“tanti quanti chicchi ha la granata “
"Quando [David Herbert Richards] Lawrence, vedendo una ragazzina giocare davanti alla cattedrale, si domanda chi vorrebbe salvare in caso di distruzione e si stupisce di aver scelto la bimba, il suo stupore rivela tutta la confusione che il ricorso ai valori introduce nell'arte. Come se non appartenesse alla realtà propria del monumento - di tutti i monumenti e di tutti i libri insieme - l'essere sempre più leggero, sul piatto della bilancia, della ragazzina che gioca; come se, proprio in quella leggerezza, in quell'assenza di valore, non fosse concentrato il peso infinito dell'opera."
Per qualche ragione , la prima immagine che mi affiora alla mente dopo aver letto a lungo il recente lavoro di Bruno Di Pietro è questo passaggio da "Il libro a venire" di Maurice Blanchot, dove si compie un lavoro di scavo complesso nell’opera di autori apparentemente distanti tra loro e discosti dalla poesia, Proust e Artaud tra gli altri, Musil, Hesse e Rousseau.
Blanchot vi affronta con impeto le questioni primarie della vie littéraire : la misteriosa, indecifrabile esigenza di scrivere, la lotta alla quale è condannato ogni autore e l’oblio che gli tocca in premio – domande necessarie e urgenti a lui stesso –; la necessità di assorbire l’infinito in una formula, il rapporto alterno con l’immaginario e con le leggi segrete del racconto; l’alchimia del tempo tramutato in spazio narrativo, l’insufficienza del linguaggio e la sua inadeguatezza, l’incomunicabilità del pensiero.
Quasi sopraffatto dall’onda che aveva mosso da solo, Blanchot prova a mettersi in salvo spingendosi più avanti, arrivando a immaginare per sottrazione la morte dell’ultimo scrittore, un’epoca in cui non solo non ci saranno nuove opere, ma sarà impossibile rifugiarsi in quelle già scritte perché sarà già stata decretata la sparizione di tutti i libri: in quel tempo o in quell’incubo, l’arte sarà morta lasciando il posto a poteri totalizzanti e spaventosi, in grado di cancellare ogni residuo di umanità.
Altrimenti, sarà il tempo del Libro vagheggiato da Mallarmé e da Flaubert, che Blanchot descrive come una creatura a più facce – una rivolta verso il Nulla, l’altra verso la Bellezza o quello che ne rimane. Un libro senza autore e senza lettore, che poggia sulla legittimazione dell’irrealtà, sul definitivo che non sussiste: un passato intatto, illeso, e un avvenire che non può accadere.
Nel libro di Di Pietro il dubbio di Lawrence non viene tradotto in azione o risolto, volontariamente; la “ragazzina che gioca” e la “cattedrale” sono i protagonisti di un dialogo, gli attori di un’opera che proseguono la narrazione e completano l’intreccio di numerose altre.
La prima è nient’altro che l’anima: nonostante la fine della metafisica, di quella patria della parola che ha connotato la poesia precedente, Di Pietro non si preoccupa di definire quale musa scenda precipitosamente dal podio, quale sia la nuova Grundstimmung alla quale riferirsi, ma, semplicemente, con forza e con pienezza dice, mostra tracce; indica orme e sentieri, non inventa prove o soluzioni.
A parlare, o più esattamente, a suonare, in Baie, non è la voce, il dettato poetico di un uomo pervenuto alla maturità degli anni e alla padronanza dei mezzi - la pienezza degli strumenti poetici è rivelata, infatti, attraverso una parola asciutta, se non addirittura avara, che è tanto la conquista faticosa del metodo quanto l’estrema semplicità dell’originario, del primordiale- ma uno spirito straordinariamente giovane, che non vuole collocarsi in un punto definito della storia collettiva e personale, che intende dire da una regione al di fuori del tempo e dello spazio, un αἰών che, in accordo con la cosmologia greca, personifica l'eternità e il susseguirsi delle ère ma anche tempo vitale e destino, l’istante a-temporale senza estensione che frammenta il presente e corre indifferentemente verso il passato o il futuro, secondo l’analisi di Gilles Deleuze.
il tempo non incide in ciò che è stato
residua allora scrivere il passato
come solo repertorio dell’eterno
(per gli amori è già prossimo inverno) pag. 48, Baie, Oèdipus Ed.ni 2019
porta la tua voce ignoti suoni
apre fughe profonde
(allude riparo alle tue sponde) pag. 34, ibidem
Una parola asciutta, se non addirittura avara, dicevo.
L’impressione non è riferita, come è ovvio, alla scarsa disponibilità a spendere o a donare del proprio compresa tra i vizi capitali, né al desiderio di accrescere indefinitamente il possesso di cose materiali, ma a quella voce che sia de-finizione della realtà, a quel detto che non pecchi in eccesso né in difetto nell’individuare lo stato delle cose.
Non è un caso che il nucleo originario di “Baie” sia ravvisabile in una partizione di “Colpa del Mare e altri poemetti”, Oèdipus 2018, intitolata Avari fiori, che si concentra sugli affetti quotidiani con una parola leggera e acuminata, che molto ha in comune con la disposizione d’animo di Ovidio, col genio epigrammatico di Lucrezio, in qualche caso con la passione bruciante e il disincanto che ne consegue di Catullo, e che dice molto della difficoltà del vocabolo a descrivere o aderire al pensiero.
IX.
non possiamo Nietta che spremere
poco succo dai limoni rari
(quante le gemme bruciate dal freddo)
meglio sentieri antichi poco battuti
strade deserte polverosi cardi
(il pensiero arriva sempre tardi) pag. 69, Colpa del mare e altri poemetti, Oèdipus Ed.ni 2018
L’uomo, sembra dirci Di Pietro, non è affatto padrone del linguaggio che adopera, e il linguaggio, anche se appare contraddittorio o fortemente ossimorico per chi col linguaggio si misura o lavora, non è neppure uno strumento. Per dirla con Heidegger, non c’è che il «gioco» del linguaggio, il linguaggio «gioca» con gli attori che lo abitano. Ciò che è importante in questa partita è il gioco stesso, non i giocatori.
In queste accezione si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo e, giocando con lui, lo rende umano al più alto grado, lo trasfigura. Gli uomini cui tocca di essere «giocati» dal linguaggio sono i poeti, e ciascuno di loro si muove con regole proprie.
trovammo porto
e ormeggio all’imbrunire
erano stanche le vele
sfinita dall’inedia
la parola pag. 14, Baie, Oèdipus Ed.ni 2019
C’è un altro luogo dal quale parla Bruno Di Pietro, un territorio pericoloso quanto gravido di effetti e di risultati, e questo territorio è il Nulla, la sola determinazione con la quale può e deve fare i conti la poesia di oggi, soprattutto quando abbia la volontà di essere avanguardia: torna qui la “cattedrale”, il secondo termine della visione di Lawrence.
Mentre la poesia del Novecento è stata in larga parte positiva, o, se si preferisce, ha intrattenuto un rapporto solido o dialettico con il reale -da Laborintus (1956) di Sanguineti , definito da Zanzotto come “la trascrizione più fedele di un esaurimento nervoso”, a La ragazza Carla di Pagliarani (1960), da Gli strumenti umani di Vittorio Sereni (1965) a Le case della Vetra (1966) e a Gesta Romanorum (1967) di Giovanni Raboni fino a Composita solvantur (1994) di Fortini- da un certo punto in avanti ci si è trovati a poggiare i piedi su un terreno decisamente più instabile e insidioso.
Bruno Di Pietro comprende l’inevitabilità, per la nuova poesia, di farsi dappresso al nulla e sfidarlo, perché, mutate le condizioni del mondo e la percezione del Reale, l’unica costruzione che rimane alla la poesia è quel nulla e nient’altro.
Mantenersi nel Nulla, qui torniamo ad Heidegger, è l’unica condizione possibile per essere, l’unica indagine possibile nei limiti del finito, l’unica attività conoscitiva che non cada, rovinosamente, nell’errore.
La verità dell’Essere si lascia cogliere dall’uomo solo sulla base del Nulla, e occorrerà quindi ammettere che il nulla si manifesti come appartenente all’essere stesso, che esista coessenzialità dell’essere e del nulla.
“L’essere è una pura esigenza fra il linguaggio e il mondo. La cosa esige la propria dicibilità, e questa dicibilità è l’inteso della parola”, scrive Giorgio Agamben in L’uso dei corpi (Neri Pozza, 2014, p. 220).
non ci sono più siepi
ad escludere lo sguardo
e l’ultimo orizzonte
è ai tuoi piedi
(siedi
e guarda per terra) pag.9, ibidem
È un nodo concettuale di non lieve entità, e questo è chiarissimo a Bruno di Pietro che, tra l’altro, ha una solida formazione filosofica coltivata con amore nel corso degli anni, che costituisce la nota dominante
–in qualche caso il contrappunto- di molte delle sue opere in versi.
Lottando con questo assioma, però, Di Pietro riesce a rimodularne in qualche modo il paradigma quando, insperatamente, fa rientrare l’uomo -da una finestra, da una feritoia- nella Storia e nell’essente, in contraddizione con quanto affermato da Emanuele Severino (altro filosofo a lui caro e presente).
tanti quanti chicchi ha la granata
saranno i tuoi anni
e verranno tutti
a trovarti ogni giorno
mentre assapori i dolcissimi frutti
(e questo sarà l’unico ritorno) pag. 62, ibidem
Resta ancora, per concludere la visione di Blanchot e il dubbio di Lawrence che ho preso a pretesto per parlare d’altro, codificare un sistema di valori e darne una rappresentazione adeguata, elaborare la semantica più adatta a collocare Baie nella categoria che gli appartiene e chiarirne il lessico, definire il lato didascalico compreso tra il “peso infinito dell’opera” e la sua “leggerezza”.
Da questo punto di vista, l’impiantito sul quale poggiano le immagini evocate da Di Pietro è straordinariamente leggero, ed è curioso per un’opera che si rivolge a tutte le stagioni e a ogni tempo: Baie non recluta epigoni né domanda eredi, e non vorrebbe averne, preferendo invece camminare al fianco di ciascuno con l’unica eventualità di farsi sostegno o confronto, evitando di pronunciare vaticini dalla posizione del Poeta Orfico o secondo una discutibile autoinvestitura civile.
La cifra stilistica diventa ancora più esplicativa nei periodi conclusivi delle composizioni, dove la frase si fa frammentata ma, al contempo, risolta dalla chiusa come punto finale; il giro sintattico, al contrario, non si chiude ma piuttosto si afferma in una non-risolutezza, come a voler dare testimonianza anche linguisticamente di una ferita o di una mutilazione.
Così ricominciammo dal pomario
il bibliotecario acquisì i testi
Gli erboristi trovarono un mestiere
il cerusico a curare sofferenza
dopo secoli di assenza
La terra diede altra notizia di sé. Pag.69, ibidem
Il dialogo con sé stesso e con la figura femminile presente nelle liriche, realtà o archetipo, costella il dettato poetico di rivelazioni che seguono la quotidiana mutevolezza degli elementi e della natura senza mai arretrare, strappando la sostanza dei sentimenti umani attraverso le necessarie analogie o le considerazioni alle quali è indotto il lettore.
La relazione con il sé poetico è aperta ad un ascolto e a un dialogo vero con il mondo, con gli oggetti ai
quali si riesce a dare o a togliere valore, anche in costanza di un allontanamento delle parole della poesia: la “cattedrale” è tanto più vuota quanto più complesso è il meccanismo delle forze che la tengono in piedi, archi e volute e colonne, e quanto più affascinanti e perfetti sono gli affreschi che ne decorrano l’interno.
Non resta, quindi, che lasciarsi andare –con un abbandono ragionato, che obbedisca sempre a qualche legge o regola interna- a quel mare che in un tempo lontano ancora permetteva l’esistenza della poesia, il suo sopravvenire e il suo sopravvivere.
Non è un caso che la metrica di Di Pietro, anche quando sembri più docile o libera in apparenza, il suo andamento legato alla ritmica o alla prosodia, si rivolgano al Novecento come ad un porto sicuro, l’insenatura più consona alla sensibilità e alla poesia attuale.
Nel momento in cui prende atto che non sono più disponibili parole «nuove», Bruno Di Pietro propone un ritorno all’antico che non è banale citazione ma rilettura, rivisitazione organica dell’antico.
In questo modo dice anche, ed è il dono estremo del suo recente lavoro, che non è più possibile o utile lo sperimentalismo ardito di molti autori contemporanei, se non come salto di netto all’indietro, unica operazione per prendere all’amo la parola che appartiene alla nostra patria comune, che ne fonda la collettività.
Francesco Terracciano
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