È uscita nell’autunno passato, 2021, una piccola plaquette di poesia che inaugura la collana Deserti luoghi diretta da Giovanni Ibello per Terra d’ulivi edizioni. La plaquette ha titolo Zebù bambino, e oltre a essere una raccolta decisamente graziosa e accattivante, offre uno spunto interessante di riflessione sulla poesia e sulle sue varie direzioni, anche quelle più nascoste.
L’autore, Davide Cortese, nato nel 1974 sull’isola di Lipari e attualmente residente a Roma, mima in piccoli componimenti di una manciata di versi ciascuno l’infanzia di Zebù, un piccolo demone, un diavolo bambino, signore universale del male e allo stesso tempo inconsapevole e ingenuo autore di esso.
Ciò che colpisce fin da subito sono i toni fanciulleschi e popolari con cui viene descritto questo personaggio: Zebù, più che essere un diavolo biblico, è il trickster della cultura popolare, il folletto che incarna una a-moralità fondamentale in ogni civiltà folclorica. Non serve andare troppo lontano per riscoprire immagini simili a quella che ci offre Cortese, basta ricordare qualcuno degli studi liceali di mitologia. Ermes, che diventerà dio dei commercianti e dei ladri e di ogni area liminale, dimostra nei suoi primi giorni di vita una crudeltà e un’astuzia senza pari fra gli dèi: uccide una tartaruga e dal suo guscio costruisce una lira e ruba la mandria di mucche del fratello Apollo; dopo scambierà con lui la lira per tenersi le mucche.
Questa ferocia naïf e geniale è quella che Cortese infonde a Zebù, capovolgendo il sacro nel suo contro-canto. È una parodia oscura di contrappunto, che sdegna i toni solenni dell’accusa e instaura con il divino un rapporto dialogico implicito, anche se non privo di violenza: Tatua fiori di melo e serpenti / sul seno di plastica di Maria. / Poi rosicchia quel seno coi denti. / Succhia il latte che finge vi sia.
È proprio in questa asincronia di linguaggio e contenuto che sta la forza della silloge: mentre intona filastrocche, Cortese è bruciante e violento, ma ciò non ha lo scopo di dare una drammaticità dissonante al testo o di scandalizzare; l’effetto principale che ottiene il suo autore è quello della dolcezza e della compassione per questo demonietto, perché più che come creatura del male, Zebù si presenta come creatura del desiderio: Non vuole saperne d’ a, e, i, o, u. / Ama la ricreazione / il piccolo Zebù.
Questo è ciò che riconnette di più il lavoro di Cortese con le figure della narrazione popolare: gli esseri a-morali, i folletti, i coboldi o i troll scandinavi, non vivevano di un’esclusione unidirezionale all’interno delle società. Mentre da una parte questi esseri misteriosi venivano allontanati dal consesso civile, dall’altra si rifacevano nelle loro origini antropologiche a dèi del caos, dèi della confusione che tutelavano passaggi di qualunque tipo da uno stadio all’altro. Ermes era tanto messaggero degli dèi e dio dei ladri quanto psicopompo delle anime, e a lui erano associati tanti rituali di passaggio dell’adolescenza, a cui tutti i giovani dovevano sottoporsi.
Ciò rendeva questa schiera di esseri degli operatori culturali: tutelavano con la loro esistenza e con ciò che rappresentavano la possibilità di una diversità, garantivano che questa diversità fosse poi in qualche modo desiderabile e che essa infine fosse sperimentabile come una tappa nella crescita di ciascun individuo. La società non si costruisce sull’esclusione apodittica, ma su una definizione dialogica e in fieri, che nel rapporto fra gli opposti trova un avverarsi ciclico e progressivo. Come dice Cortese: Diventerà un bel giovane / il piccolo Zebù. Presto farà breccia / nel cuore di Gesù.
Quello che però è ancora più interessante è il rapporto del piccolo diavolo con l’autore: Nella scatola di bambù / che un giorno gli donai io, oppure proprio nei primi versi Due miei volti si specchiano / nelle ginocchia sbucciate / del demone bambino. Zebù è un riflesso del poeta, qualcosa che ha a che fare con la sua genealogia personale, un figlio o forse un padre inconsapevole: non è soltanto l’esterno, il dannato che ci affascina perché lontano, ciò che è desiderabile, ma è anche la parte che di noi incarna il volere, ciò che in noi è puro desiderio.
Non è la blasfemia che interessa a Cortese, né lo scandalo: il punto è sondare la volubilità dell’animo umano, e di questa non vuole analizzare il lato oscuro, ma quello ingenuo. Ecco che allora la crudeltà è più che altro un richiamo al possesso che tutti i bimbi hanno quando dicono “mio”, un’affermazione dell’esistenza di sé contro il mondo e quindi contro dio.
Questo primigenio tentativo di dire io lo abbiamo tutti, e tutti in pancia ci portiamo il piccolo Zebù.
Tutti nasciamo come peccatori ed è proprio questo nostro essere peccatori che alla fine fa innamorare di noi. Il nostro essere difettivi nel nostro volere è ciò che ci caratterizza come esseri umani, come esseri degni di essere amati.
Cortese, mettendo infine il racconto di tutto questo sotto il segno della filastrocca, ricorda che la poesia ha tante vie: quelle dell’invettiva e quelle dell’accenno discreto. Tutte quante sono foriere di verità e impressioni sconvolgenti. L’attitudine con cui Davide Cortese forma le sue parole, questa dolcezza e quest’ironia sconvolgente, sono ciò che traspare nella sua lingua e ciò che innova i mezzi tecnici con cui lui costruisce il racconto, per dirla con Socrate, del proprio buon demone.
Rudy Toffanetti
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