Le tre carte incise di Franco D’Antuono sono monumentali non tanto per la dimensione, quanto per la potenza iconica che sprigionano. La sola loro presenza crea uno spazio di rarefazione, di silenzio, che ci accoglie come una cattedrale. Non è soltanto l’immacolata delicatezza del bianco a determinare la zona neutra, lo spazio riservato e raccolto che emana dalle carte, quanto la scoperta di una calligrafia senza lettere, di una campitura del foglio che non lascia intonso se non uno strettissimo bordo e che si erge come qualcosa che reclama una decifrazione, pur essendo solo una serie ritmica di marche.
Il ritmo è cifra simbolica. Istituisce una chiave di lettura che sorpassa le consapevolezze razionali per intridersi d’interiorità e far scattare alcuni grimaldelli. È un codice che appartiene al cosmo come all’essere umano. Il ritmo, calibrato con una manualità sapiente ed allenata, solca la carta, ne contrae o ne lascia intonse le fibre, facendoci riscoprire il ritmo che scandisce il nostro respiro. Qualcosa di pre-verbale e, al tempo stesso, di superbamente iconico, quasi come se solo dalla presenza della prima si potesse accedere e installarsi nella seconda.
La serie delle carte realizzata nel 1990 s’intitola “Sulla pelle”, come se lasciasse fuoriuscire dai tagli inferti col bisturi luce in forma fluida, plasma vitale. La colatura luminosa sembra bagnare le incisioni e, a sua volta, vi defluisce. La realizzazione di una simile opera nasce da una progettazione e da un allenamento che si rivela necessario affinché il gesto sia scorrevole e preciso, uguale, avente la medesima intensità. Il tempo scandito dal ritmo delle incisioni richiede perentoriamente di coincidere con il tempo dell’adesione all’opera, ecco perché dicevamo che, sia nel realizzarla sia nell’atto della fruizione, è necessario divenire una sola cosa con la scansione visiva determinata dalla segnatura procurata dal bisturi.
Le tre carte mostrano una diversa tessitura di segni incisi. Un certo sapore orientale spira tra di esse per la cura e l’attenzione portate al materiale e al gesto che lo trasforma, ma esse sono anche profondamente innestate nella tradizione occidentale che marca le distanze tra verbale e icononico.
Il segno non è certamente il prodotto di una macchina. La concentrazione per effettuare un tale lavoro coincide con un vuoto procurato dentro di sé: non è infatti questo un lavoro che si possa compiere nei ritagli di tempo. Richiede una dedizione mentale e fisica che la carta ci restituisce, reclamandone altrettanta da noi che ci accingiamo a comprenderla.
Un elemento fondante dell’immagine è il rapporto fra figura e fondo con il fondo/superficie che diviene figura, instaurando una scultura al suo minimo grado, poiché tutta basata sulle evenienze della superficie, sull’intercettazione di una luminosità che a tratti schiva il foglio e a tratti ne rimane intrappolata. La figura è la superficie stessa lavorata ad intaglio e consiste nell’alterazione ritmica della superficie.
Cavare le interiora di una superficie sarebbe azione paradossale se non si rivelasse concretissima. Scopriamo che anche la bidimensionalità di un materiale è un concetto da non accettare in maniera dogmatica. In arte, e solo in arte, pare possibile sfondare, pertanto, le usuali convenzioni.
Rosa Pierno
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