lunedì 28 aprile 2025

Aldo Bandinelli Spostamenti, Andante Books, Port Townsend, USA 2021


 

L’osservazione raffinatissima della realtà, della sua materialità, la valutazione estetica degli accadimenti, le percezioni a cascata, le impressioni cesellate e la disposizione a ordinare l’effervescente e rigogliosa messe di sensazioni producono pur tuttavia un disegno unitario. I racconti che compongono Spostamenti, Andante Books, Port Townsend, USA 2021, di Aldo Bandinelli, sono coesi, fluidi, senza soluzioni di continuità. Il dato frammentato ha uno svolgimento di tipo frattale, andando a formalizzare una visione nitida e chiara. Le apparenze, instabili, indefinite, oscillanti assumono una forma altamente definita. Qualsiasi dato, esattamente come avviene in un puzzle, viene identificato e collocato in qualcosa che se è mondo, alfine, non somiglia più al mondo. Potrebbe essere questa una delle possibili definizioni dell’arte. E Bandinelli, oltre che scrittore e poeta, è anche artista.

Ma non si tratta soltanto di distanziare la creazione dalla copia, perché prima ancora c’è un’altra distinzione più urgente da rilevare: la percezione non avviene a ridosso della realtà. La nostra mente ci inganna totalmente su quale sia la realtà del mondo (i colori e i suoni, ad esempio, non esistono nella realtà). A ogni buon conto, l’autore si avvale di una estenuata osservazione dei fenomeni per essere sicuro di aver captato tutto quanto si poteva con i pur limitati ricettori sensoriali che l’essere umano ha a disposizione. Nondimeno, esiste un’ulteriore sfera, un secondo stadio oltre il piano dell’elaborazione mentale: non si sa in anticipo, quando ci si accinge a scrivere, quale forma assumerà il raccolto sensoriale nel passaggio al piano dell’espressione linguistica. Bandinelli è perfettamente consapevole della coincidenza dell’espressione letteraria con la finzione e, pertanto, ben conosce che in palio non è la verità della realtà. Una conferma la offre, appunto, l’autore stesso, dichiarando che accumula ogni più impercettibile disposizione, sfumatura, ombra, intonazione o dubbio in un elenco ordinato, che redige daccapo ogni giorno. In tal modo, «ricomponendo ogni particolare in una nuova conformazione», egli sostituisce la precedente configurazione e ricomincia il processo di analisi e valutazione. Le acquisizioni vengono aggiornate e ciò dà conto della cangiante mutevolezza del sistema, ma tale portato conoscitivo è ancora definibile come processo unitario, non fosse altro perché univoco è il punto di vista soggettivo, sontuosamente accentuato, e il metodo, apertamente denunciato. Intanto, il linguaggio avvolge con le sue spire la congerie delle elaborazioni restituendo una sorta di ologramma, solo virtualmente tridimensionale.

Nel racconto Giro del mondo, le proposizioni vengono interrotte: un secondo flusso linguistico si sovrappone al primo senza apparentemente entrare in osmosi con il piano che registra le percezioni, come se la memoria dei viaggi effettuati s’innestasse senza confondersi con il piano di ricezione del presente. Se l’apertura delle parentesi e un carattere tipografico di minor corpo sono le marche che consentono al lettore di individuare lo stacco, pure, le frasi potrebbero ancora sembrare la continuazione le une delle altre. E, anzi, possono anche essere lette così. Sappiamo perciò di muoverci nel mentale, nel senso che la realtà non è più in gioco, e che i piani vi appaiono distinti, perché altrimenti confonderemmo la realtà percepita con la realtà immagazzinata nella memoria. Nondimeno, nel linguaggio, decade la possibilità di distinguere tra presenze e assenze, ossia tra la realtà «nella sua concretezza, solida, stabile e incontrovertibile» e i fantasmi. Se qui non intendo far riferimento alla vita che si confonde col sogno, non  oso però nemmeno dire che sogno e vita siano radicalmente diversi. Si apre una zona incognita, mobile, priva di verità e «indecifrabile», ma che non per questo è da espungere dalle mappe. Il linguaggio è una riduzione del percepito, ma è il filtro linguistico stesso ad attivare il la segnalazione delle terre impervie; segni di cui, anziché considerare la limitatezza, Aldo Bandinelli magnifica la funzione. Non a caso l’autore presenta già nel secondo racconto, Il Saltatore, la questione relativa all’impasse che spesso si prova quando non si sa nettamente distinguere tra percezione e ricordo e a questo proposito si rivolge alle risorse scritturali per stabilire la distinzione. «Forse» è l’avverbio di dubbio che segnala l’indecisione e che, cadendo in mille pieghe, ha l’estensione di un eterno irrisolto presente, ma anche di una precisissima mappa. Qui le intersezioni linguistiche assumono una veste ancor più astratta «come vertigine d’alto bordo, forse, o incantevole vista mozzafiato oppure inopportuna caduta di stile o raggiunge davvero un basso livello, o, è proprio uno schianto. Forse ha perso una scarpa e ha sentito il pavimento tremare con forza e diventare rovente». Ciò costringe, appunto, il lettore a rendersi conto dell’astrazione del linguaggio, in contrapposizione alla potenza immaginativa della mente. Quasi una contraddizione si disegna, dunque, tra la concettualità dei vocaboli e la loro capacità di farsi portavoce della ricchezza percettiva e inventiva, la quale si palesa mediante la funzione metaforica che in parte risolleva il linguaggio rendendolo più duttile, aperto e ambiguo. Tale divaricazione, presentissima, è come un fiume carsico: si sente l’acqua scorrere senza di fatto vederla ed è una connotazione originalissima dello stile di Bandinelli.


Altrettanto straordinario, nel racconto Genitore e Figlio, è l’affidare a nomi astratti, Genitore, Figlio, Zio, Morto, Cugina, Vedova, il trasporto psicologico di personalità puntuali e concretissime. Con una costante divergenza tra le dramatis personae e i loro comportamenti (sguardi, sorrisi, brancolamenti), tra i ruoli tratti da gerarchie familiari e la realtà imponderabile delle loro individualità si dipana un gioco irrisolvibile.

Il lessico, aderente ai minimi dettagli per meglio servire la complessità di ciò che liquidiamo sbrigativamente come reale, ricorda immancabilmente il partito preso delle percezioni nella splendida prosa di T. Mann nel Tonio Kröger. Lo svolgimento prosastico, intanto, si avvolge intorno a impercettibili sensazioni fisiche che assurgono a indizi di drammatica gravità, con un movimento a tratti disgressivo e annidato che mena il lettore, senza tergiversamenti, verso le radici della propria precarietà percettiva ed esistenziale. È così che leggere vuol dire imparare, incontrare la propria realtà come fosse nuova, inveduta.


Catene aggettivali, fino a quattro occorrenze, nel racconto Deserto. Tre didascalie per una foto, provvedono alla descrizione degli oggetti, dei paesaggi, delle condizioni meteorologiche. La luce riflessa in ogni dove si ripercuote a sua volta in un inesausto affiorare di colori, sempre tenuti al guinzaglio da un lessico esatto, rigoroso, accurato,  quasi a mostrare la consuetudine dell’autore/artista, con siffatto indomabile Minotauro. L’horror vacui manifestato da Bandinelli prende la forma dell’enciclopedia, entro la quale ogni cosa viene collocata al fine di porre un freno all’altrimenti ingestibile ammasso. Il linguaggio autoriale, plastico, si avvale dell’estensione prolungata delle proposizioni, spesso incatenate tra loro in paratassi o  declinate in liste che, certamente, se tassellano la pagina, spingono ai margini una altrettanto evidente tendenza alla dispersione. Fuori dal recinto è stato risospinto il vuoto e il lettore può percepirne, quasi visivamente, l’ingombro: non gli si lascia mai la libertà di dimenticarne la presenza.


La sequenza dei racconti è intermezzata da Seulement, sette disegni a tempera su carta, i quali testimoniano della necessità di Aldo Bandinelli di esprimersi anche con mezzi grafici. La loro posizione centrale, senz’altra segnatura, pone, a parere dell’autore, la loro equivalenza con i testi, spingendo il fruitore delle opere ad accogliere le due forme espressive come un’ennesima variazione su tema della personalità creatrice. Si constata, ancora una volta, che il dirupato cammino tra mente che disegna e mente che scrive, se è insondabile, non da meno è meritorio di essere investigato, ancorché sia impossibile tra essi un percorso non problematico.


                                                                                 Rosa Pierno




martedì 14 gennaio 2025

Marco Furia su “Bagatelle” di Rosa Pierno, Trasversale, 2019


 

Opposti concetti?


“Bagatelle”, di Rosa Pierno, si presenta quale raccolta d’intense, brevi, prose in cui l’autrice propone tratti linguistici introdotti da titoli composti ciascuno da un concetto e dal suo contrario.

Leggo, per esempio, da “Ripetizione/Variazione”:


“La ripetizione è tollerabile nella variazione e la variazione è sopportabile nella ripetizione”


e da “Stabilità/Instabilità”:


“Se la successione degli eventi si manifesta senza interruzioni o salti, non si deve per questo pensare che l’instabilità non operi al di sotto della superficie”.


Bene, un’ indagine “al di sotto della superficie” mi sembra in generale peculiare oggetto di questa scrittura: la parola può aggiungere o togliere qualcosa a chi la scrive come a chi la legge.

Poiché un’interpretazione autentica non può esistere, non resta che suggerire tratti, immagini, aspetti ponendo in essere non tanto un racconto quanto ambiti, circostanze.

Circostanze poetiche, quelle di “Bagatelle”, capaci di creare feconde sorprese e meraviglie.


Leggo da “Connesso/Sconnesso”:


“Nuove relazioni, le quali s’intrecciano e si sciolgono, sottolineano i punti periferici, deprimono quelli centrali, s’allumano e si smorzano senza spegnersi. Nel loro libero gioco, il senso si ricompone continuamente e forma rivoli. A volte, però, evapora e non si sa come motivare l’accaduto”.


Un “senso” che “si ricompone continuamente” e liberamente è immagine quasi caleidoscopica in grado di richiamare l’intima natura della scrittura, modo d’essere di chi scrive o legge non assoggettabile a definitive spiegazioni.

Siamo al cospetto di un’espressione linguistica che allude a sé stessa e nel medesimo tempo al resto del mondo secondo dicotomie rappresentate, del resto, dai titoli delle singole brevi prose.

Emerge, davvero, un’indomita propensione a comunicare per via di parola nella consapevolezza di come il dire presenti molteplici, spesso inaspettati aspetti:


“Il senso aveva avuto modo di incrostarsi sulla roccia delle occorrenze e delle ripetizioni, donando spessore a deboli accadimenti, pertanto, ora, a giochi fatti, non si può omettere o ricominciare come se nulla fosse stato”.


Gli attenti, precisissimi, tratti di Rosa illuminano incrostazioni, “occorrenze e ripetizioni”, ben consci di come il piccolo e il grande, il generale e lo specifico, non siano che diversi aspetti (a ben vedere nemmeno poi così opposti) dell’umano atteggiamento comunicativo.

Appare quanto mai consona, perciò, la suggestiva immagine di copertina (opera della stessa autrice) in cui un misterioso linguaggio, fatto di segni forse ancestrali o forse provenienti da altri mondi, emana un enigmatico senso che riesce a catturare lo sguardo e a trattenerlo.

A trattenerlo per l’infinito istante d’uno specifico esistere.


                                                                                         Marco Furia



Rosa Pierno,“Bagatelle”, Trasversale, 2019



  


mercoledì 16 ottobre 2024

Marco Palladini “C’è qualcuno ancora vivo là fuori?”, Racconti, Gattomerlino, 2024


Nei racconti distopici di Marco Palladini, C’è qualcuno ancora vivo là fuori?, Gattomerlino, 2024, in posizione centrale vi è un mondo espresso linguisticamente, dove il linguaggio usato dà la misura della patologia che affligge la società, ma anche della distanza che separa linguaggio e vita, a differenza di quel che avviene con le “avventure internettare”, le quali non si distinguono dalle vicissitudini quotidiane. È l’autore stesso a indicare, per i suoi testi, l’esistenza di un “preciso cronotopo” (coordinate spazio temporali e, conseguentemente, culturali). Apro una parentesi sul concetto di tempo, perché mi sembra importante sottolineare che per gli stoici, il passato, il presente e il futuro non erano affatto tre parti della stessa temporalità, ma formavano due letture del tempo, ognuna completa ed escludente l’altra, tuttavia entrambe necessarie: da una parte il presente sempre limitato, che misura l'azione dei corpi come cause, e lo stato delle loro mescolanze in profondità (Kronos); dall’altra il passato e il futuro essenzialmente illimitati, che raccolgono in superficie gli eventi incorporei in quanto effetti (Aiôn). A volte si dirà che esiste solo il presente, il quale riassorbe in sé il passato e il futuro. A volte, si dirà che soltanto il passato e il futuro sussistono e suddividono all’infinito ogni presente. La scrittura di Marco Palladini sembra avvalersi di questa seconda lettura, relativa all’illimitatezza degli eventi, senza forma e senza senso. L’analisi cronotopica serve a comprendere il testo nel suo insieme: la realtà storica in cui è ambientato, il rapporto dell’autore con questa realtà e il tipo di rappresentazione scelta. Bachtin, dopo avere affermato che il cronotopo letterario permette di determinare il genere letterario di un romanzo e le sue varietà, aggiunge che «la tipologia del “cronotopo” si costruisce sull’opposizione “mondo proprio/mondo altrui”, mentre la tipologia dell’“enunciato” si basa sull’opposizione “linguaggio proprio/linguaggio altrui”». Quindi si tratta di comprendere i diversi livelli del testo: da una parte vi sono le informazioni non letterarie (come la storia, la psicologia sociale, la linguistica); dall’altra vi sono i fatti emotivi, l’autobiografismo, mitizzato o mistificato, e l’individualizzazione.

Il soggetto, ad esempio, in un racconto, coincide con Marco Palladini, con l’“io sono scritto”, «ossia rimbaudianamente Io è un altro che mi scrive», ribadendo in tal guisa anche la presenza di una ripetizione riproposta all’infinito, ove si perde ogni cognizione identitaria. Tale tempo differito impedisce costrutti di qualsiasi genere, storici, mnemonici, affettivi. In tal modo, emerge la svalorizzazione: si può osservare la modalità con cui, la narrazione, ripetendosi incessantemente, discioglie il senso nel non-senso. Ci ritroviamo con Palladini, a seguire le orme dell’Alice carrolliana e di Gadda, dopo che  Deleuze con il suo La logica del senso ci ha fornito le precise coordinate della loro posizione spazio temporale di rizomatica ricostruzione.

Quelli che Palladini presenta come racconti polizieschi mettono estesamente in mostra il meccanismo di eliminazione del senso e, conseguentemente, dei valori. I precari, ad esempio, che rubano il lavoro ai fattorini, intercettando per primi le chiamate dei clienti per gli ordini, non sono che una scena ripetuta cronologicamente e spazialmente che prelude alla mise en abyme della società contemporanea, ma appunto, attraverso  l’estensione in superficie, anziché lo sviluppo in profondità.

Nei racconti si mette a segno «una spettrografia dello stare al mondo che disperatamente cerca di misurare la sua futile essenza». L’autore individua attraverso alcuni sintomi le persone affette da un sistema culturale privo di regole e limiti: «non ti raccontano storie, bensì stati d’animo e di malanimo, sentimenti trasmutanti secondo un finale di partita, palesemente taroccata, giocata tra bari di professione che si spifferano l’un l’altro che non c’è limite al peggio» e, tuttavia, «c’è sempre un beckettiano impulso a continuare imperterriti dopo la fine. Chiuso un capitolo se ne può ogni volta aprire un altro, ovvero rientrare in gioco». La regola principale che vige nel regno letterario palladiniano è la citazione a catena.

L’autore fornisce anche un elenco relativo alle strategie attuate dal potere per mezzo delle quali si annulla la distinzione tra i valori: si usa una dialettica fallace, si fa tabula rasa dell’ordine del Logos, ma anche del disordine del Caos, cosicché «anche lo squallore viene reputato un valore». Palladini assume così il ruolo di colui che denuncia i comportamenti menzogneri: «altra azione di copertura... atto di sviamento nomenclatorio... confusione di ruoli e livelli... depistaggi a cascata... spiazzamenti a go-go... un vortice di delitti radicati nella politica ‘latu sensu’ della megalopoli...»: si tratta della perdita dei fondamenti. Nel momento in cui non è più praticabile la separazione tra vero e falso, tra bene e male, ecco che si può dire raggiunto lo scopo del potere, quel potere che, secondo la lezione di Foucault, indottrina esseri umani privi di capacità critica. La mancata distinzione dei valori ha la meglio persino sulla percezione del sé. Ciò che non si può discernere sembrerebbe costituire per l’autore il vero problema contemporaneo; si tratta, a ben vedere, di un’incapacità di sentire e di pensare, ossia di un problema educativo.


Sulla scena del crimine, nel racconto La notte degli occhi, il detective, snocciolando frammenti di citazioni, compie un attraversamento di cliché letterari, testimoni di quell’«ipertrofia immaginaria che poi si arrovescia e si sfinisce nel proprio multiplo vuoto» a cui lo stesso autore non si sottrae, lasciando sulla scena del delitto una traccia personale: quella della propria passione per gli acrostici (si ricordano numerose poesie di Palladini costruite con tale regola). A ogni modo, se il ruolo di un investigatore è decifrare i segni – e per questo la memoria corre ai metodi investigativi analizzati da Ginzburg – quelli che Palladini lascia nella sua scrittura (oltre all’acrostico, ci sono anche i tre puntini di Morte a credito di Céline e il gaddiano flusso di vocaboli estratti da numerosi linguaggi tecnici: filosofia, antropologia, economia, sociologia, presenti in Quel pasticciaccio brutto di via Merulana) costituiscono precise marche che tracciano alcuni confini: quelli propri dello stile. Céline, con i tre puntini, dà luogo a un puro merletto, con i suoi vuoti, le sue trasparenze o, al contrario, costruisce i binari che conducono il lettore, senza tentennamenti, dove vuole lo scrittore, mentre  gaddiana è la volontà di dimostrare che alla letteratura è rimasto il solo scopo di registrare criticamente la realtà e la sua assurdità, la superficialità della classe borghese e la sensazione di caos dilagante dovuta alla modernità, la sua mancanza di senso e la sua molteplicità. Calvino scrisse che Gadda «vede il mondo come un “sistema di sistemi”, in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato». Nel senso che ogni minimo oggetto è visto come il centro di molteplici relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, sicché le sue descrizioni e divagazioni divengono infinite. Difatti, l’opera in entrambi, Gadda e Palladini, non termina banalmente con l’arresto del colpevole da parte dell’investigatore. Non a caso, Deleuze e Guattari con le loro “tracce rizomatiche” sono invitati speciali alla tavola pantagruelica di Palladini, grazie a qualcosa che si estende in superficie anziché in profondità. Si conferma, dunque, che ciò che sta alla base dell’indagine dei vari investigatori e reporter è una conoscenza indiziaria a cui manca sempre la prova finale. 

Sono numerose le mappe tracciate da Marco registranti gli indicatori relativi alla società: quella politica, sociale, psicologica, letteraria, ma particolarmente salace è la critica che Palladini rivolge alle patrie lettere, definendole ‘kakolettere’, così come si esercita un ‘kakologos’ in ogni disciplina. Ma se il metodo indiziario è incapace di risolvere le contraddizioni con le quali la realtà si presenta all’interpretante, allora la realtà diviene un labirinto privo di uscita, al modo in cui non si esce dalla Torre di Babele o dai gironi dell’inferno, che ne costituiscono i modelli metaforici. Le tragiche vicende quotidiane, i fatti di cronaca innescano nel personaggio di turno un flusso ininterrotto ove da un punto nevralgico si toccano tutti gli altri punti nevralgici del sistema, contemporaneamente e senza soluzione di continuità, comportando l’inesorabile presa di coscienza che fa deporre ogni speranza su un possibile cambiamento anche in uno solo di questi snodi (violenza, ignoranza, povertà, sopraffazione). 

Marco Palladini scrive che «non vuole comunque smettere di sperare contro la speranza». Quest’ultimo suona come un concetto paradossale, ossia che la speranza sia un sentimento sorgivo come la vita, ma del tutto slegato dalla realtà; una credenza inutile, ma insopprimibile. Difatti, sembra prevalere, in Palladini, il parere che la scrittura non valga come progetto, che sia senza speranza come in Kafka. L’inesauribile effervescenza immaginativa dell’autore si rifrange nei suoi alter ego senza che mai lo soccorra alcuna fiducia nel cambiamento. Sembrerebbe che né natura né cultura possano modificare lo stato in cui versa l’essere umano. I personaggi appaiono ricavati da maschere prevedibili, sono determinati dai loro cliché linguistici. Salgono e scendono sulla linea dell’orizzonte come fossero issati su una ruota. Nessun grado di libertà: la stessa scrittura di Marco Palladini, con la sua irruenza asfittica e priva di soste, provvede a trascinar via le precarie esistenze dell’Attore Sentimentale, della Psicologa Paranoica, dell’Amministratore Ladro. Con la loro psicologia ridotta allo spessore di una lamiera, essi si alternano nel plot senza mai addivenire a una soluzione pur temporanea delle loro vicende esistenziali e per questo sono esposti ai colpi del tiratore del luna-park. Con eccelsa precisione, colui che prende la mira è l’autore stesso. 


Rosa Pierno

lunedì 30 settembre 2024

STEVE N. 63, edizioni del Laboratorio, primavera-estate 2024

 


Il nuovo numero 63, primavera-estate 2024, della rivista <<Steve>>, diretta da Carlo Alberto Sitta, è un piedistallo dal quale osservare il mondo letterario non soggetto a mercificazione. Se da un lato costituisce una sfida una rivista che vuol essere una finestra su un panorama letterario e artistico tanto articolato e frammentato come quello odierno, dall’altro lato, essa riesce a individuare le direzioni di ricerca attive nei testi, avendo di mira una visione unitaria. Inoltre, la rivista si mantiene in equilibrio sul filo gettato tra verbale e visivo, andando alla ricerca non del sostegno che la parola può offrire all’immagine, ma del proliferare di sensi, anche pre-verbali, che scaturiscono dal loro sfrigolare. Analizzando il lavoro di Ketty La Rocca, Raffaella Terribile puntualizza che spesso la ricerca, specificatamente della poesia visiva e concreta, cerca l’elisione reciproca di parole e immagini, costringendo entrambe ad assumere una diversa valenza e, in ogni caso, a uscire dalle secche di un linguaggio strettamente comunicativo. Sotto accusa non è solo il linguaggio, dunque, ma anche il sistema delle arti, entrambi accusati di imporre il proprio potere, esercitando una vera e propria espropriazione mentale. L’assunzione acritica del linguaggio, il suo uso “passivo” induce a sclerotizzazioni invero nefaste. Ed è questo un contenuto che dagli anni ‘70 viene promulgato da una coalizione culturale che mira a contrastare l’accettazione supina del sistema dato.

Si rivela così necessario prestare attenzione all’attività della critica, la quale deve mettere in luce le ragioni fondanti di pratiche alternative e non ricadere nel rischio della descrizione, sorta di parafrasi del testo poetico, secondo l’avvertimento di C. A. Sitta: la critica ha, infatti, il dovere di formulare un giudizio di valore. Per raggiungere tal fine  deve potersi giustificare la sua ragion d’essere, si deve delineare il punto di vista di chi ha prodotto l’opera visiva, verbale o multimediale, oltre a indicare lo specifico contesto storico, ossia il testo deve essere “oggetto di interpretazione”. Purtroppo, attualmente, le ristampe di opere importanti (ad esempio, Partita di Antonio Porta o Oblò di Adriano Spatola) vengono accolte da <<generazioni smemorate che sembrano vivere a loro volta in spazi indeterminati>>. Lucidissima è la lassa in Cronaca da una clausura di Sitta a tal proposito: <<Se il critico perde il rispetto del proprio oggetto diventa un malmostoso saccente che nulla ha da aggiungere a ciò che studia, se non la delimitazione sadica dell’opera e la paralisi tossica dei significati (16 novembre 2023)>>.

A tal proposito, la nota critica di Paolo Gera al poema di Carlo Alberto Sitta Continente d’acqua esemplifica la necessità dello scavo concretissimo e annodante ciascun verso a riferimenti letterari, illustrandone filiazioni e distanze e costruendo così la mappa delle origini e delle differenze che legano ogni libro a un altro libro, distanziandosene al tempo stesso. Nel medesimo alveo si collocano le illuminazioni concettuali di Mladen Machiedo costruite sul limitare del paradosso. Sono aforismi sulla natura politica dell’essere umano che sembrano dover accompagnare e facilitare, con le domande retoriche presenti nel testo, baluginanti come se fossero state scritte al lume di candela, la presa di coscienza di coloro che mancano di confermare persino i propri dubbi: <<È un dono vivere nel mondo che continuamente si autocancella?>>. Nel mondo globale c’è una sola voce, altro che multiple differenti voci: <<Alcuni si sentono offesi, se – per colpa loro – siete voi i danneggiati>>. E se allora la letteratura si assume l’onere di essere voce dissidente si sarà certo ridato valore alla scrittura. Va da sé che il contrario di tale scrittura è quella professionale, carrieristica. E d’altronde Machiedo scrive: <<Alla bassa marea della poesia giova, sì, la bassa marea della critica>>.

Analogamente, Antonio Belfiore studia le tecniche espressive di Giovanni Fontana aventi come fine di mostrare, attraverso le potenzialità sonore del segno, le sue possibilità performative, ma anche l’emersione dello scarto e di un <<dialogo che procede per scatti, intermittenze, vuoti>>.

Tuttavia, non basta dire che <<Steve>> accoglie la letteratura che si oppone a quella di consumo. Poiché appunto anche la ricerca segue il solco della propria tradizione, ha una storia, ha modalità precise di articolazione e non è un contenitore che automaticamente raccoglie ciò che esula dal primo. Non è nemmeno escluso, d’altra parte, il sentimento di appartenere a una comunità che condivide alcuni assunti. Se oggi sono sparite le poetiche, non è però dissolta l’adesione a un insieme circoscritto di voci selezionate rispetto alle quali s’intende far risuonare la propria voce. La volontà di non sottomettersi al giogo dell’ovvio così come agli “effetti speciali retorici” impone un esercizio costante che vaglia ogni singolo lessema, incastonandolo in una struttura sintattica atta a raffreddare le esuberanze stilistiche, ma anche a sostenere un tessuto che stimola la produzione di un senso non immediato. 

Anche i testi di Raffaella Terribile effettuano un’analoga cernita nella produzione artistica. La studiosa affronta nelle opere visive di Maurizio Osti le esperienze verbo-visive da lui condotte assieme a Giorgio Celli e ad Adriano Spatola, enucleando il tema delle tangenze impossibili tra visivo e verbale che è un perno dello studio da sempre perseguito dalla redazione di <<Steve>>, lo ribadiamo, ove la questione del segno rimane aperto, <<spinto nell’indeterminatezza assoluta, sospeso tra possibili soluzioni e un ordine apparente, che risulta sempre una determinazione provvisoria>>.

Analoga posizione ripresa dalle poesie di Mario Moroni: <<spazi sonori risonanti / di parole senza riferimento certo, / senza la realtà dietro quei suoni / quei segni, torrente in piena, / senza argini, gli argini del senso>> (da Maremma). L’attenzione tenuta costantemente sull’arbitrarietà esistente tra significato e significante è un ottimo setaccio per non indulgere all’uso comunicativo del linguaggio. Giorgio Terrone con i suoi “pensieri di piccole cose” e le “immagini senza importanza” lavora, nelle sue  poesie, sulle percezioni che sfuggono alla concettualizzazione. Con uno splendido testo poetico, Philippe Jaccottet descrive la lenta navigazione degli ultimi anni di vita verso un porto, lasciando alla rima la sua piena potenza evocativa. Ma abbiamo citato solo alcuni autori fra i tanti presenti nella rivista esclusivamente per seguire un certo filo discorsivo, tra i testi, tutti pregevoli.

Nella rivista è presente anche una sintesi del convegno organizzato dal Festival Mantova Poesia, nel 2024, che ha visto la partecipazione di quattro riviste, Formafluens, L’Age d’Or, Menabò, Steve, le quali condividono alcuni elementi fondanti: la volontà di superare i generi, la ricerca dell’immagine come elemento che entra in maniera attiva nel testo deviandone il senso, l’attenzione alle problematiche della società di massa e l’attenzione esclusiva al pensiero critico anziché alla comunicazione.



Steve, diretta da Carlo Alberto Sitta ed edita da Edizioni del laboratorio, Modena.

Pubblicata dal 1981, la rivista ha rinnovato nella seconda serie l’attenzione per i linguaggi artistici, pittura, architettura, teatro, musica. Nella quarta serie ha pubblicato, in una serie di interventi entro una specifica sezione, la biografia per immagini  di alcuni fra i più importanti poeti italiani: da Viviani a De Angelis, da Porta a Niccolai, da Neri a Spatola, da Piersanti a Pignotti.


martedì 10 settembre 2024

Tiziana Colusso, Lengua de striga, Bertoni, 2024

 


Per stessa indicazione dell’autrice, Tiziana Colusso, la raccolta di testi teatrali contenuti in Lengua de striga, Bertoni, 2024, che raccoglie testi scritti nel periodo che va dal 1989 al 2023, riguarda un teatro di voci, nel senso che, anche quando è presente il dialogo, i personaggi non acquisiscono una precisa individualità, nascono come funzioni sceniche, non agiscono in uno spazio concreto e sono dunque puramente mentali, sulla scia del teatro sperimentale degli anni Ottanta. Lo si constata subito nel testo del 2023, Casa senza bambole, nel quale la voce protagonista, femminile, coincide con la voce narrante, descrivendo condizione interiore e scenografia assieme. Il luogo in cui l’azione si svolge è di fatto la descrizione letteraria di qualcosa che in scena non ha luogo. È un teatro privo di scenografia, per questo lo spazio vi è descritto come fosse una funzione dell’interiorità che vi s’inscena. Lo spettatore è come se dovesse leggere l’ecfrsi di un quadro, poiché il quadro non è disponibile alla sua diretta visione. E ciò ha la sua ragion d’essere. Quello che la voce descrive è una sorta di esperimento portato all’ennesima potenza. Sperimentare la totale mancanza di libertà che un uomo-carceriere impone, non escludendo che la responsabilità sia in parte di una incauta cessione di libertà o meglio della rinuncia alla propria libertà avvenuta già all’inizio della relazione per una malintesa valutazione di ciò che una relazione dovrebbe essere. Cosicché, il paradosso dell’auto-incarcerazione aiuta a comprendere come si debba sempre evitare una tale caduta insita nella sperequazione posta all’inizio del rapporto. E, certamente, Colusso è da sempre attiva nella denuncia delle ingiustizie, dei soprusi, delle violenze, affinché tutti gli esseri umani siano avvertiti dei pericoli etici e politici che connotano una società in costante crisi di valori e produttrice di orrori, com’è nel testo Il precipizio. Teatro delle voci per Donatella e Rosaria, del 2019. Ivi, attraverso una polifonia di voci, la testa di Circe, ritrovata nel 1928 sul Promontorio del Circeo, diviene scaturigine simbolica del precipizio morale e materiale del massacro del Circeo. Lo spettacolo, con una messa in scena multicentrica e multimediale, è stata rappresentata a Terracina nel 2021 e a Velletri nel 2023, conseguendo il Premio Palco Errante.


Nel volume sono presenti due riscritture di un primo lavoro, avente il titolo Ars fulguratoria, messo in scena nel 1996 nello spazio di una chiesa sconsacrata e curato dal regista Stefano Grossi. Una ricerca storica condotta dall’autrice ha rintracciato le relazioni esistenti tra magia e religione negli Etruschi, in particolare sull’aruspicina e sulle sacerdotesse che interpretavano i fulmini. La prima delle riscritture del testo originario è Lengua de striga. Partitura per voci, coro, musica e canto. Il personaggio principale non parla se non attraverso il coro, poiché sordomuta. Tale menomazione assurge a simbolo di alterità, nel senso che segnala una più efficace e raffinata sensibilità, ma è anche indice del fatto che più che di una persona si tratta di una stratificazione di identità storiche. La pièce teatrale, andata in scena nell’ambito del Festival RomaPoesia del 2002, si avvale di voci recitanti disposte in semicerchio, con alle spalle un’opera di Enrico Frattaroli Lengua de striga. Presenti sulla scena anche alcuni musicisti a rimarcare la necessità per l’autrice di servirsi di diversi mezzi espressivi, in linea con un insistito uso di vari linguaggi (latino, inglese, dialetto) che contribuiscono alla costruzione stratigrafica del personaggio principale. Il riferimento paesaggistico è alle terre della Tuscia, nelle quali Tiziana  Colusso è nata e ha vissuto, alla torva presenza delle tombe etrusche nei boschi fondi e senza respiro, così magnificamente descritti da Vincenzo Cardarelli nei suoi testi letterari. E anche questo immediato legame letterario contribuisce a creare una sorta di contatto immediato tra realtà diverse nel tempo, tra diversi sostrati culturali. Risalendo alle popolazioni che hanno abitato quelle terre, così presenti nelle suggestioni degli attuali abitanti, Tiziana infilza assieme pratiche divinatorie, nella figura di una sacerdotessa etrusca addetta a leggere i segni che i fulmini tracciano nel cielo, e nella figura di Irina, sordomuta nell’era contemporanea, la quale salda con le sue percezioni il proprio corpo alle pietre dei sentieri che percorre. La magia si rivela il legante tra le due figure, quella magia che in barba ai tentativi prima greci e poi illuministici di ricondurre alla ragione ogni conoscenza, percorre come una saetta le ere, manifestandosi in tempo e luoghi lontanissimi. La lingua ne è la depositaria e nella lingua, oltre che nei gesti, si trovano le formule magiche che Ernesto De Martino in Sud e magia riscontra nelle relazioni spesso ambigue tra magia e cattolicesimo, a onta di quell’alternativa tra magia e razionalità che è uno dei grandi temi da cui è nata la civiltà moderna. Ma per Colusso la magia resta una risorsa, lì dove vengono meno i mezzi per ottemperare alle esigenze culturali in altro modo. L’autrice è, difatti, sempre attentissima a segnalare le iniquità sociali ed economiche all’attenzione del suo pubblico, poiché è da queste iniquità che nasce la tragedia. Un’ulteriore riscrittura del medesimo tema è Irina l’idiota, del 2022, messo in scena nel 2023 al Museo degli Strumenti musicali di Roma, nell’ambito del Festival Poesia, Lingua Viva. Questa volta la protagonista ha voce in capitolo, parla assieme ad altri testimoni: alla pastora, al coro dei paesani. È un tessuto di voci a costruire il testo  e, pur tuttavia, il linguaggio è monocorde, stilisticamente omogeneo. Alla crudeltà di ragazzini ignoranti che, per un deprecabile gioco, la legano alle rocce, risponde l’altissimo grido di Irina che riconosce nella disparità non solo delle forze, ma anche dell’intelligenza delle cose, l’abisso delle differenze fra individui.


Eppure tali voci differenti tessono un unicum che si dispiega sullo spazio scenico. La frammentarietà e l’eterogeneità svaniscono di colpo e tutto si dispone in un armonioso arazzo. La differenza tra voce interiore e voce reale dei personaggi in scena non solo non è rilevante, ma, a tratti, viene spodestata dal mondo dei sogni che diviene così più vero di quello reale: qui il ruolo dell’immaginazione ha un potere salvifico. Ciò accade sia per le voci di Sofia, della narratrice e della voce registrata che legge un testo poetico di Odisseas Elitis  che s’intersecano nella lettura scenica di Mida alla circonvallazione est, del 1995 (interpretate dall’attrice Daria De Florian) sia per le voci mentali, del tutto immaginarie, presenti in Sparizione di Giovanna, del 1991 (andato in scena al Teatro Furio Camillo di Roma nella stessa data). In quest’ultimo testo, le voci di Giovanna d’Arco si trasformano in personaggi che, a loro volta, sono sulle tracce di Giovanna. Ciò  sembrerebbe tracciare un anello di Möbius in cui il punto di scissione tra interiore ed esteriore è del tutto non individuabile e dunque starebbe a indicare, nella poetica visione di Tiziana Colusso, l’inestricabilità tra ciò che è individuale e ciò che è collettivo.



Rosa Pierno

sabato 13 luglio 2024

Rosa Pierno “Le metamorfosi del libro. Dal libro miniato al libro d’artista” Gilgamesh Edizioni, 2024, collana diretta da Carla Villagrossi



 

Il libro è per eccellenza il depositario della memoria collettiva, è uno strumento di formazione e scambio culturale e la disciplina che se ne occupa comprende la sua materialità  (carta, tecniche di stampa, rilegatura), l’attività degli editori e dei librai, il mercato e le pratiche di lettura. I libri che contemplano l’intervento di un’artista, a loro volta, hanno una vera e propria selva di definizioni: libro illustrato, libro figurato d’autore, livre de peintre, libro d’artista, libro oggetto, opera libro, edizione d’arte. L’esplorazione diviene presto perdita dell’orientamento, se non si conoscono le categorie interpretative e tassonomiche che ne dovrebbero circoscrivere i domini o, almeno, far comprendere quei libri che vogliano superarle. Quindi, laddove il saggio Le metamorfosi del libro. Dal libro miniato al libro d’artista, Gilgamesh, 2014, a cura di Carla Villagrossi, ripercorre la storia di codeste definizioni, ciò non accade per amore delle classificazioni, ma per esporre l’ambito storico e culturale in cui esse hanno trovato la loro giustificazione. La mancanza di una classificazione, oppure l’uso dell’etichetta libro d’artista usata in senso generico, ossia anche per i libri illustrati o i livre de peintre, non fa, infatti, che generare confusione. Non è l’esclusivo intervento dell’artista a giustificare la denominazione libro d’artista, poiché essa è nata per indicare un prodotto con caratteristiche precise, spesso legate a una volontà intermediale. Pertanto, è bene delimitare tale classe che pretende, altrimenti, di designare troppe cose, ossia più nulla. 

I concetti così raccolti non sono concetti-categoria; sono contenitori generici, non certo caratterizzati da condizioni necessarie e sufficienti. Non si è trattato di costruire perciò un sistema classificatorio né dell’arte né del libro, pur seguendo le diverse denominazioni del libro, bensì di esplorare, cogliere e registrare le sue diverse forme, porgendo un sostegno per effettuare la loro valutazione. Ciò che conta, alla fine, è sapersi destreggiare nella selva degli esemplari, valutare la loro appartenenza o meno al mondo dell’arte ed essere pronti ad accogliere anche nuove proposte artistiche. 

Prendendo come punto inaugurale del cambiamento, rispetto al libro illustrato o al livre de peintre, il 1960, perché è questo l’anno in cui la pubblicazione simultanea di quattro libri dà l’avvio alla produzione di libri d’artista, si accenna soltanto, nel saggio, ai libri oggetto, considerando che la natura del libro è tradita se l’interesse per il suo aspetto sensibile esclude tutti gli altri. Mediante uno sviluppo mostruoso della materialità del libro, a parere di A. Mœglin-Delcroix, la maggiore studiosa del libro d’artista in Francia, si condanna il libro all’insignificanza del “niente da leggere” e anche del “niente da vedere”: sono oggetti “tutta esteriorità” che serrano il libro, invece di invitare a sfogliarlo; oppure fingono che sia aperto, ma sempre alla medesima pagina, ottenendo così di negare le ragioni stesse del supporto. Dello stesso avviso è M. Butor, per il quale vi è una differenza irriducibile tra i libri e i libri oggetto: questi ultimi sancirebbero l’atto di morte del libro. 

Le relazioni tra testo e immagine costituiscono il punto focale del saggio: esse assumono forme diverse: dai componimenti alessandrini ai calligrammi, dai carmina figurata ai libri miniati, dagli alfabeti figurati ai libri illustrati, dai livre de peintre ai libri d’artista. Se si volesse con un solo esempio far comprendere come il testo non sia sufficiente per esprimere ogni cosa e soddisfare ogni sete di conoscenza basterebbe indicare i trattati di anatomia, gli erbari, i ritratti. Un’essenza vegetale disegnata è immediatamente riconoscibile, mentre una descrizione verbale resta astratta. Le immagini, d’altro canto, non sono strutturate né sintatticamente né semanticamente, pertanto, la loro irriducibile peculiarità non può essere tradotta senza perdite in un altro codice. Se non si parte da questa opposizione, se non si riconosce questa impossibilità di sostituire la restituzione visiva con quella testuale, non si può veramente cogliere il loro apporto specifico. Ovviamente, la relazione istituita dalla presenza di entrambi all’interno di un libro apre a una serie di valutazioni. Lo iato esistente tra ciò che è visivo e ciò che è verbale fornisce un’occasione per arricchire e completare l’orizzonte conoscitivo, percettivo, intuitivo ed emozionale, proprio con l’utilizzo delle due diverse forme espressive. 

Seguire le vicende del libro illustrato e del libro d’artista vuol dire seguire di fatto le vicende dell’arte. Il libro è diverso dalla tela, ha una sua dimensione che non si esaurisce se non sfogliandolo, leggendolo, valutandone la qualità della carta, della stampa, della rilegatura, apprezzandone il frontespizio e il colophon, i rapporti selezionati per l’impaginazione, la scelta dei caratteri e la qualità delle immagini. 

Il saggio inizia con una rapida carrellata sul libro miniato, attraverso la quale si può seguire l’innervarsi di una consistente serie di mutamenti all’interno della relazione visivo/testuale. Il secondo capitolo, in relazione all’operato di Mallarmé, individua le basi teoriche di alcune pratiche che, risalendo dalla cultura ebraica, giungono, attraverso i secoli, a esplicitarsi soprattutto nella scrittura asemica, nell’utilizzo dei vuoti e nell’uso del colore bianco, ma anche nel minimalismo e nell’arte concettuale: elementi presentissimi nel libro d’artista. Il terzo capitolo descrive lo sviluppo del libro illustrato in Francia, alla fine dell’Ottocento, mentre in Europa, nel quarto capitolo, si dispiegano i movimenti del dadaismo, del futurismo e del costruttivismo, i quali danno un forte contributo a una diversa declinazione del libro (libro povero, libro di arte tipografica). Il quinto capitolo tratta delle esperienze italiane, riguardanti sia il recupero dei valori della tradizione sia il tentativo di connettersi con le teorizzazioni più avanzate condotte in Europa. Il sesto capitolo affronta alcuni problemi posti dalla definizione aperta dell’arte, dall’intenzionalità dell’artista e dal genere. Il settimo capitolo affronta la nascita del vero e proprio libro d’artista che si avvale dell’influsso di ulteriori teorizzazioni derivanti dalla linguistica, dall’intermedialità e dal ripristino delle esperienze dell’avanguardia. Percorre la storia del libro d’artista in Italia, dagli anni Settanta del Novecento, l’ottavo capitolo, sottolineando i legami con quanto svolto in precedenza in altre aree geografiche, ma anche indicando i nuovi apporti specificatamente italiani (Poesia Visiva). Infine, il nono capitolo è all’insegna di uno scandaglio delle relazioni che intercorrono tra testo e immagine, ove la panoramica sulle posizioni critiche mostra, oltre all’inevitabile pluralità delle posizioni, la consistenza dei problemi. 

Se si riconosce che il libro d’artista ha voluto sferrare un attacco al sistema mercantile dell’arte, combattere il sistema culturale occidentale nelle figure del Soggetto, della Storia, del Linguaggio, sottrarre al testo la sua capacità di costruire il senso, si deve ammettere che esso è nato in opposizione al libro di lusso. Nel quadro odierno si può affermare che una parte degli artisti più giovani sembra meno interessata alle possibilità del libro in quanto medium (diffusione, circolazione, accessibilità) e più interessata, invece, alla sua sola aura artistica. Per M. Butor siamo all’alba del dopo-libro, ossia nell’era dell’interesse che va soltanto ai libri sotto l’aspetto di opere d’arte; egli è soccorso nelle sue affermazioni da McLuhan secondo il quale un medium che perde la sua importanza sociale tende ad estetizzarsi, ripetendo pregiudizialmente che non si avrà arte se non al di là della sua utilità o malgrado essa. 

Il conflitto tra avanguardia e cultura di massa è stato attuale nella seconda metà del Novecento; oggi sembra, però, che i baluardi delle due fazioni in lotta si siano trasformati. Dopo il postmodernismo si fa fatica a trovare produttori dell’innovazione culturale in contrapposizione a quella che si ipotizza essere la cultura di massa. Con la fine dell’avanguardia, avanguardia e massa non sono più antitetiche: la produzione sembra essere votata decisamente al recupero, alla citazione, al riuso dei materiali storicizzati. Se una storia del libro d’artista appare possibile fino agli anni Settanta, già a partire dal 1980, la produzione di libri contenenti immagini di artisti prolifica, seguendo i percorsi estetici di ciascun artista. 

Oggi, che l’etichetta libro d’artista è usata impropriamente per tutti i libri in cui è coinvolto un artista, è apparso prioritario ripercorrere le tappe fondamentali dell’uso della forma libro per ristabilire non solo la ricchezza della relazione metamorfica tra testo e immagine, ma, soprattutto, per non dismettere alcune differenze inerenti alle ragioni classificatorie e non obliare la specificità delle arti, concetto ineludibile dal quale osservare la molteplicità delle loro relazioni. 


Rosa Pierno