giovedì 5 maggio 2011

Jean-Baptiste Siméon Chardin visto da Pierre Rosenberg e Gil Jouanard


Utilizzano due metodi opposti Pierre Rosenberg e Gil Jouanard nell’affrontare uno dei pittori più straordinari nella storia dell’arte, soprattutto in relazione agli sviluppi a cui daranno luogo le sue opere: Jean-Baptiste Siméon Chardin. Se Rosenberg nel suo “Chardin”, Abscondita 2010, avvicina l’oggetto da storico e riporta fedelmente notizie riguardanti sia la sua esistenza sia i giudizi critici formulati dai contemporanei del pittore, sia le quotazioni sia l’andamento delle sue vendite e risulta, inoltre, estremamente parco nella descrizione delle opere, nel restituirne in forma letteraria una descrizione valutativa,  Jouanard, invece, nel suo “Bonjour, monsieur Chardin!”, Pagine d’arte 2001, taglia la testa al toro: elimina tutto ciò che inerisce all’esistenza del pittore e affronta esclusivamente l’opera, cioè “quella fragilità eterna, quell’istante perpetuo, di cui saremo stati gli intercessori”.

Poiché, per Gil Jouanard, la realtà umana di Chardin svanisce dietro quell’altra realtà creata dalle sue opere, le quali rappresentano oggetti che significano esclusivamente quello che sono: oggetti utilitari sbreccati, consumati dall’uso quotidiano. Eppure, lo sguardo non si arresta sulla loro consistenza materica e Jouanard in un attimo grazie ad essa salta di scala, passa alla natura, alla “foresta dalla quale proviene il legno con cui è stato fatto il mortaio”, anzi ora è la foresta a occupare la scena e al medesimo modo dagli ortaggi disposti sulla tavola di legno egli passa all’immagine dell’orto. E’ lo stesso Jouanard a effettuare un richiamo a se stesso per restare aderente  a quello che si vede, prendendo alla lettera la presunta modestia di Chardin, tutta giocata su “quelle superfici lisce, così propizie alla rifrazione e al riverbero del più piccolo raggio di luce che le colpisce”. Eppure, se ci si deve attenere alla volontà di Chardin di “riprodurre il più esattamente possibile la fattura, la struttura, la  realtà  degli oggetti” altrettanto si devono notare le “ondate di sensazioni scaturite dal più profondo dell’umano piacere”.  Per Jouanard, infatti, è questo l’accesso spalancato sull’”abisso ignoto, quell’insondabile fugacità”, attraverso cui egli può cogliere l’occasione di avversare certa arte contemporanea che dà la stura a proclami di doppio e triplice senso riguardo a ogni suo più piccolo gesto, mentre, nelle opere di Chardin sembra avvenire esattamente l’inverso: è proprio il suo tentativo di catturare le apparenze più fugaci delle realtà che consente ai fruitori di aprirsi alla conoscenza, di formulare un nugolo di interrogativi, di essere risucchiato nel vortice dove tutto si perde, si frantuma” e si fa sensazione,  scagliandoli “nel mondo per la prima volta”, restituendo loro i sensi, fino a dove “risplende l’assoluta non-intenzionalità di Chardin”. E’ l’estasi contemplativa che attraverso lo svuotamento prodotto in noi dalle opere ci rende all’improvviso particella dell’universo. Chardin è andato “a braccare la verità nel vero piuttosto che nel miraggio metafisico e nei discorsi di principio”. Se essere contemporaneo significa essere sempre presenti, Chardin è nostro contemporaneo: nei suoi utensili così familiari, noi riscopriamo “significati che si susseguono all’infinito, scaturiti l’uno dall’altro come strati sovrapposti nella memoria collettiva dell’umanità”.

Pierre Rosenberg, con il suo lavoro teso a restituirci pittore e opera insieme, accerchia entrambi attraverso le testimonianze, non indulgendo a interpretazioni personali, se non quelle inerenti alla cernita e alla valutazione delle stesse. Il critico si concentra moltissimo sulla pennellata, grassa e granulosa, sulle specificità formali dei quadri, sul confronto tra essi e quelli coevi, lavorando come uno scultore intorno ai materiali per fare emergere sia la complessità delle opere sia le loro relazioni con la società e il momento storico in cui esse si collocano.  Rosenberg insegue l’artista attraverso la “conoscenza dei grandi maestri olandesi, non diretta, ma profonda”. Da Largillierre a Veemer, da Rembrandt a Piazzetta, Rosenberg traccia archi di cerchio che delineano l’insieme dei prestiti, delle derivazioni, delle comuni passioni e modalità espressive, tracciando al contempo ciò che differenzia Chardin dagli altri artisti a lui contemporanei. Nessun disegno preparatorio, Chardin lavora dal vero, dai modelli che ha in casa,  proprio la modalità che nel Settecento è considerata di minor valore, visto che si predilige l’immaginazione, il tema storico. Non è casuale che Chardin venga riscoperto dagli impressionisti: la composizione lo rivela “precursore di Cezanne, la sua pennellata esalta Van Gogh”. Rosenberg cita il silenzio che emana dalle tele che riproducono quasi sempre il medesimo gesto e indica in Chardin un”amore sconfinato per l’infanzia e i suoi giochi” e per la caccia. In ogni caso la messe di citazioni tratta dai testi critici che si occupano di Chardin, spesso non riesce a restituire l’emozione che si prova dinanzi ai suoi quadri. Diderot, stesso faticherà e sarà guidato da Chardin stesso, maestro nel parlare della propria opera. Ma incomparabilmente meglio mostreranno quale sia stato il lascito di tale fecondissima lezione proprio le opere degli artisti che trarranno da lui ispirazione: Corot, Picasso, Gris, Braque, Morandi, in un’altrettanto ricchissima carrellata che quella relativa alle fonti. Vogliamo concludere con una frase di Rosenberg, con cui ci è sembrato fosse consonante anche Jouanard: “catturata da quei frutti, da quegli oggetti, l’attenzione si attarda  e scopre, al di là delle apparenze, l’aspetto sconosciuto del mondo che ci circonda”. Due libri imprescindibili per illuminare la nostra comprensione di Chardin.

                                                                                         Rosa Pierno

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