lunedì 19 agosto 2013

NOTE SULLA RICERCA LETTERARIA DI “ANTEREM”, QUARTA SERIE DELLA RIVISTA: 1993-2001



Figure della duplicità


Il nome “Anterem”
Il nome “Anterem” nasce porgendo attenzione al valore originario della parola, chiamata a essere il luogo di raccordo tra sensibilità e percezione. Questa espressione fa cenno all’«= 0» hölderliniano (Il significato delle tragedie e Mnemosyne) che – evocando l’«uguale a zero» di Sofocle (Edipo re) – richiama quel «procedimento dello spirito poetico» che impone all’essere e all’esistere di presentarsi privi di separazione, indivisi, e tuttavia reciprocamente distinti.
Altri riferimenti si trovano nelle «archai» che Nietzsche colloca nel «sottosuolo della storia» (Umano, troppo umano) e che Deleuze e Guattari affidano a quella parola rizomatica (Rizoma) a cui è dedicata la prima serie della rivista (1976-78).
Ma l’opera su cui esplicitamente fa presa il nome “Anterem” è la Scienza nuova di Vico, dove leggiamo: «Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso, ed è propietà de’ fanciulli di prendere cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti».
Sarà lo stesso Vico a citare a questo proposito una riflessione di Spinoza: «La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio».

Figure della duplicità
La quarta serie della rivista (1993-2001) è dedicata alle Figure della duplicità.
In queste pagine viene, sì, ribadito che nell’alleanza tra parola poetica e parola cognitiva sta la strada percorribile per l’esperienza di pensiero del poeta; ma si annuncia altresì che ulteriori e decisivi spostamenti vanno compiuti. Utili a introdurci in una tonalità poetica ancor più complessa e rischiosa. In una pratica della scrittura di cui non è agevole immaginare i contorni e gli esiti. Uno scrivere che della parola sconvolga i margini, alteri i limiti e mostri le irrisolte contraddizioni. Uno scrivere che si volga alla produzione di segni di nascondimento, dove la parola produca i termini del silenzio da cui trae origine.
Diciamo subito che il cammino di pensiero che cerca di esporsi da se stesso sull’orlo dell’enigmaticità, e di corrispondere all’evento della risposta come evento sempre originario, è ancora lungo.
Ma cominciamo intanto a prendere distanza da una fisica del puro sentire e del mero pensare. Con l’auspicio che non vada confusa la kantiana “assenza di finalità” della letteratura con l’assenza di “responsabilità”.
Responsabilità che va cercata nell’altrimenti di una scrittura che non proceda pietrificando le cose nei concetti e nelle idee. E che si faccia carico di un compito non più solo estetico, ma anche etico. Che concepisca la duplicità – quell’inaugurale, arcaica convertibilità di presenza e assenza, essere e nulla, bene e male, che è la libertà – senza la sopraffazione di un potere. Ed elabori un pensiero che oltre il potere sia pensabile, e sia rivolto alla verità dell’uomo, del suo essere al mondo, del mondo stesso.
Ogni opera milita sempre per una certa parte: prende partito, insomma.
In generale, la poesia è un’obiezione contro questa realtà.
Come “Anterem” intenda la duplicità viene messo in rilievo nel numero dedicato all’Endiadi (n. 59, dicembre 1999).
Endiadi, hén diá dyóin, uno per mezzo di due: non una generica ambiguità, ma l’“endiadi”, la vera e propria irriducibile compresenza del due-in-uno.
S’impone, con questa figura della duplicità, la controversa questione sul senso che nel testo si articola quando nella parola viene ripristinata l’inaugurale coappartenenza tra voce e silenzio, mantenendo ferma la differenza che il mondo, costituendosi in categorie, sopprime.
Ciò che gli esseri umani non intendono è il coincidere degli opposti. Eraclito è esplicito a questo proposito: «Non intendono come da sé discordando con sé concordi». Per gli uomini ciò che diverge non può nel medesimo tempo convergere... In realtà, la parola poetica concorda con se stessa proprio mentre da se stessa discorda. E ce lo dimostra conducendoci proprio dove i contrari sono complementari e gli opposti si richiamano. Dove l’uno contiene in sé anche il suo contrario ed è un’endiadi.
Portarsi all’origine di questa lacerazione significa esattamente cogliere la coscienza umana al suo sorgere, il formarsi dell’essere come custode della differenza. Fino a riconoscere l’Altro da sé e mantenerlo nella sua alterità, ottenendo dall’opposizione un accordo.
Ma com’è pensabile l’armonia dei differenti? e, insieme, il doppio sguardo che implica il loro confinare?
Oggi la poesia è assenso all’essere attraversato dal silenzio. E proprio di quel silenzio – in cammino verso il senso – costituisce una rivelazione.
La sua avventura si svolge tra gli estremi di un pendolo, la cui aporeticità è data dal richiamo dell’uno all’altro, suo volto speculare, confine di un dualismo costitutivo e massima distanza. Per questo implica un rispondere e un corrispondere: chi ascolta è chiamato.

Flavio Ermini

1 commento:

Anonimo ha detto...

Una delle poche riviste che continuo a seguire!