giovedì 13 giugno 2013

François Jullien “Il nudo impossibile” Luca Sossella Editore, 2004

All’interno della cultura cinese, è il tema del nudo che questa volta François Jullien indaga: tema tanto ricorrente in Occidente quanto rimasto completamente ignorato in Oriente. Tant’è che egli parte da un’affermazione perentoria: il nudo sarebbe proprio la stessa cosa che fonda la filosofia: la cosa stessa, l’in-sé, l’essenza e pertanto egli si chiede se a monte della filosofia il nudo non possa dunque essere un partito preso del pensiero relativo al modo di rapportarsi al reale e, di conseguenza, si interroga su che cosa abbia impedito lo sviluppo del nudo in Cina,  in ciò, naturalmente,  coinvolgendo il problema della rappresentazione e dell’arte. Il nudo non è mai stato preso in consegna dall’arte, non si è mai separato dalla nudità intesa in senso pornografico. Perlustrando le immagini cinesi, egli rileva che non c’è una “raffigurazione umana distinta dal resto”, dal paesaggio, ad esempio,   e che “la pittura del soggetto umano risulta dispersa sotto più voci, non possiede uno statuto di genere”. Il nudo, estraendo l’uomo “dalla differenza di epoche e di condizioni”, comporta che si risponda alla domanda “che cos’è l’uomo nella sua generalità?”. E poiché la Cina non si è mai posta tale domanda “ha sviluppato una saggezza, ma non una filosofia”. Pertanto è intorno al rifiuto della cultura cinese di identificare un’essenza relativa all’uomo che ora Jullien appunta la sua attenzione, in quanto “soltanto l’uomo è – e può essere nudo”, e in questo, appunto, risulterebbe la sua essenza.

Il filosofo francese, dopo avere esplicitato la sua tesi, effettua un confronto tra alcune opere occidentali e orientali:ne risulta che il corpo nelle immagini cinesi è sempre in relazione con il paesaggio, istituendo una co-originarietà, poiché sono entrambi concrezioni di energia. Se nel mondo greco, la forma, “come archetipo, fonda e struttura il mondo platonico delle idee”, fino a istituire la coincidenza della forma con l’essere, nel mondo cinese, non è stata concepita una forma intellegibile al di là del sensibile, e neppure una forma immutabile che sia un’essenza. In breve, la Cina antica (prebuddista) è senza una metafisica”. Essa, infatti, non concepisce essenze, ma processi, i quali designano un’attualizzazione in corso e, cioè, qualcosa che “uscendo dall’indifferenziazione del senza forma” è destinato a tornarvi. Tutto dunque vi figura come soggetto a una trasformazione, in cui, fra l’altro, visibile e invisibile non sono separabili in modo netto.    Per sgombrare il campo dalle inevitabili sovrapposizioni che si istituiscono nel confronto di due oggetti che si vogliono porre come radicalmente separati, Jullien ulteriormente segnala che se la forma in Cina è considerata un vettore per lo spirito che si espande al di là di essa, lo stesso deve dirsi anche per il Nudo in quanto “la forma è in superamento: essa è tesa al di là di se stessa, verso la forma ideale”, tuttavia, “la Cina non ha conosciuto la nozione di ideale – né di conseguenza di forma ideale – perché non ha concepito un Esterno al mondo dei processi”.  Ciò vale anche per l’armonia, concetto al centro dell’interesse di entrambe le culture, ma che ha visto una diversa caratterizzazione (“i diversi elementi che concorrono nell’unità dell’insieme” in Crisippo e l’armonia dal punto di vista di un processo che varia per alternanza, celebrato dal pensiero della regolazione” nella cultura cinese). In aggiunta, Jullien definisce come indiziale la cultura cinese poiché “mancano in essa sia l’allegorico che il nozionale” e come simbolica la cultura europea, la quale “richiede un’interpretazione per ricostruirne sul piano ideale il significato”.

La perlustrazione effettuata dal filosofo francese delle rappresentazioni della pittura cinese ed europea, come pure dei testi filosofici occidentali o letterari cinesi, (senza prendere in considerazione, fra l’altro, che esiste irriducibilità tra testo e immagine e che non si possono condurre analisi sui testi come se essi coincidessero con le opere d’arte) un po’ risente del postulato che separa nettamente i due ambiti come se non si desse nessuno degli elementi definiti per l’arte occidentale in quella cinese e viceversa. Lui stesso ammette che non vede niente di peggio ”delle generalizzazioni culturali”, ma ribadisce che a suo avviso la cultura europea sia rimasta ossessionata dall’idea di “Altrove (di un altro mondo) e si trovi indelebilmente segnata da questa aspirazione”. Il che equivale a rendere una cultura manchevole rispetto a un’altra o caratterizzata al punto da non avere sviluppato nelle sue  innumerevoli forme anche la posizione opposta.
E vogliamo riportare l’esempio che Jullien porge riguardo all’intenzionalità del pittore cinese, il quale esalta, anziché l’oggetto che ha dinanzi, che per lui non sarebbe mai “completamente oggettivabile”, lo spirito che lo incarna, poiché immediato il nostro ricordo va all’opera di Giacometti. O ancora si può opinare sul fatto che i giardini francesi si fisserebbero “come in un quadro, in modo panoramico”, mentre un giardino cinese si potrebbe ricomporre solo a posteriori nel proprio spirito, poiché questa è una lettura parziale dell’uno come dell’altro caso. Questo non per mettere in dubbio le profonde analisi compiute da Jullien, quanto per non perdere mai di vista la capacità dell’arte di  assumere valenze che mettono in discussione i postulati e i concetti, le suddivisioni e le categorie nelle quali crediamo di poterla incasellare. 
                                                                                                      

                                                                                   Rosa Pierno


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