domenica 3 marzo 2013

Tre poesie inedite di Giorgio Bonacini, 2013



I
Se sono i fantasmi a veicolare le cose sensibili e con esse le sensazioni di colui che scrive,  allora già solo per questo la vita si fa più calorosa e vivida, in una sorta di contraccolpo, che riesce a delineare persino un avvenire. E’ così disegnato da Giorgio Bonacini, con stringatissimi elementi, l’ambiente, la scenografia chiusa e claustrofobica, da esperimento, in cui il soggetto si sente rinchiuso e in cui fa esperienza del fantasma, che parrebbe essere, appunto la vita che si palesa fra spettrali alberi, o contro il buio in cui bisogna risiedere per rincorrere le proprie visioni. Eppure concretissime, capaci di assumere un ruolo, di resistere all’indagine.
II
Da che cosa proviene questa proiezione mnemonica, che sembra volere solo il proprio annientamento? Tenace, inevitabile nel suo imporsi, capace di far risorgere ciò che sta tradendo per meglio farlo emergere. Pura voce altrui, flebile e persistente, “canto futile”, proveniente da non si da dove, “destinato a dire altro / senza lingua”. Se riuscisse a esprimere l’indicibile trascinerebbe inevitabilmente l’idea in un’imperfezione, anche se la poesia vi sarebbe ancora avulsa dalla voce particolare di un poeta.
III
Guardingo, il poeta esamina la pretesa di naturalezza e veridicità della poesia, “l’immediata conoscenza delle cose” che essa sembra conseguire in un percorso che interseca natura e ricordi, rappresentazione e sensazioni, poiché, in ogni caso non assommano esistenza. Il senso che ammanta “insospettisce”, poiché troppo facile appare, vera  e propria illusione, la coincidenza tra ciò che si vive e ciò che viene espresso tramite la lingua e per conto delle cose.  

Le tre poesie disegnano cerchi che si sovrappongono, ma non si saldano, nessun elemento si lega con il successivo, ogni questione vi resta sospesa poiché il poeta riconosce la loro incompenetrabilità. Lo stile utilizzato in questa ultima prova da Bonacini riesce a mantenere un miracoloso equilibrio tra il pessimismo e la levità, complice l’uso di   lessemi che costituiscono coppie oppositive: i ricordi e i gesti,  le nebbie e  i colori, ciò che è immobile e ciò che è fulmineo, ciò che brucia e  ciò che gela, ciò che è lapideo e ciò che avvolge, svelando una struttura che se mette in luce le incompatibilità dei concetti, pure ne fa divampare scintille di attrito, contatti a pieno titolo nell’asciutta brevità del verso. La poesia vi compare in doppia veste: nel ruolo di svelare e di far dimenticare, di dare vita e togliere consistenza, di essere impersonale, eppure di palesarsi con voce e corpo. Un’idea della poesia, alfine, di anelli disgiunti, carnalmente risonanti.

                       Mangiare quella siepe
ridurre la sua immagine a un cervello per la neve

Vedere le voci
toccare i fantasmi
annusare
i ricordi e di colpo
capire anche
i gesti abituali –
le nebbie
e i colori, i deserti
sgomenti in ascolto
di rondini, lacrime e lave.

Dai bordi del viso
alle palpebre
agli occhi
dal mento alle guance
intuisci un disagio
che allinea tra i denti
per rompere
il freddo di qua:
dove ancora di colpo
c’è vita a venire.

E’un’ansia innocente
bianchissima, rara
più densa
del buio che occorre
all’oscuro per darsi
al gigante
e dividere a caso
tra l’albero e il fiume
un attrito avvolgente
e fulmineo di pelle.

Ma il freddo
ora sembra agitare
la trama di un sole
che arriva
alla neve e potrebbe
stupire - diffondere
un brivido, un germe
un’immagine ancora
non vista vedere
né al tatto svanire.


L’aria che ci perde e che ci assiste
il cielo parla senza chiederne la voce


Che memoria sarà mai
quella che attende
di nascosto
l’invasione di un oblio –
specchio di nulla
e decadente
ora riflette un’aria
immobile, deserta
tesa nell’istante
in cui non sai ciò
che ricordi o se hai ricordi.

Ma un voce
anche se fosse uno sbadiglio
nel trapasso, non si perde –
può apparire
in mezzo ai simboli
del caso e intimorire
trascinarsi nel disordine
di un vuoto
più isolato, ma portare
nel contatto di un azzurro
a immaginare
ciò che è o che tradisce.

E sembra sorgere
da un luogo improvvisato
il manufatto
che si piega e si consuma
e incontra il vento
e la parola di chi dice
è un canto futile, dissimile
un inverno
destinato a dire altro
senza lingua, senza luogo
senza niente
di pronuncia e di bruciato.

Cosa importa
un’elegia sopra le nuvole –
anche potendo
reclamarne l’invisibile
a patire, esaurirebbe
in un difetto
la sua idea, la consistenza
di un esempio
di poesia senza l’affanno
o le intrusioni
o l’ingiustizia del poeta.



Non un lamento né un verbo di più
oltre i limiti chiari e spietati

Un grado di calore
mi riveste –
anche buttandomi
nel fiume, anche
stringendomi alle foglie
mi ricopre –
è la misura di un timore  
il sotterfugio
che respinge nella notte
 l’immediata
conoscenza delle cose.

Ma tu lascia che la luce
si diffonda e buchi
e strappi in alto
imprecisata
e rapida – la linea
che descrivi come l’orbita
di un dubbio
o un viso storto
ora discende inalterata
sui ricordi
li nasconde tra la curva
delle labbra e li raccoglie.

Ma il soffio che rimane
assorbe il gelo
porta fuoco senza peso
un sentimento
innaturale tra le palpebre
e le labbra –
il tono dei lamenti
che discende
è inaccettabile, una sabbia
un’ombra inabile
che assorbe e non avvolge.

Fuori la stagione
si prepara – le foglie
che divampano ci scrutano
con fare lapidario
 e il senso che ci avvolge
insospettisce –                        
è la stessa ondulazione
di un sorriso
il ritmo che addormenta
e parla a vanvera                            
per conto
della lingua e delle cose.

                               Giorgio Bonacini

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