Nelle medioevali sale del Palazzo Pubblico-Magazzini del Sale, a Siena, una prima forte impressione donata dalla pittura di Vincenzo Scolamiero, nella mostra Del silenzio e della trasparenza, è quella della sinestesia riguardante il senso musicale, che si sviluppa a partire da alcuni toni e timbri altamente evocativi usati dall’artista nella sua ultimissima produzione. Ascolto di suoni in quanto la predisposizione d’animo del fruitore viene da tali cromìe indirizzata verso un accentuarsi delle emozioni terrose o acquatiche, levitanti o affossanti, assieme allo scroscio o ai tremori dei loro movimenti. La tavolozza cromatica di Scolamiero risuona: replica le proprie cavità sonore o le fa scivolare lungo le dorsali di transitori flussi ondosi.
Il gesto, che arriva dall’intero corpo, e dalla spalla si precisa nel movimento del polso, così come è prescritto nella pratica orientale, in cui tutta la persona si riassume nel gesto, dopo essere stato lungamente eseguito nelle opere realizzate una ventina di anni fa dall’artista, viene ora volutamente sostituito da un’azione che nel togliere e levare pigmenti con carte o stracci, bada all’esecuzione di un’azione ritmica. In qualche modo, mentre si asporta pigmento, lo si deposita in modo diverso. Premendo l’utensile che imprime una macchia, un effetto, nel pigmento sottostante, si scopre la magnificenza dello svuotamento della profondità, la moltiplicazione delle superfici, lo svelamento degli strati intermedi.
Creare sulla superficie dimensionale della tela o della carta la profondità, non attraverso illusioni prospettiche o geometriche, ma attraverso spessori millesimali e trasparenze inaudite, è la nuova frontiera che Scolamiero affronta. La superficie è ricreata in quanto deve essere eliminato il modo convenzionale di recepirla. Un larghissimo pennello ricrea un piano che sembra possedere una consistenza vegetale e che si avvolge su se stesso come farebbe una stoffa adagiata in morbide sovrapposizioni. E per questo ha bisogno di un sostegno a sua volta: siano esse le profondità intestine di un bosco, i panneggi e i tendaggi di un’interiorità oscurata da ingombri di atavica memoria, un fondo impenetrabile o uno specchio d’acqua. Lo spazio teatrale ivi inaugurato è uno spazio che allude senza concedere e vi si può inoltrare senza addentrarvisi.
A volte le carte formano un turbinìo, si sollevano grazie a un vortice che proviene dal basso, da quel nero che tutto fagocita o espelle. E quale materiale migliore della carta può enfiarsi o accartocciarsi anche per un solo alito di vento? Esse sembrano essere alle prese con un girone dell’inferno, assieme alle secche foglie strappate con l’integro virgulto. La dimensione della profondità si inclina fino a schiacciarsi su se stessa, come l’asse terrestre, svelando solo nello scorcio il vuoto che si genera a ogni nuova distribuzione spaziale. Esiste la superficie? No, la sua esistenza è un’illusione ottica.
La carta, uno dei soggetti più rappresentati nelle opere di Scolamiero, può coprire un abisso, mimando un ponte, un sostegno, reintegrando la continuità del piano. Può corrugare il piano fingendo un movimento alterno di ripiegamenti e antri, che raccogliendo luce, espelle un buio bituminoso. Su di essa capita che cadano giunchiglie e racemi; in altre zone, ramoscelli e virgulti appaiono stampigliati; ricordano i parati di broccato in seta. Una sorta di topografia termica, di cartografia animata da un vento impetuoso che sposta dune e covoni e che ha del tramonto la patina infiammata. La luce a tratti diviene quella solforosa e baluginante delle simboliche, algide, lingue di fuoco scolpite nel marmo.
Che cosa accadrebbe se la pittura non potesse essere che atemporale, se la carta o la tela al pari delle concrezioni geologiche fossero perenni come gli imbuti danteschi della perdizione? Iperurani scoscendimenti dell’io. Le immagini di Scolamiero aprono a questa perdizione che pur tuttavia ha i suoi solidi punti di riferimento, nel desiderio ritmico e atemporale a un tempo, che la pittura concede a chi sappia estorcerglieli.
Con le pianticelle bronzee, arricciolate come alfabeti, non può trascriversi la storia umana. Le lettere caduche sulle pagine voltolanti continuano a precipitare nella babele delle scritture segniche senza avere un significato rintracciabile. È questo l’eterno? I cerchi, le ellissi senza inizio né fine che la materia imprime a ciascuna altra materia? Trarli dal fondale color petrolio, fino a renderli visibili. Far emergere qualcosa dalla profondità cosmica per lasciarla galleggiare su un piano prossimo al corpo.
Vibrazioni che provengono da addensamenti di polveri e gas risuonano sul proscenio poiché è lì che la cassa di risonanza li amplifica. Il legame con la musica di cui Scolamiero è alla continua ricerca si produce nello spazio pittorico sul quale egli determina un ritmo. Tale ritmo non consiste solo nel battere e levare del proprio gesto, che colloca o rimuove materia pittorica, ma è la ripetizione rifratta, dilazionata, del suono appartenente alla materia cosmica.
La magica potenza emanata da queste tele e opere su carta nulla lascia a un consumo che non sia perlustrativo e intrigato. Gli ori sontuosi, barocchi, che si tramutano in verdi iridati o ossidati, i rame fiammanti ed estinti: la nuova tavolozza porta con sé la memoria dei quadri della tradizione, i neri caravaggeschi, le materie cartilaginee o setose, la translucenza delle foglie, la duttilità della pelle. Novelle nature morte che si appalesano nella loro forma geologica a rammentarci che il passato è annodato allo spazio del nostro presente.
Gorgiere, pergamene, vesti: si può convocare mnemonicamente un armamentario da wunderkammer pittorica. Una splendida visuale che trapassa il tempo, lo infilza e lo raggira. Le carte, nuove Ofelie galleggianti, ci riportano – tale è infatti il potere delle immagini che attraverso analogie visive sono in grado di far affiorare sul piano dell’intuizione lontanissimi lacerti di cose equivalenti – il ricordo di ciò che è scritto nelle veline vegetali, nelle striature delle rocce, nelle increspature marine. Il cosmo scritto sta ai nostri libri come l’infinito a un punto.
I segni non rispettano la congruenza di alcuna specifica materia. Foglie spumeggiano simili a piccole creste d’acqua, mentre l’acqua si frange a sua volta in lame di luce; la carta non affonda; non esiste atmosfera al di sopra del piano pittorico. Forse che la superficie non è una sorta di specchio, riflettente ed opaco insieme, qualcosa dove la materia si percepisce come ingombro, impreciso e mobile? Dove essa riaffiora per meglio sparire?
L’emersione delle materie dall’area dipinta, vero e proprio liquido amniotico, segna un ulteriore passaggio individuato dalle trasformazioni delle sostanze, il loro cammino dallo stato gassoso a quello solido, dallo stato liquido a quello franto. La materia, in pittura, nasce dalla mente, ancor prima che dalla sovrapposizione delle velature. Le metamorfosi che segnano le estensioni delle sostanze, dalla levità al peso, e la trasmutazione alchemica che riesce a ottenerne oro è un’ulteriore diramazione, fra le altre possibili, che la pittura di Scolamiero inscena. Realtà mai nulla poté contro arte, poiché è dell’arte il contatto diretto con l’immaginazione.
Rosa Pierno
SIENA, PALAZZO PUBBLICO – MAGAZZINI DEL SALE 27 NOVEMBRE – 9 GENNAIO 2022
Promossa dal Comune di Siena
Ideazione e cura Inner room, Siena
In collaborazione con la Fondazione Accademia Musicale Chigiana, Galleria Edieuropa,
Qui Arte contemporanea, Museo Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona - Arte Contemporanea
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