mercoledì 16 ottobre 2024

Marco Palladini “C’è qualcuno ancora vivo là fuori?”, Racconti, Gattomerlino, 2024


I racconti distopici di Marco Palladini “C’è qualcuno ancora vivo là fuori?”, Gattomerlino, 2024, riassorbono il passato e il futuro omogeneizzandoli in un eterno presente. Si badi, è un mondo espresso linguisticamente, dove il linguaggio usato dà la misura della patologia che affligge la società, ma anche della distanza che separa linguaggio e vita, a differenza di quel che avviene con le “avventure internettare”, le quali non si distinguono dalle vicissitudini quotidiane. È l’autore stesso a indicare, per i suoi testi, l’esistenza di un “preciso cronotopo”, ossia le coordinate temporali, spaziali e culturali, dalle quali il suo testo prende forma. L’analisi cronotopica serve a comprendere il testo nel suo insieme: la realtà storica in cui è ambientato, il rapporto dell’autore con questa realtà e il tipo di rappresentazione scelta. Bachtin, dopo avere affermato che il cronòtopo letterario permette di determinare il genere letterario di un romanzo e le sue varietà, aggiunge che «la tipologia del “cronòtopo” si costruisce sull’opposizione “mondo proprio/mondo altrui”, mentre la tipologia dell’”enunciato” sull’opposizione “linguaggio proprio/linguaggio altrui”». Quindi si tratta di comprendere i diversi livelli del testo: da una parte vi sono le informazioni non letterarie (come la storia, la psicologia sociale), la ricostruzione della realtà storica e linguistica, la tipizzazione; dall’altra vi sono i fatti emotivi, l’autobiografismo, mitizzato o mistificato, e l’individualizzazione.

Il soggetto, ad esempio, in un racconto, coincide col personaggio Marco Palladini, con l’“io sono scritto”, «ossia rimbaudianamente Io è un altro che mi scrive», ribadendo in tal guisa anche la presenza di una ripetizione riproposta all’infinito, poiché si è persa ogni cognizione identitaria. Il tempospazio, nella sua valenza indissolubile e relativa all’attimo presente, sembra non essere che il tempo differito che impedisce costrutti di qualsiasi genere, storici, mnemonici, affettivi. Così la svalorizzazione acquisisce una fisionomia precisa: si può osservare la modalità con cui, la narrazione, ripetendosi incessantemente, discioglie il senso nel non-senso. Quelli che Palladini presenta come racconti polizieschi mettono estesamente in mostra il meccanismo di eliminazione del senso e, conseguentemente, dei valori. I precari, ad esempio, che rubano il lavoro ai fattorini, intercettando per primi le chiamate dei clienti per gli ordini, non sono che una scena ripetuta cronologicamente e temporalmente che prelude alla mise en abîme della società contemporanea.  


Nel racconto si mette a segno “una spettrografia dello stare al mondo che disperatamente cerca di misurare la sua futile essenza”. L’autore individua attraverso alcuni sintomi le persone affette da un sistema culturale privo di regole e limiti: «non ti raccontano storie, bensì stati d’animo e di malanimo, sentimenti trasmutanti secondo un finale di partita, palesemente taroccata, giocata tra bari di professione che si spifferano l’un l’altro che non c’è limite al peggio» e, tuttavia, «c’è sempre un beckettiano impulso a continuare imperterriti dopo la fine. Chiuso un capitolo se ne può ogni volta aprire un altro, ovvero rientrare in gioco». C’è anche un elenco relativo alle strategie con le quali si annulla la distinzione tra i valori: si decostruiscono i pensieri, si artefanno testi e controtesi, si usa una dialettica fallace, si fa tabula rasa con l’ordine del Logos e con il disordine del Caos. In tale magmatica situazione «anche lo squallore viene reputato un valore». Palladini assume il ruolo di colui che intende denunciare i comportamenti menzogneri: «altra azione di copertura... atto di sviamento nomenclatorio... confusione di ruoli e livelli... depistaggi a cascata... spiazzamenti a go-go... un vortice di delitti radicati nella politica ‘latu sensu’ della megalopoli...», ossia esattamente ciò che deriva dalla perdita dei fondamenti. Nel momento in cui non è più praticabile la separazione tra vero e falso, tra bene e male, ecco che si può dire raggiunto lo scopo del potere, quel potere che, secondo la lezione di Foucault, indottrina esseri umani privi di capacità critica. L’indistinzione dei valori ha la meglio persino sulla percezione del sé. Ciò che non si può distinguere sembrerebbe costituire per l’autore il vero problema contemporaneo; si tratta, a ben vedere, di un’incapacità di sentire e di pensare.


Sulla scena del crimine, nel racconto “La notte degli occhi”, il detective, snocciolando frammenti di citazioni, compie un attraversamento di cliché letterari, testimoni di quell’«ipertrofia immaginaria che poi si arrovescia e si sfinisce nel proprio multiplo vuoto» a cui lo stesso autore non si sottrae, lasciando come impronta personale quella della propria passione per gli acrostici (si ricordano numerose poesie di Palladini costruite con tale regola). A ogni modo, se il ruolo di un investigatore è decifrare i segni – e per questo la memoria corre ai metodi investigativi analizzati da Ginzburg – i segni che Palladini lascia nella sua scrittura (oltre all’acrostico, ci sono anche i tre puntini di Al termine della notte di Céline e il gaddiano flusso di vocaboli estratti da numerosi linguaggi tecnici: filosofia, antropologia, economia, sociologia) sono precise marche che tracciano alcuni confini: quelli propri dello stile. Inoltre, Deleuze e Guattari con le loro “tracce rizomatiche” sono invitati speciali alla tavola pantagruelica di Palladini.

Resta che ciò che sta alla base dell’indagine dei vari investigatori e reporter è una conoscenza indiziaria a cui manca sempre la prova finale. Sono tante le mappe tracciate da Marco registranti gli indicatori relativi alla società: quella politica, sociale, psicologica, letteraria. Particolarmente salace è la critica che Palladini rivolge alle patrie lettere, definendole ‘kakolettere’, così come si esercita un ‘kakologos’ in ogni disciplina. Ma se il metodo indiziario è incapace di risolvere le contraddizioni con le quali la realtà si presenta all’interpretante, allora sembrerebbe che la realtà sia un labirinto privo di uscita, al modo in cui non si esce dalla Torre di Babele o dai gironi dell’inferno, che ne sono i modelli metaforici. Le tragiche vicende quotidiane, i fatti di cronaca innescano nel personaggio di turno un flusso ininterrotto ove da un ganglo si toccano tutti gli altri gangli della costellazione, contemporaneamente, senza soluzione di continuità, con l’inesorabile presa di coscienza che fa deporre ogni speranza su un possibile cambiamento anche in uno solo di questi snodi (violenza, ignoranza, povertà, sopraffazione). 


Certo, per Marco Palladini si prefigura ancora una possibile alternativa, nonostante scriva che un suo personaggio «non vuole comunque smettere di sperare contro la speranza». Il che suona, attivando quasi un contrasto simultaneo fra concetti, che la speranza è un sentimento sorgivo come la vita. Così gli individui «disabilitati a immaginare una qualsiasi alternativa», pure se ogni persona è  “un ossimoro vivente”, e forse proprio per questo, potrebbero in realtà trovare una diversa via di condotta.

Tuttavia, per Palladini la scrittura non vale come progetto, è senza speranza come per Kafka. L’inesauribile effervescenza immaginativa dell’autore si rifrange nei suoi alter ego senza che mai lo soccorra alcuna speranza di cambiamento. Sembrerebbe che né natura né cultura possano modificare lo stato in cui versa l’essere umano. I personaggi sembrano ricavati da maschere prevedibili, determinati dai loro cliché linguistici. Salgono e scendono sulla linea dell’orizzonte come fossero issati su una ruota. Nessun grado di libertà: la stessa scrittura di Marco Palladini, con la sua irruenza asfittica e priva di soste, provvede a trascinar via le precarie esistenze dell’Attore Sentimentale, della Psicologa Paranoica, dell’Amministratore Ladro. Con la loro psicologia ridotta allo spessore di una lamiera, essi si alternano nel plot senza mai addivenire a una soluzione pur temporanea delle loro vicende esistenziali e per questo sono esposti ai colpi del tiratore del luna-park. Con eccelsa precisione, l’autore stesso. 


Rosa Pierno





lunedì 30 settembre 2024

STEVE N. 63, edizioni del Laboratorio, primavera-estate 2024

 


Il nuovo numero 63, primavera-estate 2024, della rivista <<Steve>>, diretta da Carlo Alberto Sitta, è un piedistallo dal quale osservare il mondo letterario non soggetto a mercificazione. Se da un lato costituisce una sfida una rivista che vuol essere una finestra su un panorama letterario e artistico tanto articolato e frammentato come quello odierno, dall’altro lato, essa riesce a individuare le direzioni di ricerca attive nei testi, avendo di mira una visione unitaria. Inoltre, la rivista si mantiene in equilibrio sul filo gettato tra verbale e visivo, andando alla ricerca non del sostegno che la parola può offrire all’immagine, ma del proliferare di sensi, anche pre-verbali, che scaturiscono dal loro sfrigolare. Analizzando il lavoro di Ketty La Rocca, Raffaella Terribile puntualizza che spesso la ricerca, specificatamente della poesia visiva e concreta, cerca l’elisione reciproca di parole e immagini, costringendo entrambe ad assumere una diversa valenza e, in ogni caso, a uscire dalle secche di un linguaggio strettamente comunicativo. Sotto accusa non è solo il linguaggio, dunque, ma anche il sistema delle arti, entrambi accusati di imporre il proprio potere, esercitando una vera e propria espropriazione mentale. L’assunzione acritica del linguaggio, il suo uso “passivo” induce a sclerotizzazioni invero nefaste. Ed è questo un contenuto che dagli anni ‘70 viene promulgato da una coalizione culturale che mira a contrastare l’accettazione supina del sistema dato.

Si rivela così necessario prestare attenzione all’attività della critica, la quale deve mettere in luce le ragioni fondanti di pratiche alternative e non ricadere nel rischio della descrizione, sorta di parafrasi del testo poetico, secondo l’avvertimento di C. A. Sitta: la critica ha, infatti, il dovere di formulare un giudizio di valore. Per raggiungere tal fine  deve potersi giustificare la sua ragion d’essere, si deve delineare il punto di vista di chi ha prodotto l’opera visiva, verbale o multimediale, oltre a indicare lo specifico contesto storico, ossia il testo deve essere “oggetto di interpretazione”. Purtroppo, attualmente, le ristampe di opere importanti (ad esempio, Partita di Antonio Porta o Oblò di Adriano Spatola) vengono accolte da <<generazioni smemorate che sembrano vivere a loro volta in spazi indeterminati>>. Lucidissima è la lassa in Cronaca da una clausura di Sitta a tal proposito: <<Se il critico perde il rispetto del proprio oggetto diventa un malmostoso saccente che nulla ha da aggiungere a ciò che studia, se non la delimitazione sadica dell’opera e la paralisi tossica dei significati (16 novembre 2023)>>.

A tal proposito, la nota critica di Paolo Gera al poema di Carlo Alberto Sitta Continente d’acqua esemplifica la necessità dello scavo concretissimo e annodante ciascun verso a riferimenti letterari, illustrandone filiazioni e distanze e costruendo così la mappa delle origini e delle differenze che legano ogni libro a un altro libro, distanziandosene al tempo stesso. Nel medesimo alveo si collocano le illuminazioni concettuali di Mladen Machiedo costruite sul limitare del paradosso. Sono aforismi sulla natura politica dell’essere umano che sembrano dover accompagnare e facilitare, con le domande retoriche presenti nel testo, baluginanti come se fossero state scritte al lume di candela, la presa di coscienza di coloro che mancano di confermare persino i propri dubbi: <<È un dono vivere nel mondo che continuamente si autocancella?>>. Nel mondo globale c’è una sola voce, altro che multiple differenti voci: <<Alcuni si sentono offesi, se – per colpa loro – siete voi i danneggiati>>. E se allora la letteratura si assume l’onere di essere voce dissidente si sarà certo ridato valore alla scrittura. Va da sé che il contrario di tale scrittura è quella professionale, carrieristica. E d’altronde Machiedo scrive: <<Alla bassa marea della poesia giova, sì, la bassa marea della critica>>.

Analogamente, Antonio Belfiore studia le tecniche espressive di Giovanni Fontana aventi come fine di mostrare, attraverso le potenzialità sonore del segno, le sue possibilità performative, ma anche l’emersione dello scarto e di un <<dialogo che procede per scatti, intermittenze, vuoti>>.

Tuttavia, non basta dire che <<Steve>> accoglie la letteratura che si oppone a quella di consumo. Poiché appunto anche la ricerca segue il solco della propria tradizione, ha una storia, ha modalità precise di articolazione e non è un contenitore che automaticamente raccoglie ciò che esula dal primo. Non è nemmeno escluso, d’altra parte, il sentimento di appartenere a una comunità che condivide alcuni assunti. Se oggi sono sparite le poetiche, non è però dissolta l’adesione a un insieme circoscritto di voci selezionate rispetto alle quali s’intende far risuonare la propria voce. La volontà di non sottomettersi al giogo dell’ovvio così come agli “effetti speciali retorici” impone un esercizio costante che vaglia ogni singolo lessema, incastonandolo in una struttura sintattica atta a raffreddare le esuberanze stilistiche, ma anche a sostenere un tessuto che stimola la produzione di un senso non immediato. 

Anche i testi di Raffaella Terribile effettuano un’analoga cernita nella produzione artistica. La studiosa affronta nelle opere visive di Maurizio Osti le esperienze verbo-visive da lui condotte assieme a Giorgio Celli e ad Adriano Spatola, enucleando il tema delle tangenze impossibili tra visivo e verbale che è un perno dello studio da sempre perseguito dalla redazione di <<Steve>>, lo ribadiamo, ove la questione del segno rimane aperto, <<spinto nell’indeterminatezza assoluta, sospeso tra possibili soluzioni e un ordine apparente, che risulta sempre una determinazione provvisoria>>.

Analoga posizione ripresa dalle poesie di Mario Moroni: <<spazi sonori risonanti / di parole senza riferimento certo, / senza la realtà dietro quei suoni / quei segni, torrente in piena, / senza argini, gli argini del senso>> (da Maremma). L’attenzione tenuta costantemente sull’arbitrarietà esistente tra significato e significante è un ottimo setaccio per non indulgere all’uso comunicativo del linguaggio. Giorgio Terrone con i suoi “pensieri di piccole cose” e le “immagini senza importanza” lavora, nelle sue  poesie, sulle percezioni che sfuggono alla concettualizzazione. Con uno splendido testo poetico, Philippe Jaccottet descrive la lenta navigazione degli ultimi anni di vita verso un porto, lasciando alla rima la sua piena potenza evocativa. Ma abbiamo citato solo alcuni autori fra i tanti presenti nella rivista esclusivamente per seguire un certo filo discorsivo, tra i testi, tutti pregevoli.

Nella rivista è presente anche una sintesi del convegno organizzato dal Festival Mantova Poesia, nel 2024, che ha visto la partecipazione di quattro riviste, Formafluens, L’Age d’Or, Menabò, Steve, le quali condividono alcuni elementi fondanti: la volontà di superare i generi, la ricerca dell’immagine come elemento che entra in maniera attiva nel testo deviandone il senso, l’attenzione alle problematiche della società di massa e l’attenzione esclusiva al pensiero critico anziché alla comunicazione.



Steve, diretta da Carlo Alberto Sitta ed edita da Edizioni del laboratorio, Modena.

Pubblicata dal 1981, la rivista ha rinnovato nella seconda serie l’attenzione per i linguaggi artistici, pittura, architettura, teatro, musica. Nella quarta serie ha pubblicato, in una serie di interventi entro una specifica sezione, la biografia per immagini  di alcuni fra i più importanti poeti italiani: da Viviani a De Angelis, da Porta a Niccolai, da Neri a Spatola, da Piersanti a Pignotti.


martedì 10 settembre 2024

Tiziana Colusso, Lengua de striga, Bertoni, 2024

 


Per stessa indicazione dell’autrice, Tiziana Colusso, la raccolta di testi teatrali contenuti in Lengua de striga, Bertoni, 2024, che raccoglie testi scritti nel periodo che va dal 1989 al 2023, riguarda un teatro di voci, nel senso che, anche quando è presente il dialogo, i personaggi non acquisiscono una precisa individualità, nascono come funzioni sceniche, non agiscono in uno spazio concreto e sono dunque puramente mentali, sulla scia del teatro sperimentale degli anni Ottanta. Lo si constata subito nel testo del 2023, Casa senza bambole, nel quale la voce protagonista, femminile, coincide con la voce narrante, descrivendo condizione interiore e scenografia assieme. Il luogo in cui l’azione si svolge è di fatto la descrizione letteraria di qualcosa che in scena non ha luogo. È un teatro privo di scenografia, per questo lo spazio vi è descritto come fosse una funzione dell’interiorità che vi s’inscena. Lo spettatore è come se dovesse leggere l’ecfrsi di un quadro, poiché il quadro non è disponibile alla sua diretta visione. E ciò ha la sua ragion d’essere. Quello che la voce descrive è una sorta di esperimento portato all’ennesima potenza. Sperimentare la totale mancanza di libertà che un uomo-carceriere impone, non escludendo che la responsabilità sia in parte di una incauta cessione di libertà o meglio della rinuncia alla propria libertà avvenuta già all’inizio della relazione per una malintesa valutazione di ciò che una relazione dovrebbe essere. Cosicché, il paradosso dell’auto-incarcerazione aiuta a comprendere come si debba sempre evitare una tale caduta insita nella sperequazione posta all’inizio del rapporto. E, certamente, Colusso è da sempre attiva nella denuncia delle ingiustizie, dei soprusi, delle violenze, affinché tutti gli esseri umani siano avvertiti dei pericoli etici e politici che connotano una società in costante crisi di valori e produttrice di orrori, com’è nel testo Il precipizio. Teatro delle voci per Donatella e Rosaria, del 2019. Ivi, attraverso una polifonia di voci, la testa di Circe, ritrovata nel 1928 sul Promontorio del Circeo, diviene scaturigine simbolica del precipizio morale e materiale del massacro del Circeo. Lo spettacolo, con una messa in scena multicentrica e multimediale, è stata rappresentata a Terracina nel 2021 e a Velletri nel 2023, conseguendo il Premio Palco Errante.


Nel volume sono presenti due riscritture di un primo lavoro, avente il titolo Ars fulguratoria, messo in scena nel 1996 nello spazio di una chiesa sconsacrata e curato dal regista Stefano Grossi. Una ricerca storica condotta dall’autrice ha rintracciato le relazioni esistenti tra magia e religione negli Etruschi, in particolare sull’aruspicina e sulle sacerdotesse che interpretavano i fulmini. La prima delle riscritture del testo originario è Lengua de striga. Partitura per voci, coro, musica e canto. Il personaggio principale non parla se non attraverso il coro, poiché sordomuta. Tale menomazione assurge a simbolo di alterità, nel senso che segnala una più efficace e raffinata sensibilità, ma è anche indice del fatto che più che di una persona si tratta di una stratificazione di identità storiche. La pièce teatrale, andata in scena nell’ambito del Festival RomaPoesia del 2002, si avvale di voci recitanti disposte in semicerchio, con alle spalle un’opera di Enrico Frattaroli Lengua de striga. Presenti sulla scena anche alcuni musicisti a rimarcare la necessità per l’autrice di servirsi di diversi mezzi espressivi, in linea con un insistito uso di vari linguaggi (latino, inglese, dialetto) che contribuiscono alla costruzione stratigrafica del personaggio principale. Il riferimento paesaggistico è alle terre della Tuscia, nelle quali Tiziana  Colusso è nata e ha vissuto, alla torva presenza delle tombe etrusche nei boschi fondi e senza respiro, così magnificamente descritti da Vincenzo Cardarelli nei suoi testi letterari. E anche questo immediato legame letterario contribuisce a creare una sorta di contatto immediato tra realtà diverse nel tempo, tra diversi sostrati culturali. Risalendo alle popolazioni che hanno abitato quelle terre, così presenti nelle suggestioni degli attuali abitanti, Tiziana infilza assieme pratiche divinatorie, nella figura di una sacerdotessa etrusca addetta a leggere i segni che i fulmini tracciano nel cielo, e nella figura di Irina, sordomuta nell’era contemporanea, la quale salda con le sue percezioni il proprio corpo alle pietre dei sentieri che percorre. La magia si rivela il legante tra le due figure, quella magia che in barba ai tentativi prima greci e poi illuministici di ricondurre alla ragione ogni conoscenza, percorre come una saetta le ere, manifestandosi in tempo e luoghi lontanissimi. La lingua ne è la depositaria e nella lingua, oltre che nei gesti, si trovano le formule magiche che Ernesto De Martino in Sud e magia riscontra nelle relazioni spesso ambigue tra magia e cattolicesimo, a onta di quell’alternativa tra magia e razionalità che è uno dei grandi temi da cui è nata la civiltà moderna. Ma per Colusso la magia resta una risorsa, lì dove vengono meno i mezzi per ottemperare alle esigenze culturali in altro modo. L’autrice è, difatti, sempre attentissima a segnalare le iniquità sociali ed economiche all’attenzione del suo pubblico, poiché è da queste iniquità che nasce la tragedia. Un’ulteriore riscrittura del medesimo tema è Irina l’idiota, del 2022, messo in scena nel 2023 al Museo degli Strumenti musicali di Roma, nell’ambito del Festival Poesia, Lingua Viva. Questa volta la protagonista ha voce in capitolo, parla assieme ad altri testimoni: alla pastora, al coro dei paesani. È un tessuto di voci a costruire il testo  e, pur tuttavia, il linguaggio è monocorde, stilisticamente omogeneo. Alla crudeltà di ragazzini ignoranti che, per un deprecabile gioco, la legano alle rocce, risponde l’altissimo grido di Irina che riconosce nella disparità non solo delle forze, ma anche dell’intelligenza delle cose, l’abisso delle differenze fra individui.


Eppure tali voci differenti tessono un unicum che si dispiega sullo spazio scenico. La frammentarietà e l’eterogeneità svaniscono di colpo e tutto si dispone in un armonioso arazzo. La differenza tra voce interiore e voce reale dei personaggi in scena non solo non è rilevante, ma, a tratti, viene spodestata dal mondo dei sogni che diviene così più vero di quello reale: qui il ruolo dell’immaginazione ha un potere salvifico. Ciò accade sia per le voci di Sofia, della narratrice e della voce registrata che legge un testo poetico di Odisseas Elitis  che s’intersecano nella lettura scenica di Mida alla circonvallazione est, del 1995 (interpretate dall’attrice Daria De Florian) sia per le voci mentali, del tutto immaginarie, presenti in Sparizione di Giovanna, del 1991 (andato in scena al Teatro Furio Camillo di Roma nella stessa data). In quest’ultimo testo, le voci di Giovanna d’Arco si trasformano in personaggi che, a loro volta, sono sulle tracce di Giovanna. Ciò  sembrerebbe tracciare un anello di Möbius in cui il punto di scissione tra interiore ed esteriore è del tutto non individuabile e dunque starebbe a indicare, nella poetica visione di Tiziana Colusso, l’inestricabilità tra ciò che è individuale e ciò che è collettivo.



Rosa Pierno

sabato 13 luglio 2024

Rosa Pierno “Le metamorfosi del libro. Dal libro miniato al libro d’artista” Gilgamesh Edizioni, 2024, collana diretta da Carla Villagrossi



 

Il libro è per eccellenza il depositario della memoria collettiva, è uno strumento di formazione e scambio culturale e la disciplina che se ne occupa comprende la sua materialità  (carta, tecniche di stampa, rilegatura), l’attività degli editori e dei librai, il mercato e le pratiche di lettura. I libri che contemplano l’intervento di un’artista, a loro volta, hanno una vera e propria selva di definizioni: libro illustrato, libro figurato d’autore, livre de peintre, libro d’artista, libro oggetto, opera libro, edizione d’arte. L’esplorazione diviene presto perdita dell’orientamento, se non si conoscono le categorie interpretative e tassonomiche che ne dovrebbero circoscrivere i domini o, almeno, far comprendere quei libri che vogliano superarle. Quindi, laddove il saggio Le metamorfosi del libro. Dal libro miniato al libro d’artista, Gilgamesh, 2014, a cura di Carla Villagrossi, ripercorre la storia di codeste definizioni, ciò non accade per amore delle classificazioni, ma per esporre l’ambito storico e culturale in cui esse hanno trovato la loro giustificazione. La mancanza di una classificazione, oppure l’uso dell’etichetta libro d’artista usata in senso generico, ossia anche per i libri illustrati o i livre de peintre, non fa, infatti, che generare confusione. Non è l’esclusivo intervento dell’artista a giustificare la denominazione libro d’artista, poiché essa è nata per indicare un prodotto con caratteristiche precise, spesso legate a una volontà intermediale. Pertanto, è bene delimitare tale classe che pretende, altrimenti, di designare troppe cose, ossia più nulla. 

I concetti così raccolti non sono concetti-categoria; sono contenitori generici, non certo caratterizzati da condizioni necessarie e sufficienti. Non si è trattato di costruire perciò un sistema classificatorio né dell’arte né del libro, pur seguendo le diverse denominazioni del libro, bensì di esplorare, cogliere e registrare le sue diverse forme, porgendo un sostegno per effettuare la loro valutazione. Ciò che conta, alla fine, è sapersi destreggiare nella selva degli esemplari, valutare la loro appartenenza o meno al mondo dell’arte ed essere pronti ad accogliere anche nuove proposte artistiche. 

Prendendo come punto inaugurale del cambiamento, rispetto al libro illustrato o al livre de peintre, il 1960, perché è questo l’anno in cui la pubblicazione simultanea di quattro libri dà l’avvio alla produzione di libri d’artista, si accenna soltanto, nel saggio, ai libri oggetto, considerando che la natura del libro è tradita se l’interesse per il suo aspetto sensibile esclude tutti gli altri. Mediante uno sviluppo mostruoso della materialità del libro, a parere di A. Mœglin-Delcroix, la maggiore studiosa del libro d’artista in Francia, si condanna il libro all’insignificanza del “niente da leggere” e anche del “niente da vedere”: sono oggetti “tutta esteriorità” che serrano il libro, invece di invitare a sfogliarlo; oppure fingono che sia aperto, ma sempre alla medesima pagina, ottenendo così di negare le ragioni stesse del supporto. Dello stesso avviso è M. Butor, per il quale vi è una differenza irriducibile tra i libri e i libri oggetto: questi ultimi sancirebbero l’atto di morte del libro. 

Le relazioni tra testo e immagine costituiscono il punto focale del saggio: esse assumono forme diverse: dai componimenti alessandrini ai calligrammi, dai carmina figurata ai libri miniati, dagli alfabeti figurati ai libri illustrati, dai livre de peintre ai libri d’artista. Se si volesse con un solo esempio far comprendere come il testo non sia sufficiente per esprimere ogni cosa e soddisfare ogni sete di conoscenza basterebbe indicare i trattati di anatomia, gli erbari, i ritratti. Un’essenza vegetale disegnata è immediatamente riconoscibile, mentre una descrizione verbale resta astratta. Le immagini, d’altro canto, non sono strutturate né sintatticamente né semanticamente, pertanto, la loro irriducibile peculiarità non può essere tradotta senza perdite in un altro codice. Se non si parte da questa opposizione, se non si riconosce questa impossibilità di sostituire la restituzione visiva con quella testuale, non si può veramente cogliere il loro apporto specifico. Ovviamente, la relazione istituita dalla presenza di entrambi all’interno di un libro apre a una serie di valutazioni. Lo iato esistente tra ciò che è visivo e ciò che è verbale fornisce un’occasione per arricchire e completare l’orizzonte conoscitivo, percettivo, intuitivo ed emozionale, proprio con l’utilizzo delle due diverse forme espressive. 

Seguire le vicende del libro illustrato e del libro d’artista vuol dire seguire di fatto le vicende dell’arte. Il libro è diverso dalla tela, ha una sua dimensione che non si esaurisce se non sfogliandolo, leggendolo, valutandone la qualità della carta, della stampa, della rilegatura, apprezzandone il frontespizio e il colophon, i rapporti selezionati per l’impaginazione, la scelta dei caratteri e la qualità delle immagini. 

Il saggio inizia con una rapida carrellata sul libro miniato, attraverso la quale si può seguire l’innervarsi di una consistente serie di mutamenti all’interno della relazione visivo/testuale. Il secondo capitolo, in relazione all’operato di Mallarmé, individua le basi teoriche di alcune pratiche che, risalendo dalla cultura ebraica, giungono, attraverso i secoli, a esplicitarsi soprattutto nella scrittura asemica, nell’utilizzo dei vuoti e nell’uso del colore bianco, ma anche nel minimalismo e nell’arte concettuale: elementi presentissimi nel libro d’artista. Il terzo capitolo descrive lo sviluppo del libro illustrato in Francia, alla fine dell’Ottocento, mentre in Europa, nel quarto capitolo, si dispiegano i movimenti del dadaismo, del futurismo e del costruttivismo, i quali danno un forte contributo a una diversa declinazione del libro (libro povero, libro di arte tipografica). Il quinto capitolo tratta delle esperienze italiane, riguardanti sia il recupero dei valori della tradizione sia il tentativo di connettersi con le teorizzazioni più avanzate condotte in Europa. Il sesto capitolo affronta alcuni problemi posti dalla definizione aperta dell’arte, dall’intenzionalità dell’artista e dal genere. Il settimo capitolo affronta la nascita del vero e proprio libro d’artista che si avvale dell’influsso di ulteriori teorizzazioni derivanti dalla linguistica, dall’intermedialità e dal ripristino delle esperienze dell’avanguardia. Percorre la storia del libro d’artista in Italia, dagli anni Settanta del Novecento, l’ottavo capitolo, sottolineando i legami con quanto svolto in precedenza in altre aree geografiche, ma anche indicando i nuovi apporti specificatamente italiani (Poesia Visiva). Infine, il nono capitolo è all’insegna di uno scandaglio delle relazioni che intercorrono tra testo e immagine, ove la panoramica sulle posizioni critiche mostra, oltre all’inevitabile pluralità delle posizioni, la consistenza dei problemi. 

Se si riconosce che il libro d’artista ha voluto sferrare un attacco al sistema mercantile dell’arte, combattere il sistema culturale occidentale nelle figure del Soggetto, della Storia, del Linguaggio, sottrarre al testo la sua capacità di costruire il senso, si deve ammettere che esso è nato in opposizione al libro di lusso. Nel quadro odierno si può affermare che una parte degli artisti più giovani sembra meno interessata alle possibilità del libro in quanto medium (diffusione, circolazione, accessibilità) e più interessata, invece, alla sua sola aura artistica. Per M. Butor siamo all’alba del dopo-libro, ossia nell’era dell’interesse che va soltanto ai libri sotto l’aspetto di opere d’arte; egli è soccorso nelle sue affermazioni da McLuhan secondo il quale un medium che perde la sua importanza sociale tende ad estetizzarsi, ripetendo pregiudizialmente che non si avrà arte se non al di là della sua utilità o malgrado essa. 

Il conflitto tra avanguardia e cultura di massa è stato attuale nella seconda metà del Novecento; oggi sembra, però, che i baluardi delle due fazioni in lotta si siano trasformati. Dopo il postmodernismo si fa fatica a trovare produttori dell’innovazione culturale in contrapposizione a quella che si ipotizza essere la cultura di massa. Con la fine dell’avanguardia, avanguardia e massa non sono più antitetiche: la produzione sembra essere votata decisamente al recupero, alla citazione, al riuso dei materiali storicizzati. Se una storia del libro d’artista appare possibile fino agli anni Settanta, già a partire dal 1980, la produzione di libri contenenti immagini di artisti prolifica, seguendo i percorsi estetici di ciascun artista. 

Oggi, che l’etichetta libro d’artista è usata impropriamente per tutti i libri in cui è coinvolto un artista, è apparso prioritario ripercorrere le tappe fondamentali dell’uso della forma libro per ristabilire non solo la ricchezza della relazione metamorfica tra testo e immagine, ma, soprattutto, per non dismettere alcune differenze inerenti alle ragioni classificatorie e non obliare la specificità delle arti, concetto ineludibile dal quale osservare la molteplicità delle loro relazioni. 


Rosa Pierno


domenica 26 maggio 2024

Gilberto Isella “Terre sotto vuoto”, Marietti1820, Bologna, 2024


Per un poeta la parola dovrebbe essere sempre anche ritmo, a tal punto che persino un scoiattolo avvolto da un bagliore prima di scomparire all’interno di un tronco, con la coda “conversa”, ossia batte il tempo nella luce. Quasi che ritmo e luce siano strettamente connessi, come il suono e il senso nel linguaggio. È nella luce e col ritmo che le cose e i segni divengono altro, si trasformano in oggetti prossimi, <<l’orma notturna / si fa foglia / e la foglia è di felce / figlia felice>>. Cosicché il lettore, mentre segue l’immagine costruita da Gilberto Isella nella sua ultima silloge Terre sotto vuoto, Marietti1820, 2024, si accorge di colpo che assieme alle cose si trasformano anche le parole: foglia / figlia e felce/ felice. C’è una vocale che si sostituisce all’altra o che si aggiunge e il senso si metamorfizza. Colui che compita mentalmente le parole del poeta non dovrà scegliere, dovrà conservare immagini e parole, trattenendone la sola figura della metamorfosi. Intanto si sarà decifrato che la luce scompiglia il linguaggio, poiché  vi è diretta connessione tra le due. Come se il visibile stesso sia restituito dall’uno e dall’altro, ineludibilmente. Ma il linguaggio non parrebbe di questo mondo; attiene più a una sovrana intelligenza, giacché la natura stessa, liberandosi dall’interpretazione umana che la assoggetta, si colloca ‘naturalmente’ sulla pagina bianca, vuota, del libro assoluto, richiamo mallarmeano. Se mai microcosmo e macrocosmo, anch’essi recuperati dallo stesso Mallarmé, si equivalgono come in una sineddoche, allora lo zig-zag di un calabrone deve corrispondere a un moto celeste. E dunque cadono anche i confini tra le materie: <<spazio libero da forre / violoncello dai liquidi confini / quattro corde / serpeggianti con il fiume>>. La porzione materiale sta al tutto immateriale: <<palinsesti divini?>>. Sembrerebbe che il tentativo di ottenere una risposta, vale quello di tentare una domanda, aprirsi alla domanda, accogliere la possibilità di un impossibile che è tale solo pregiudizialmente. Che cosa sarebbe l’infinito se non contenesse tutto? Eppure, la mente ridicolmente innalza le sue cesure, le sue dighe, i suoi dogmi. La canna pensante, l’uomo pascaliano trova nella sua mente barlumi bastevoli a fargli intuire che il trapasso tra le materie e il nulla è continuo. La luce e il pensiero sono prossimi, ma anche il sembiante di dio e dell’uomo lo sono. Il volto di Cristo consente un ennesimo passaggio tra il visibile e l’invisibile che Gilberto Isella indaga con disposizione opposta a quella di San Tommaso. Ancora un passaggio aperto: <<Transiterà con noi / l’antica sinopia astrale / che tiene in serbo / il suo santo / scabro / volto>>. Ecco dunque che sacro e profano si stringono in un’entità indivisibile, tanto che Isella conia il vocabolo ‘sacroprofano’. Esiste forse un ‘punto cieco’ in tale passaggio, che impedisce all’essere umano di avere una visione totale ed esaustiva dall’unica finestra della sua mente. Come un chiasmo si produce, nella poesia dedicata a Giacomo Leopardi, la coincidenza dello spazio celeste e della stanza quotidiana, ma appunto solo perché si parte da un’iniziale distorsione d’immagine, mentre le due dimensioni sono compresenti, già unite in origine. È una geografia pensante, quella di Isella, che si autoproduce, e nella quale canne/spade e acquitrini/luce coesistono.

La sua poesia non disdegna certo i simboli: <<pinna di sàrago la affida / a seme umano celebrante>>. Tali segni di riconoscimento tramano le sue poesie riuscendo a costruire una labilissima, tenue, eppure resistentissima trama tra il qui e l’oltre. Se terra e parola sono una sola cosa, altrettanto concreto rispetto alla realtà appare il prodotto dell’immaginazione. È un vaso che Pandora/Poesia apre sorvolando l’intero emisfero. La poesia è questo lancio/dono, questa apertura dell’otre dei venti: nulla resta fuori. L’insieme è formato dal materiale e dal mentale senza soluzione di continuità. Dalle sirene a Leonardo, da Euclide a all’impresa degli Argonauti, è tutto un libro! 

Se si trancia il rapporto inestricabile dell’intellegibile con l’invisibile, se non si accetta la relazione con il ‘dio fabbricatore, allora, nello studiolo, lo studioso <<avrà smesso di sudare nell’arsura / come il sasso è incapace di morire>>. Aiuta osservare l’esistente alfine di non perdere il legame, in siffatta maniera quanta bellezza si potrà pertanto scorgere << nell’onda geroglifica / intorno al volo di un gipeto / guidato dal sole, dal vento / che d’incanto sparisce nella baia!>>. Attentissimo alla sonorità delle parole, e come sospinto dalla brezza marina, Isella scrive: <<criniere in vortici, vortici / in visiere, falde sbeccate / di lontanissime sponde / dietro il cielo>>. E certamente sarà ancora la splendida sua vena poetica, che oramai sfreccia come una rondine, a fargli sentire il limite della mente come qualcosa di aggirabile con una sorta di ebbrezza: <<L’interdetto non dice né detta / eppure ancora scrive e piroetta / tra i cartocci del soffrire>>. E pur anche la filosofia è sottoposta allo sguardo immaginativo della poesia, passa cioè attraverso la potenza immaginifica di una parola liberata dalle catene del quotidiano. 

Resta il nulla tra ‘culle e tombe’, ma è un nulla sonorissimo: <<là dove il nulla rintocca / il flauto consuma la bocca >> a rimarcare il legame tra il qui e l’oltre. Anche se certamente permane un abisso tra la bellezza materiale e il nulla: <<come mantenere la bellezza / dallo svanire? / come mantenere la bellezza dello sparire?>>. La risposta è nella percezione: è essa che ci fa accedere a ciò che sta oltre le cose, pertanto, <<s’impunti un istante \ sull’ancia dell’oboe / prima che bocca la risucchi / nell’effimero evento / del gioire>>. Eppure, è qui, su questa terra, la guerra e Isella non si sottrae alla responsabilità di rendersene testimone, poiché scopo del poeta non può che essere quello di sottrarre al vuoto, all’insignificanza, la terra, con la correlata dimensione celeste.


Rosa Pierno

mercoledì 10 aprile 2024

Michel Butor e Carlo Ossola “Conversazione sul tempo”, Pagine d’Arte, 2024

 


Michel Butor, scrittore, saggista, artista, è autore sorprendente e, difatti, alcuni appassionati, fra i quali gli editori Matteo Bianchi e Carolina Leite della casa editrice Pagine d’Arte, sono sempre all’opera per proporre al pubblico i suoi testi e i suoi libri d’artista, anche partecipando alla contemporanea esposizione Dialoghi fertili che si tiene al Porticato della Biblioteca Salita dei Frati di Lugano. Ecco, pertanto, la splendida occasione della pubblicazione dell’intervista che Carlo Ossola ha realizzato il 28 maggio 2011 a Saint-Émilion, nell’ambito del V “Festival Philosophia” sul tema del Tempo; intervista trascritta senza cambiare nemmeno una parola e nella quale Ossola porge le sue considerazioni, concedendo a Butor un respiro di taglio saggistico. Il tempo, a cui Butor ha dedicato un testo narrativo, L’impiego del tempo (Mondadori, 1960) viene affrontato nell’intervista da quattro angolazioni differenti, tutte ugualmente utili a restituire la complessità stratificata di un concetto a cui solo la consuetudine regala la linearità, che peraltro si può considerare un vestito dell’imperatore da evitare d’indossare, pena la perdita della nostra ricchezza esistenziale.

La scrittura gioca un ruolo chiave nella restituzione del groviglio temporale in cui la nostra psiche è immersa e lo fa sempre da una postazione spazio-temporale, grazie a slittamenti, sovrapposizioni, sconfinamenti, ritorni con i quali può sconfiggere i blocchi, le rigidità, le continue cesure, ristabilendo un flusso in cui si immettono più fluidi provenienti da diverse direzioni. È un movimento, quello scritturale, in cui, se si cerca costantemente di tenere distinto qualcosa per non farsi travolgere dall’onda traversa, si tenta anche di poter provare l’ebbrezza di un tempo indistricabile, dove passato e futuro appartengano alla medesima cronologia. Quest’ultima è come una percezione che mescola e rende distinguibile al tempo stesso, consentendo la formalizzazione di una scrittura capace di registrare i tempi come omogenei e promiscui al contempo. Senza escludere, trattandosi di scrittura, che anche il lettore, nel leggere, intervenga coi suoi tempi. Butor stesso, nel rileggersi, riscontra il non riconoscersi, il non riuscire a risalire al suo pensiero di allora, ma in fondo anche questo fa parte del tempo della propria persona: uguale e distinto in ogni momento. Vale qui la concezione agostiniana della contemporaneità di tutti i tempi, così come la riporta Butor: <<il passato è presente e il futuro è già presente, e il presente è già passato nel momento stesso in cui lo si dice e noi possiamo parlarne solo perché è anche futuro>>. La musica offre del tempo una rappresentazione può vicina alla nostra interiorità rispetto a quella del calendario, ossia una pluralità.

Una diversa lettura dei tempi è in atto anche nelle affascinanti ipotesi di Charles Fourier, per il quale non esiste un solo mondo, ma una pluralità di universi comunicanti; ciò ridà vita alle corrispondenze di matrice medioevale, ove <<l’universo e l’uomo sono omologhi>> e alla lettura vichiana, ove si narra <<la storia della società prendendo a modello la storia di un individuo>>. I mondi si trasformano l’uno nell’altro e le corrispondenze fanno percepire il tempo come aperto e chiuso in corrispondenza di alcune tappe esistenziali (ad esempio, la giovinezza e la senilità). Dunque, ancora tempi diversi, che chiedono di essere  sistematizzati in contesti più ampi e di non essere ridotti alla linearità. Quello che importa è non diventare passivi e riuscire a promuovere un’alleanza tra spazio e tempo che, fra l’altro, non coincide solo col tempo individuale, ma con il tempo di tutti quelli che ci hanno preceduto e che verranno. Anche lo spazio, pertanto, ha bisogno di essere ogni volta riconsiderato, così come si legge in Descrizione di San Marco (Abscondita, 2003), dove Michel Butor infilza una catasta di secoli condensata in un unico monumento. La storia si manifesta, normalmente, nei suoi limiti circoscritti, mentre le sfugge, per oblio o ignoranza, la sua estensione. Pura illusione è, difatti, una storia narrata secondo un ordine cronologico: <<Se voglio descrivere fatti accaduti durante la giornata, ho l’impressione di rinviare costantemente a fatti anteriori o a progetti>>. Pertanto, sono le risonanze attraverso le reti temporali che dovremmo imparare a percepire. Infatti, anche ciò che non si è realizzato nella nostra esistenza ha diritto teoricamente a testimoniare la <<nostra propria verità>>.


Rosa Pierno


venerdì 22 marzo 2024

Marco Furia “Iconiche proposte”, I Libri dell’Arca, Joker, 2024

 


Vicino alle arti visive, in particolare al gruppo di Adriano Spatola di cui condivideva l’idea di “poesia totale”, Marco Furia, dunque, non sorprende con l’uscita del suo Iconiche proposte, I libri dell’Arca, Joker, 2024, un libro-catalogo che il poeta introduce con un interessantissimo intervento, chiarendo i propri intenti artistici. In questione è la differenza tra figurazione e astrazione; entrambe acquistano una particolare prospettiva in relazione a una realtà che non scompare mai, presenza ineludibile. Lo stesso Kandinskij la includeva attraverso le sensazioni e la memoria, pur avendo come obiettivo la realizzazione di una composizione astratta mediante le forme geometriche, le macchie e i colori. Sullo stesso binario si possono collocare le opere di Marco Furia in quanto le sue composizioni trovano e rinserrano il proprio ritmo con colori primari e rette che s’incrociano, oppure con grovigli di linee; opere brillanti, in senso letterale e non, ottenute tramite elaborazioni digitali. E se, come egli scrive, per quello che riguarda il rapporto fra realtà e rappresentazione, <<i due diversi stili, pur dissimili, conservino tratti comuni tanto che, in certi casi (mi riferisco, ad esempio, a certe opere di pittori surrealisti), i loro confini si presentano labili, frammentati>>, allora si conferma che l’opera, astratta o figurativa che sia, condivide una comune origine, il dato di realtà. Tale labilità, che indica una difficoltà nell’individuare la distanza tra realtà e rappresentazione, fa cadere l’accento, una volta che il dato di realtà sia accettato come dato di partenza, sull’elaborazione operata dal soggetto. Il soggetto è, non di meno, parola da doversi afferrare con le pinze, quando si tratta di Furia, appassionato studioso di Wittgenstein e come lui convinto che l’interiorità sia quanto si configura proprio a partire dai mezzi espressivi (linguaggio, musica, arti visive).


Furia indica che attualmente è in lui più forte la tendenza verso l’espressione visiva per la necessità di operare <<un distacco, per meglio cominciare a guardare/ fare in maniera più intensa>>. E si sottolinea, qui, che la parola è astratta, rispetto al “linguaggio” delle arti visive, e ciò vale anche quando si tratti di opere visive astratte, poiché esse offrono alla vista caratteristiche che astratte non sono (la costruzione delle linee di diverso spessore, il timbro del colore, i pesi della composizione, non sono traducibili nel verbale senza perdita).


Certamente, il passaggio da verbale a visivo non è rintracciabile se non tramite una serie di metafore. Lo stesso Furia vi si cimenta, additando la necessità di un’apertura <<già sperimentata con le forme verbali>>. Si ricorda brevissimamente la sua prosa originale, al limite dell’impersonale, che racconta di gesti minimali in cui il soggetto appare sagomarsi esclusivamente grazie a una sequenza di comportamenti. Una prosa che tende a una descrizione scevra di connotazioni, ma appunto, ove l’astrazione propria del linguaggio non può essere che una similitudine lanciata come una corda su un burrone al visivo; una metafora, d’altronde, particolarmente volatile. Resta la passione in Marco Furia per la rarefazione dei mezzi, la capacità di lavorare con pochi strumenti, quasi con un abaco di forme non altrimenti riducibili. Certamente, sono espressioni riconducibili entrambe a uno stesso autore/artista e, dunque, è possibile ravvisare nelle sue diverse formulazioni una congruenza, una medesima tendenza verso l’astrazione. Interessantissimo è pertanto leggere le prose o le poesie di Furia e osservarne le opere visive, tenendo in conto questa doppia capacità espressiva per cercare di fissare tangenze e prossimità.


                                                                                                  Rosa Pierno




lunedì 5 febbraio 2024

Angelo Lamberti, “Cose da nulla”, Gilgamesh Edizioni, collana La corte dei poeti, 2023, a cura di Carla Villagrossi.

 


Scegliere una posizione rispetto alle due frontiere del tutto e del nulla, quando il tutto è già perso, senza rimedio, e il nulla dilaga, livellando ogni cosa, è, indubbiamente, azione eroica. Ecco come definire l’azione poetica di Angelo Lamberti, nella silloge Cose da nulla, Gilgamesh Edizioni, collana La corte dei poeti, 2023. Il potere dell’immaginazione vi ha un ruolo egemone e certamente assicura la sopravvivenza in un  ambiente così ostile. Ma il suo ruolo è tutto mentale, o ha un reale potere operativo? Anch’essa, alla fine, sembra appartenere al nulla:


Il canto delle sirene


Dal messaggio rinvenuto 

in una bottiglia 

tra le acque del naufragio, 

la realtà smentisce la leggenda.


Rende a conoscenza 

che il canto incantatore 

delle sirene è un cantabile

diffuso in alto mare 

da un silenzio irreversibile.


Per quanto, l’immaginazione parrebbe recare con sé un peso a piombo che ne inficia l’uso a perdere e le consente di mantenere la coerenza dell’analisi. E Don Chisciotte ne è il simbolo. Potendo scambiare mulini a vento per giganti, l’immaginazione non fa che porre in essere un’illusione. Dà la stura alla fallacia e allo “sfacelo di un disguido”. A un  tutto che si svaluta nel niente. Però dà luogo anche a una compensazione, ove il vizio di essere prende il sopravvento. L’immaginazione sembra dispiegarsi proprio a partire dal nulla. È una conseguente risposta; eppure, mette in moto, è ciò che accade. Insopprimibile. E che importa se le sue costruzioni sono autentiche scenografie del sogno, irrealtà.

Come può esserci risarcimento in un continuo equivoco? «Sarà vortice di giallo sgomento / simile a un abbaglio di girasoli». Parrebbe addirittura che sia la disillusione a consentire all’immaginazione il suo ingresso sulla scena. Ribaltamento! Si giunge così a quel «Nulla di Niente / che è un prodigio del Tutto» di montaliana memoria. Il nulla sembrerebbe in agguato, solo se non si considerasse che compensazione e disguido assumono un identico valore.


Eppure, troppo facile l’equivalenza tra miraggio e fanghiglia, tra ciò che è fresco e ciò che appassisce! Qui, Lamberti è memore della donzelletta nel dì di festa. E ancora leopardiana è l’ossessione per il tema delle ricordanze, ove la nostalgia pare apporre una correzione al rapporto tutto/nulla, donando una valenza maggiore ai ricordi rispetto al calcolo disilluso operato sul reale. Ci si chiederebbe dove mai l’immaginazione estragga la sua imperterrita forza, nonostante la consapevolezza dell’inutilità della sua  applicazione. Non può essere solo a cagione di una sensibilità tesa e vibrante. Pur nella “disperanza”, essa non flette di una virgola dalla sua marcia. E Lamberti lascia pensare che a questo inarrestabile impeto si debba riconoscere un valore, si debba accogliere il suo diritto a trasmettersi: i ricordi di conseguenza assumono un ruolo guida, di testimonianza tra esistenze, tra diverse generazioni. Don Chisciotte non è mai stato solo, poiché replicato da tutti i suoi lettori.


Essere o non essere


Per eccesso di stratagemma 

è assorbito dal dilemma 

dell’essere o non essere, 

da non avvedersi del sipario 

che silenzioso cala sulla scena.


Come un sicario.


La morte, divenuta personaggio, assume inevitabilmente un viraggio spettacolarizzato, è buttata nella mischia. Sicché sembrerebbe che non mai a un poeta sia concesso, poiché scrivente, di credere alla verità del solo nulla o della sola morte. Non c’è verità nella scelta di uno soltanto degli estremi. Ben piantato, in mezzo alla pagine, il poeta non può che sperimentare la risibilità di una posizione estremista. Per Lamberti si tratta della strategia dello scorpione che offre qualcosa di non commensurabile alla posta in gioco, eppure il baratto, una volta realizzato, ha ragione di essa. Cosicché, persino Amleto, dopo aver soppesato l’essere e il non essere, così come “il riessere e il non riessere”, in quanto replica del già noto, ammette che “a valor di rinomanza / la realtà non vale la finzione”, ma, appunto, è per risiedere tra loro, tra altri autori, non per uscire dalla scena a braccetto con il solo tutto o il solo nulla. 

La silloge si snoda come una riflessione scandita da intervalli, toccando i libri di Kafka, di Cioran, di Shakespeare, di Cervantes, del Vangelo e pur anche il mito, fino a cercare la “nudità del muro” e gli “spazi dell’afasia”. A tratti la presenza della rima addolcisce la durezza dello scontro tra verità opposte. Allitterazioni le danno sostegno e impongono il lato faceto della versificazione: «Sarà un tentativo di fuga / con ali di cera / dal labirinto invaso / delle ombre della sera». Come del tutto ironico è il confronto con l’idea di Dio, già escluso da un dialogo paritario, assieme alla morte e al futuro, sebbene Lamberti sia navigato autore di teatro e perciò avvezzo alla difficile arte del dialogo. A questi mezzi personaggi, che non danno risposte, che si sottraggono, come si sottrae il nulla, sono dedicate le poesie di Lamberti, costruite tramite un’eccedenza di risposte da parte del solo interrogante. 

La poesia è un valore, se da essa si ricavano risposte, anche parziali, ma concrete. Che mai potrebbe restare di queste povere cose silenti, per colui che ha dalla sua l’immaginazione, che ha lo straordinario ruolo di dover affrontare il male? Saper vivere è un atto poetico.

                                                                       Rosa Pierno