mercoledì 2 marzo 2016

Stefano Iori “Sottopelle” Kolibris, 2013


Il silenzio e la paura determinano l’atmosfera in cui i sogni hanno luogo, non come qualcosa che salga dall’inconscio, ma come qualcosa di concretissimo, di cui il corpo si fa termometro e che, appunto, corre sottopelle, come recita il titolo della silloge di Stefano Iori del 2013. È di tutta rilevanza che sia la consapevolezza a creare la scena in cui il sogno, a occhi aperti, naturalmente, sgorga: “vortici lenti / di sciamanti traversìe / avvolte da alghe di mare”. La scenografia prevede, nelle note per la realizzazione, anche la scansione di un tempo lento, dolce, senza scosse, che avvolge nelle sue spire rallentando il respiro. Dal corpo non si scappa. Niente di mentale in assoluto sotto il sole.

Assistiamo a varie prove: l’allestimento scenico determina un particolare impulso percettivo/emotivo: oggetti determinano reazioni soggettive. La scena potrà dunque essere caratterizzata da una finestra su cui si osservano le gocce di pioggia scorrere sulle incrostazioni delle precedenti oppure la descrizione di una casa al terzo piano o di una zanzara. Da qualsiasi cosa il poeta si diparta ritorna al sé, a un soggetto che si ritrova, che si riconosce.   Poiché crediamo sia questo il cuore pulsante della raccolta, il moto di esistenza che il soggetto riceve dall’esterno, in un dialogo unilaterale e strumentale che mette in luce l’atto di disvelamento fondamentale. Operazione certamente in disuso nella gran parte della produzione contemporanea, ma di cui non si può non riconoscere l’importanza, anche sullo sfondo di certa filosofia francese, si pensi a un Barthes o a un Derrida che lavorano, invece, per il suo annullamento.

Il soggetto è l’unica cosa che abbiamo e nonostante ciò sappiamo che è mutevole e proteiforme, anche in senso negativo, cangiando come  pelle di  camaleonte. L’io con cui abbiamo a che fare è incostante e infido eppure è con lui e su di lui che bisogna lavorare per costruire il proprio progetto d’umanità: “Mi vedo sfocato sul lucido metallo, / come un’ombra lontana, /  e ciò mi turba ogni volta”.

Ma scendiamo nel dettaglio del lavoro compiuto da Iori per scoprire più da vicino le caratteristiche di ciò che dissotterra/costruisce. Sappiamo benissimo che il soggetto è una creazione culturale e per questo è determinante comprendere ogni volta che tipo di definizione o utilizzo se ne tragga. Lo ricaviamo direttamente dalla voce di Iori: “Così abbandono  / l’ultimo appiglio / e frano nel cielo (buio), / sperando di capire, / sperando di ritornare, / con voglia di rinascere / oltre l’orrore /del pensiero mutilato”. Ecco, c’è subito da recepire che Iori pone il soggetto in relazione ai suoi limiti, ai limiti della specie. In questo senso potremmo affermare che, lontani dal lirismo, siamo nella sfera di un’interrogazione etica che coinvolge il destino umano.

A questo punto si può collocare la malinconia, il tempo immobile della riflessione, la stasi determinata dallo stallo conoscitivo (“Gioia malinconica / che piange sorrisi”) non come oggetto tema, ma come portato di una consapevolezza: l’uomo è chiamato a rispondere dei suoi atti, degli atti storici, degli atti collettivi e di fronte a essi il singolo si sente inane.   Tuttavia, in ogni caso, rispondere è atto dovuto, atto responsabile. Sentire che ci si deve attivare è appunto ciò che configura l’atto etico. Così come a fare da contraltare alla pienezza dell’angoscia sta una volontaria disposizione alla leggerezza, alla speranza determinata proprio dal porsi il problema: “Quel minuto bagliore /che viene puntuale / a scandire lieve / l’avvio di giorni”.       



                                                                               Rosa Pierno

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