mercoledì 13 febbraio 2019

Ranieri Teti, Brevi riflessioni sui miei contemporanei: Fabio Teti, spazio di destot. Diaforia, 2015




Raramente ho letto virgole (in generale tutta la punteggiatura) così precise, così perfette nel creare una base ritmica talmente sincopata da contribuire a rendere, in accordo con il testo, asincrona una scrittura: asincrona anche rispetto ai più avanzati, e già storicizzati, esempi di prosa poetica. Non essendoci qui concessioni all’ovvio o a una facile lettura, prevale una materia diamantina proprio per durezza e purezza: non potrà essere lavorata, levigata e ridotta a orpello brillante.   
A tratti le parole di Fabio Teti sembrano nascere come note musicali, quelle atonali del novecento, senza un preciso oggetto o soggetto scatenante, se non l’idea: in questo caso l’ideazione è legata alle pratiche di assedio, spesso cruente, della lingua. Tutto sembra, soprattutto nella prima sezione, la versione letteraria di un noise.
Le parole di questa raccolta pongono il lettore di fronte a una nuova, audace, originale costruzione. 
Una tensione linguistica costante attraversa interamente il libro, scritto e allo stesso tempo crittato, per mezzo di un vocabolario che a un primo sguardo potrebbe sembrare istintivo e casuale, ma che in realtà pagina dopo pagina si dimostra in toto dissonante e sceltissimo, costitutivo dell’autore. 
“spazio di destot” chiama e allontana, crea parcellizzando.
La composizione del testo richiama un flusso costantemente interrotto, in tutto simile a un lungo, per niente facile, avvicinamento a un centro diffuso: la genesi infatti dice di un paziente e duro lavoro, di una verità cercata strenuamente nell’intimo, nell’imo, in uno spazio estremo o infinitesimo, nel nucleo radicale del linguaggio; ad esempio troviamo “il vostro sacerdote, crittografia e spazzatura” e un “morto nefelio di dormiveglia stanco”, oppure un “lo lego mentre lo leggo” che, portandoci al di là anche del senso, da questa oltranza continuano ancora a parlarci. 
Di frattura in frattura, di frammento in frase, semanticamente interviene l’accostamento inedito e impensato (“umore dell’amniotico, nel loculo,” ne rappresenta un reperto significativo, nella sintesi tra grembo e tomba) a rendere ancora più vasta la portata della scrittura di Teti: ricercare, e creare, un dire nell’intransitivo. 
Ma cosa dice, questa scrittura intransitiva, nel suo orizzonte di senso? Dice di una realtà molteplice e dei suoi avvenimenti simultanei, interiori (pensiero e corpo, fino all’anatomia) ed esterni (tra biologia, tecnologia, frammenti di quotidiano): come se l’autore usasse le potenzialità della diffrazione per illuminare zone d’ombra inesplorate, per rivelare qualcosa finora precluso.    
Questa ardita e difficile lezione testuale rappresenta una delle tante notevoli punte della poesia contemporanea. Ho scritto poesia nonostante la forma grafica sia prosastica: Fabio Teti è un poeta e, come afferma Andrea Raos nella nota finale, “uno dei talenti più sicuri della poesia italiana recente”. In fine va segnalata la cura editoriale di Daniele Poletti che arricchisce il volume con due pagine di inserti autografi: una ospita nel margine un testo inedito di Simona Menicocci, già di per sé autonomo e notevole, ma allo stesso tempo straordinariamente aderente al libro che lo contiene.

                                                                                             Ranieri Teti



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