sabato 23 gennaio 2021

Marco Giovenale, Le carte della casa, edizioni volatili, 2020, partiture visive di Giuditta Chiaraluce

 


Marco Giovenale, con il piccolo, accurato libro Le carte della casa, edizioni volatili, 2020, e le inserzioni figurative di Giuditta Chiaraluce, attraverso il ricorso a una certa volontaria sgrammaticatura, a una frammentazione della linearità sintattica, la quale invece di allargarsi in digressione, come una macchia d’olio, si dissecca e si presenta alla stregua di un cretto di Burri, ci indica che il soggetto non è un’entità superiore, astratta e separabile dalle cose fra le quali mena la sua esistenza, ma si costruisce con esse in maniera ineludibile, cosicché rintracciarne le metamorfiche relazioni equivale a vederlo come un conglomerato, e perciò in modo sempre diverso. Tale soggetto è un artificio magnifico, almeno quanto lo  è  il soggetto che tutto sovrasta. 


Tutti i materiali linguistici, in questo brevissimo testo che parla del sopralluogo in una casa appartenuta ai propri familiari, sono distribuiti sul piano di lavoro, dopo essere stati privati di quel contesto dal quale riceverebbero una determinata marca semantica. La revisione del progetto dell’architetto, avente “due ellissi che rendono inutile la parte di scalinata”, oggetto del pensiero dell’autore nella sala d’attesa di uno studio medico, non rientra nell’insieme “appuntamento con il dottore”, però entrambe le determinazioni appartengono al soggetto che racconta. Non ci sono due livelli da prendere in considerazione, ma uno soltanto, perché non esiste differenza tra materiali che si diano, in ogni caso, nella mente.


Cosicché l’indagine che Giovenale conduce mette al centro il rapporto tra dati percettivi, stati mentali e coscienza. Quest’ultima è, dicevo, anch’essa una presunzione. Per quel che riguarda la percezione, si ha un’interrogazione rivolta alla realtà fisica, che sarebbe equivalente a quella scientifica, se il dato fosse sottoposto a un progressivo processo di astrazione che lo spogliasse da qualsiasi determinazione soggettiva, ma qui così non è. Inoltre, i dato non vengono sintetizzati assieme agli altri in una superiore unità, giacché è la coesistenza, la sussistenza della loro molteplicità, a dar conto del fenomeno ‘casa’. Nel riporto esistenziale, non manca un prelievo memoriale da Beckett (Mal visto, mal detto) a riprova dei diversi materiali che concorrono a tessere la parete muraria del testo: “sta riportando le piccole pietre. Le ghiaie sul balcone, al lume”.


Nella tessitura testuale è disseminato anche un riferimento alla possibilità di narrare una storia con quell’inizio che è già una fine, quella ‘chiusa’ sempre presente sulle labbra e sempre difficile da sancire. L’impossibilità di terminare qualcosa, anzi, di procrastinarla finché si ha il respiro, è la definizione della storia per Giovenale.  È la casa ricevuta in eredità a fomentare un’intelaiatura di ricordi-presenze. I racconti ricevuti nell’infanzia da un parente, ora, dinanzi all’oggetto che li rinvanga, il cubo rosso mattone, assurgono a vivide presenze. Una mitragliata sintattica scaturisce dai ricordi provocati dalla casa, mentre attraverso una descrizione più pacata, più piana che l’autore stila quel che resta del manufatto: la rimessa, i fili, i teli di plastica, realizzando la presa diretta dell’esperienza.


La possibilità di “ritornare al punto di partenza”, di vivere i ricordi per interposta persona, di effettuare un resoconto, se non della storia a lettere maiuscole, di una percezione appartenente a colui che, in quello stesso luogo, decenni prima, era sotto le bombe, esiste, fa parte ora della vita dell’autore. D’altronde, la percezione in sé, nel momento in cui si produce, è immanenza non analizzabile, ma a questo piano si ricongiungono anche le citazioni letterarie, le memorie imposte al racconto esistenziale, provenienti da altre macerie. In gioco è  l’inesauribilità dell’esistente, il quale, se pur si presta a ricostruttive ipotesi parziali, ostruisce la risalita alla totalità. Tuttavia, la presenza si mostra e il testo registra e nell’integrazione qualcosa si produce. La forma di diario a cui la scrittura allude con il suo riporto di date sta lì a indicare la totalità parziale che ogni storia raggiunge, ma che non smette di alludere ad altre possibili ricostruzioni.


I giochi di parole, come “tegolina, tegumento”, mostrano che gli scambi non sono relativi al solo significante, ma investono il significato: la casa-organismo che sta per crollare. Gli innumerevoli cerchi semiotici che s’intersecano rendono, le pur poche pagine in cui si sviluppa il testo, un affresco. Quel significato a cui si sta dando la caccia, si rincorre nella propria carne, attraverso la memoria, nell’ossatura della casa, nelle sue ferite, come se vi fosse una contiguità semantica iscritta nella lingua. Il passaggio dal colore al suono, citazione da Rimbaud, operata già in esergo: “il chiaro ocra per più suono a coprire” quasi vorrebbe essere garanzia di tale incredibile promiscuo, ove ogni caso, ogni elemento apparirebbe legato all’altro, se non addirittura pretendere di accedere alla totalità, come sfondo, orizzonte di riferimento.


Lo scrittore si muove su un piano che pertiene all’ibridazione di immagine e segno, prima che si appalesi l’una o l’altra determinazione: è lì che egli conduce l’investigazione. Il piano percettivo, prima ancora che quello propriamente linguistico, dà conto degli scambi possibili e Marco Giovenale ne mette a fuoco una quantità formidabile.


                                                                      Rosa Pierno


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