venerdì 9 settembre 2011

Walter Benjamin “Infanzia berlinese” Einaudi


Che un filosofo possa scrivere un’opera letteraria non è sorprendente. Lo è quando l’opera è un capolavoro: si pensi a un’opera per tutte: il “Simposio “di Platone. Anche “Infanzia berlinese” di Walter Benjamin è un’opera letteraria a pieno titolo. L’infanzia   a Berlino è il collante che tiene insieme i brevissimi paragrafi che si susseguono nel libro, i quali se presi uno per uno, così come si prenderebbero i singoli fiocchi di neve, si scioglierebbero fra le mani, per delicatezza e impalpabilità, pur dotati di disegno preciso: particolari e unici. Presi nella loro totalità, invece, si compattano in una sostanza che ha una proiezione eidetica fortissima: il rapporto col presente in funzione del futuro. Quasi uno sforzo di predizione in cui la mappa della realtà si configura come mappa indiziale, già grondante della conformazione che essa assumerà inevitabilmente nel futuro.     E, insieme,  contenente ciò che nel futuro è destinato a perdersi, a non essere più visibile. Si stagliano, su questo sfondo, i due temi che sono l’oggetto della narrazione: l’infanzia, e, più che Berlino - la quale è soltanto riconoscibile nella toponomastica e nelle atmosfere - la storia della Germania durante la Seconda Guerra Mondiale. L’infanzia è uno stadio dell’essere umano in cui sono già presenti tutte le caratteristiche dell’individuo adulto: le percezioni vi hanno una chiarezza e una limpidezza esemplare. Se a questo si aggiunge l’incombente proiezione di tragici eventi  storici la cui bestialità è inaccettabile e incomprensibile, unicamente distruttivi di ogni principio morale, esistenziale e sociale, allora si riuscirà a comprendere quanto le percezioni dell’infanzia si leghino in Benjamin al disastro che ha cancellato l’infanzia stessa, in quanto ne ha anche spazzato via i segni sostituendoli con quelli di un abbagliante terrore. Benjamin ha voluto uscire prematuramente di scena, non resistendo a tale orrida visione. Non si può leggere il libro se non avendo sempre presente questo doppio taglio temporale, del presente in quanto ricordo eterno poiché stratificato nell’infanzia e del futuro che si sta avventando sull’adulto con la sua capacità distruttiva. Non ci può essere, infatti, più nessun punto di contatto fra il presente del bambino riattualizzato nella scrittura e il presente dell’adulto nel periodo storico in cui Benjamin ha vissuto.   E’ questo che rende non confrontabile “Infanzia berlinese” con “La ricerca del tempo perduto“ di Proust, di cui Benjamin è stato traduttore e di cui si avvertono i pur molteplici stimoli nella sua opera. Lo schiacciamento, il precipitare del tempo presente è talmente concreto che risulta innaturale pensare che il racconto sia collocato in un tempo remoto. Il tempo trascorso è definitivamente perduto. Se la madeleine proustiana rende il ricordo indistinguibile dalla realtà presente - passato che si sostituisce al presente tramite la memoria - l’epifania benjaminiana è già bruciata ai bordi, ingiallita nei colori, carica di elementi devianti che ne minano la vivibilità, la sostituzione perfetta col presente. Denunciano il futuro, avvisano che è sempre possibile leggere nella propria esistenza le linee che gli eventi seguiranno, quasi una predizione cassandriana che dovrebbe consentire di non accettare supinamente ciò che ci renderà così irrimediabilmente diversi.  Molti sono i punti in cui Walter Benjamin esplicita questi rapporti con il tempo; si pensi alla frase, bellissima: “L’orologio nel cortile della scuola sembrava danneggiato dalla mia colpa. Segnava “un ritardo””.  La prosa di Benjamin si snoda attraverso metafore che istituiscono la fisionomia dell’interiorità tramite la percezione dell’esterno: “un polveroso tetto di foglie sfiorava mille volte al giorno il muro della casa, lo strusciare dei rami fu per me un apprendistato di cui non ero all’altezza. Perché nel cortile tutto per me si tramutava in cenno”. Ove imprescindibile e non recidibile resta il rapporto tra ciò che si vede e riflessione, e se risalente all’infanzia, attesta il modo in cui il bambino ha costruito se stesso come uomo. In ogni paragrafo, tali metafore costituiscono  la chiave di lettura della relazione dell’adulto con i propri ricordi e della relazione che l’adulto può intrattenere con il bambino che è stato. Poiché l’adulto precipita allo stesso modo sul bambino, collassando insieme al tempo. La lettura di queste epifanie, in cui il bambino scopre il mondo insieme a se stesso, ci dà modo di meglio comprendere lo stile filosofico di Benjamin, ove le idee mai verranno separate dall’esperienza.

Rosa Pierno

1 commento:

r.m. ha detto...

A questo testo rarefatto ho dedicato un mio ex libris e mi complimento per la Sua lettura che trovo incisiva, ben articolata, con simpatia
r.m.