giovedì 6 novembre 2025

Marco Palladini “Noi siamo altri. Materiali per una diegesi familiare”, Zona 2025

 


Un’autobiografia costruita attraverso la storia della propria famiglia, a mosaico, come precisa l’autore, Marco Palladini, è Noi siamo altri. Materiali per una diegesi familiare, Zona 2025. Essendo lo scrittore, oramai, l’unico superstite del nucleo familiare, sono i documenti, le videoregistrazioni e gli oggetti a innescare una memoria che è la vera protagonista del romanzo. Palladini, però, ci avvisa immantinente che «come l’Io, pure il Noi è una finzione, e che il rammemorare è poi anche, pur sempre, un inventare, un immaginare una o più storie in cui credendo di vedere noi stessi, in realtà vediamo altri da noi, pur se in qualche modo essi ci concernono o riflettono». A complicare la faccenda è, nel romanzo, il soggetto, il quale si scinde in autore, commentatore, critico, storico. La serie di modelli che si possono enucleare dal testo, difatti, si riassorbono in una fisionomia indeterminabile. E, pur tuttavia, l’impossibilità di definire l’informe Io non è che il risultato di una posizione, poiché, in altri momenti, da altre specole, si potrebbe capovolgere l’aforisma di Wilde e proclamare che solo gli imbecilli cambiano sempre idea, come ci rammenta Palladini in difesa di una coerenza d’impianto teorica con cui di fatto lo scrittore redige, ciò nonostante, l’Io e che vale come postura etica. 

Nell’universo letterario palladiniano, le regole mitiche della fiction letteraria non corrispondono a quelle immaginarie della tradizione. Il testo non identifica né lo stato di coscienza individuale dello scrittore né l’opera stessa, la quale dovrebbe esistere come oggetto estetico che persista nella coscienza di tutta la collettività. Ma anche quest’ultima appare fantasmatica. Vi è un susseguirsi di notizie storicizzate, vi è il loro sviluppo, vi sono protagonisti che, di volta in volta, vengono ritagliati in funzione del ruolo: il padre antifascista, il fratello che soffre di schizofrenia, la madre sfuggente, la nonna capace di comprenderlo più della madre.  Rispetto ai fatti storici, l’individuo sembra avere a sua disposizione solo due stati: aderisce o non aderisce empaticamente  alla persona che gli sta dinanzi? Dai doveri alla liberalità, dal seguire la Chiesa al manifestare, ogni presenza familiare sembra essere determinata dallo sfondo, dal contesto. Interrogare gli oggetti, le fotografie, i video che i parenti hanno prodotto si rivela a tratti deludente: non sempre se ne trae qualcosa di significativo. È come se la vita fosse non interpretabile: stare al sole, nuotare, correre nel prato, abbracciare la mamma o stare a cavalcioni del papà sembrano essere solo quello che sono: istanti di vita. Soltanto la memoria può ricamarci sopra, credendo persino a quello che non è stato ovvero che esistesse qualcosa che non si è potuto decifrare. Palladini pensa che la filosofia marxiana non serva a «penetrare nelle latebre della psiche individuale e collettiva»: con essa non si può spiegare la malattia mentale o l’anaffettività di una persona. Il richiamo alla catena filogenetica familiare appare come l’elemento che non può mancare, ma che attesta più dell’esistenza di un mistero, acuendolo, che di una soluzione.

Anche il rifiuto di escludere le illusioni fa parte della ricchezza complessiva del quadro composto da Palladini. Una rigida adesione a ideologie, pratiche e prassi di taglio scientifico, più rigide e settarie soprattutto quando sono veicolate come insegnamento da elargire alle masse (ossia il lato peggiore della scienza) risultano per lui inadeguate e censorie. Si veda il giudizio sulla legge Basaglia: «benemerita per un verso, per avere abolito i manicomi lager, disastrosa per un altro verso per avere indotto a credere che i malati di mente sono vittime della società e che, liberati, potessero guarire da soli. Pazzia su pazzia mi verrebbe da commentare». 

Il romanzo di Marco Palladini è costruito utilizzando generi diversi: l’autobiografia, l’intervista, il saggio storico, la poesia, il resoconto di viaggio, la critica letteraria, il testo teatrale. Con tutte queste forme, lo scrittore cerca di assediare il vero, a tratti, accerchiandolo con una sorta di movimento panoramico da cui sparare le sue cartucce come se avesse di fronte anziché il padre, diversi bersagli: l’uomo che ha vissuto durante il fascismo, che è stato prigioniero di guerra, il genitore, il marito, il libertario, lo studente, il lavoratore. È una sorta di assonometria esplosa. Vi si possono vedere contemporaneamente aspetti esterni (politici, sociali, culturali) e aspetti interiori. Tuttavia, la sensazione finale è la persistente fuggevolezza del risultato. È un uomo di cui il lettore, ora, ritiene alcune informazioni, anche molto dettagliate, ma mai sufficienti a fargli affermare di conoscerlo. A dare questa sensazione di indeterminatezza è proprio l’analisi spinta fino al minimo dettaglio, la successione dei punti di vista, la maniacalità della ricerca. È come se il giocattolo romanzo venisse rotto per vedere che cosa c’è dentro. Romanzo non come mera registrazione dell’esistente. Difatti, quel che deve essere decifrato è lo stile dell’opera letteraria (scritture, forme retoriche, modi di  narrazione, tecniche di percezione), in quanto scienza dell’espressione e in quanto caratterizzante l’individuo mediante l’insieme dei tratti formali con cui l’autore sceglie di strutturare la sua opera: sono le libertà che egli si prende all’interno del sistema lingua. Lo stile è la variante messa in atto dallo scrittore. L. Spitzer, in Stilistica e linguistica, scrive che: «Lo stile linguistico è l’estrinsecazione biologicamente necessaria dell’anima individuale». Forse è questo il punto focale dell’autobiografia palladiniana. Indagine biologica di un’anima. Se, per restare ancora con Spitzer, si ritiene che a ogni stato psichico normale corrisponda nel campo espressivo uno scarto nell’uso linguistico, ecco che allora se redigessimo un elenco di tali scarti, in Noi siamo altri, avremmo un’autobiografia dello scrittore, molto più concreta.


Il mezzo per ricostruire il funzionamento o il senso di qualsiasi analisi, ossia la conoscenza, è specificatamente letterario. È la letteratura lo strumento per interpretare; con essa si sceglie e si enumera, si dispone e si svolge. Per quanto realistico, il resoconto è sempre insufficiente e non risponde se non con la sua stessa evidenza. Il libro è tutto votato alla psicologia collettiva, all’interrelazione tra serie di eventi, più o meno correlati in una cornice a volte geografica, a volte culturale, a volte storica. Sono dunque porzioni che creano, anche per sovrapposizione, un’idea di totalità, ma sempre relativa a un quadro specifico. Lo scrittore viene rimandato da se stesso alla limitatezza antropologica della sua cultura, alla sovradeterminazione del proprio operato, al suo fare storia, ma una storia inconsapevole, nel senso marxiano per cui gli esseri umani fanno la storia, ma non sanno di farla.

Marco Palladini costringe il lettore a essere la sua memoria. La memoria se non è condivisa sembra inutile, non funzionale. Idea prettamente politica. Il lettore non deve spazientirsi dinanzi alla mole di informazioni del tutto inutili al prosieguo della narrazione. Deve sentire il peso dell’accumulo,  di ogni cosa nell’esistenza. Non è esattamente un inno d’amore per la memoria; è più il racconto dell’ossessione del ricordare, del non saper rinunciare al dettaglio, del tenere tutto lì, in ordine, sul tavolo. È in questo modo che Palladini pensa di poter conoscere se stesso  ovvero l’Altro da noi: «Potrei dire che questo è il senso del mio essere scrittore e, quindi, pure di questo libro che è rampollato fuori quasi da solo, obbedendo a un impulso iniziale che mi induceva a chiedermi a che punto ero della mia esistenza». La dose di casualità di un testo fa parte per dir così della sua necessità. È qualcosa che si può chiamare sia caso sia destino. Non è il dubbio a essere il protagonista a latere di questo romanzo per frammenti; è la consapevolezza di non sapere e di non volersi censurare. Il dettaglio insignificante, così come l’esistenza di cose a cui non diamo valore, che eppure risiedono nell’universo, richiede rispetto, accoglienza e cura. Ogni scrittore, in fondo, scrive per oggettivare la storia. L’esistenza e la conoscenza vi appaiono alla fine solo per accantonamento dell’aver fatto, letto, scritto, viaggiato, dialogato, collezionato. Null’altro si potrebbe dire. A null’altro si potrebbe lasciare spazio, dopo che si è così saggiamente lasciato spazio all’imponderabile di accadere. La costrizione biologica, familiare, sociale, economica, culturale, costituisce certamente una sponda, un parapetto da cui, però, guardare verso l’oltre.


La memoria deve valere, come nel caso dell’intervista al padre, antifascista e prigioniero di guerra, in quanto recupero testimoniale di un’esperienza ancora utile, ancora appartenente all’attuale orizzonte di vita, soprattutto poiché, oggi, ogni prospettiva storica appare annebbiata da una revisione correttiva di giudizi consolidati che hanno come scopo il raggiungimento di un moderatismo omologante: deve, insomma, valere come atto educativo. Tal che, quando non scrive di vicende che coinvolgono le persone del proprio nucleo familiare, Palladini sembra trascrivere dati e notizie, reperendole direttamente dai giornali dell’epoca in una volontà testimoniale che travalica l’azione distruttiva del tempo. Allo stesso modo, ciò  vale per quel riguarda la memoria delle sue scritture sceniche e delle sue performance vocali.


Se la classe borghese sceglie dal reale solo ciò che giustifica le sue pretese idealistiche, lungi dal portar con sé un’autocritica, e se gli scrittori ribelli, dichiarando ciò che la borghesia vuole nascondere, compiono un atto morale, il realismo socialista trasforma la morale in politica, cogliendo la struttura profonda di una società, ossia trascrivendo solo le cose importanti. «Il realismo è l’arte delle significazioni giuste», annota R. Barthes in Scritti. Naturalmente, vanno cercati i modi per descrivere la continuità stessa del reale, la sua superficie, senza cadere nella descrizione idealista borghese. Ci sono stati vari tentativi: il surrealismo ha cercato la moltiplicazione del senso degli oggetti; l’esistenzialismo ha tentato di rarefare la significazione e la corrente del nouveau roman ha provato con una letteratura della pura constatazione. Per Barthes il dilemma si risolve partendo dal realismo socialista e cercando significazioni che non siano quelle borghesi. Su codesta via, si collocano le opere di Palladini, poiché egli è alla ricerca di ciò che ha valore e che sia, insieme, intimamente connesso con quanto è non borghese. Il problema della storia, che il romanzo a frammenti di Palladini eleva a soggetto, è già risolto in quanto l’opera è il prodotto della storia e, al contempo, è la resistenza a questa storia. La scelta della forma-romanzo, per frammenti, per stralci in sé autonomi, per ricicli, per appunti diaristici e per interviste, in Palladini, è prima di tutto messa in discussione del romanzo stesso (personaggio, intreccio, psicologia, bello stile). Tale forma non appartiene, per Lukács, alla forma tragica o epica, ma è la storia di una ricerca di valori autentici in un mondo inautentico. Attesta di un percorso che può dar luogo a una nuova rinascita, giacché una delle funzioni della letteratura è di presentare agli esseri umani l’immagine vissuta dell’altro. Solo in questo frangente si rende visibile la collettività, come comunità di lettori (giacché persino nel nucleo familiare, istanze, esigenze, cultura, desideri sono inconfrontabili).


Unico valore rimasto come residuo della tradizione umanistica è l’esibizione dei segni della comunicazione letteraria o del loro accumulo, sicché la letteratura somiglia sempre di più a una gigantesca risorsa per le discipline più varie: la filosofia, il teatro, la musica, la psicanalisi, la società. Vengono chiamate in causa categorie che sembrano collidere: abbiamo già visto come, da una parte, Palladini ricostruisce doviziosamente la storia e la cronaca di un periodo che abbraccia la famiglia dell’autore fino ai nonni e, dall’altra, il lettore è avvertito che si tratta di una restituzione inventata. L’apparente contraddizione è sufficiente a far uscire il lettore dalla credulità: egli è così  sempre consapevole che si tratta della forma-romanzo. Ritengo, pertanto, che il miglior lettore di codesto libro di Palladini sia quello che non lo legge come una mera autobiografia, immersa nell’attualità contemporanea, bensì quello che non crede a Palladini pedissequo narratore delle proprie vicende labirintico-esistenziali, non fosse altro perché ciascuno ha una propria visione dell’attualità o delle vicende storiche, ma che va a guardare sotto al tappeto, ritrovandovi una forma letteraria particolare. È essa che restituisce significatività agli eventi e alle persone. Che ricostruisce qualcosa di comune. Che è critica attuale allo stato di cose esistente.

Così, in finale, se Palladini ammette il naufragio del tentativo dell’autobiografia, così come della scrittura storica, non lo fa per azzerarne il valore, o mortificare il tentativo di narrare, bensì per aprire all’esistenza di tesi complesse, affinché si veda il retro delle cose, l’esistenza di altre facce della medaglia, la fallacia delle tesi a buon mercato, l’importanza di restare nello stallo con consapevolezza e non crederlo il migliore dei mondi possibili.


Rosa Pierno