere testimoni, come accade, invece, nella poesia La madre di tutte le bombe, nella quale esplicito è il potere di denuncia, nostra arma potentissima, irrinunciabile.
La frequenza degli acrostici tautogrammatici (che riportano tramite le prime lettere di ciascun verso il nome del poeta a cui la poesia è dedicata) pesca in una lunga tradizione. In Appartenenza, dedicata a Mario Lunetta, la lettera iniziale è sempre la stessa per ciascuna parola di tutto il verso e mostra una grande attenzione al ritmo, mentre in altre poesie è volontariamente rilasciata, con una tendenza prosastica che usa la lingua nelle sue plurime valenze, da quelle maggiormente articolate a quelle maggiormente utilitaristiche. Quasi la tendenza opposta riconosciuta a Lunetta e a quella sua “antiretorica avanguardia”.
In siffatto crogiolo, il lettore acquisisce la consapevolezza che certe valutazioni sui risultati, su una stagione di lotte culturali, non si disperde nell’irruzione contemporanea di una ricezione non permeabile, ma si posiziona all’interno di una riflessione che comprende quella fase passata e il suo passaggio in questa contemporanea, compreso il versante altro, estraneo, rivendicando l’esperienza oggi maturata e non perdibile.
Non ci si lasci ingannare sugli ideali dissolti di una generazione che aveva creduto senza difese nei propri ideali e che ora non mostra più nemmeno una capacità resiliente. Alle sue spalle sembra, infatti, veder scorrere il video di un outlet nel weekend. È semplicemente uno dei modi che la cultura odierna ha di rappresentare se stessa: uno scorrimento privo di spessore. Che pertanto, non rappresenta la stratificazione dell’esistente, ben più ricco di fermenti, pulsioni e spinte innovative. I poeti, oggi, non sono una specie estinta. È Palladini stesso a rivendicare con forza questa ineludibile verità nella poesia Ballata del Sessantotto mai ri-trovato o semplicemente dissipato, nella quale, accanto alle spinte per modificare i rapporti fra mondo operaio e capitalismo, egli riscontra un equivalente fenomeno di deculturalizzazione della società. Non semplice è la restituzione del ventennio di lotte, rispetto al quale vanno abbandonati certi schemi meramente contrappositivi. In tale poesia, tre puntini si susseguono all’incirca ogni tre righe, a tratti fratturando il verso, così come fratturata è la visione presa tra fatti ed elaborazioni culturali ricchissime (Foucault, Deleuze, Debord, Pasolini). Ciò testimonia di sicuro, e non per l’impossibilità di trarne un consuntivo, che la molteplicità delle voci, delle partecipazioni, delle esperienze, ha prodotto qualcosa di ineludibile, che non può essere sussunto nella soluzione di una contraddizione. E per non risultare troppo criptici, si pensi alla questione sollevata da Pasolini che <<difendeva i celerini contro gli studenti figli di papà…>> oppure sulla questione: <<la violenza è rivoluzionaria o reazionaria o tutt’e due?…>> o <<le armi della critica sono un preludio alla critica delle armi?…>>. E questo è appena un florilegio delle questioni aperte dal Sessantotto, ma per venire al problema più strettamente letterario, Palladini ricorda la lotta tra autonomia ed eteronomia dell’arte, <<Fare il Sessantotto e fare la critica al Sessantotto>>, il pensiero plurale e la tensione biopolitica. O la ricerca di una diversa estetica letteraria, esplicitata in tutte le sue forme (visuali, fonetiche, cinetiche, ideografiche; in particolare, le iconescritture, sotto l’egida di Adriano Spatola.
In questo repertorio che sembra disegnare la crisi stessa, non lontani sono gli echi di un pensiero che poi deflagrerà nell’attuale <<stile di vita tra gioia e sovversione>>. Insomma, parrebbe che il Sessantotto abbia scoperto il mostro, mentre effettuava la liberazione dell’umano. Ma è pur vero che la <<bruciante passione il Sessantotto, che non ha conclusione>>. Apparendomi questa la migliore definizione che se ne possa dare.
Si registra nella raccolta la presenza del teatro, sia attraverso i nomi di alcuni attori, sia attraverso alcune partiture poetico-teatrali composte da Marco Palladini per Emilio Villa. Sono cut-up che ricostruiscono certune esperienze post-avanguardistiche, rimarcanti le profondità anche trasversali dei codici linguistici tecnici e delle lingue straniere. Non si dimentica certo che Palladini è prolificissimo autore teatrale.
Voglio sottolineare che il prelievo, nella poesia Suppergiù nel mistilingue Poetodromo, che così mirabilmente dà l’idea del palcoscenico simil-circense in cui il poeta esercita la propria attività comunicazionale, si disegna nell’ultimo verso: <<Accogliere una scrittura che non salva ma conosce il mistero ermetico-soterico>>, gemello di quel verso: <<così l’inizio della Fine equivale alla fine dell’Inizio?…>> che dalla cultura mistico-ebraica risale lungo i declivi mallarmeani e avanguardistici, con Villa in testa. È un concetto che ritorna più volte nella silloge: <<è un movimento di libertà assai problematico / che collassa infine nel suo precipuo contrario>>, ma ciò non costituisce la summa finale di ciò che è problematico, è solo un asserto tra i tanti. Lo testimonia quella lezione che Palladini trae anche da Giorgio De Chirico con quel <<sacro che si riflette nel quotidiano>>: la polemica è verso quei paradossi che sorgono da una impostazione, sempre oppositiva, quali quelli che hanno luogo all’interno della cultura dialogica occidentale.
Forse, come confessa il poeta, seguendo Beckett, una certa stanchezza anche nel fallire di nuovo, nel fallire ancora meglio, oggi si coglie e, nondimeno, sorge la speranza che le energie per migliorare la società possano ridestarsi, almeno per la parte che riguarda la creazione delle differenze, fossero pure utopiche, con l’esistente già dato.
In Cent’anni di comunistitudine, la distanza tra riflessione filosofica e poesia si acuisce formalmente, giacché il movimento del pensiero ha la meglio sulla componente ritmico / sonora. È davvero notevole, la capacità della malleabilità del linguaggio nelle mani di Palladini.
Opporre, oramai lo posso affermare in consuntivo, un linguaggio mobilissimo, atto a non cadere negli anfratti di ideologie a causa di definizione irrigidite, consente di tastare sempre il polso della situazione, della propria vita e dirigersi, anche contro le onde, dove si crede si debba andare, naufragio non escluso.
Rosa Pierno
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