sabato 18 ottobre 2025

Stefano Iori, Flussi 2023-2025, puntoacapo Editrice, 2025

 

Nella nuova raccolta di Stefano Iori, Flussi 2023-2025, libro sapienziale, oltre che poetico, il gusto della paradossalità trova la sua funzione più profonda nel coniugare cose che risultano impossibili da accostare: “ali guizzanti / in lento volo”. Oppure: “La dismisura della luce / nomina la notte”. Il senso è quello di scorgere il luogo nel quale gli opposti si toccano “con garbo / di fantasma”. D’altronde, ogni cosa interseca l’altra, la ingravida. Il vuoto, ad esempio, che col buio e col silenzio s’interpola, entra ed esce dalla pienezza del reale, dando quasi vita “a luce che non brilla”, giungendo così ad allacciarsi al tempo e alla fantasia. Ossia, il vuoto entra nell’ambito della realtà, indicando con ciò un’opposizione che è sempre solo apparente. Qui si scorge l’utile funzione del paradosso, il quale segnala che esiste la possibilità di due percorrenze equivalenti, mentre per consuetudine si tenta di costringere il senso in una sola direzione, causando laceranti attriti. Una delle principali antinomie, quella che definisce il tema della silloge, è l’angoscia della morte mentre più forte è il desiderio di vivere. La ricerca di Stefano Iori s’impernia sul dilemma “ansia di morte ansia di vita” che il risultato della sua riflessione, invece, vedrà, come scopriremo in seguito, convivere senza contraddizioni.


Ma andiamo con ordine: ogni cosa viene interpretata come simbolo nella non fattibile comunicazione tra essere umano e divino; si ha la certezza della non realizzabilità dello scambio verbale: “almeno un soffio di quel dire / ombra o luce di un intento”. Appena qualcosa, non il vero a tutti i costi. Il poeta sembrerebbe accontentarsi, ma solo apparentemente. In realtà, lo vuole strenuamente. E ciò allora sposta il punto focale: non attraverso il verbo si comunica. Con il verbo si annotano le domande, le intenzioni, i desideri, i sogni. Sicché, “Illusione ben accetta / miraggio ricercato” sono ora le nuove monete sonanti che attirano l’attenzione di Iori. Tutto ciò che è sparso nel mondo sembra volerci parlare di altro, eppure bisogna astenersi, accettare il frutto dell’immaginazione. Abbandonarsi al mondo, accettare che non abbia senso, come fosse la prova più grande da sopportare. E l'autore ci si dispone, sperimenta il proprio annullarsi, la mancata reattività dell’io; accetta di andare per il mare alla deriva. L’io deve coincidere con un anonimo adattarsi. Bisogna tenersi lontani dall’arroganza dell’individualismo che forgia, fissa e inchiavarda, anziché lasciare liberamente fluire il pensiero. E forse mai età, se non la vecchiaia, ha in sé l’antidoto contro un personalismo dominante: “È tempo di limare / la spocchia antica”.


Pur seguendo il passo di quei letterati e poeti che hanno cercato, a prescindere da ogni consapevolezza della perdita, la ricerca del senso, Iori provvede ad attuare un suo programma, quasi esercizi spirituali d’attenzione:


Assumere a ogni passo

impegno d'attenzione

fugando vani abbagli

di traguardi dell'istante


Nel lento scorrere delle ore si manifesta la via oscura, quella che conduce alla morte, giacché la vita può definirsi come ciò che muore, che si estingue. Iori si esprime con la laconica essenzialità dell’aforisma: “Brama di stasi inorganica / l'inerzia abituale del sasso”. Sebbene la consapevolezza di codesta verità sia pienamente assunta dal poeta, pure, bisogna imparare a morire, a considerare tale verità come peso che aggiusta ed equilibra tutte le cose esistenziali. E ciò può avvenire se si studia, appunto, un metodo, che vediamo esplicitato nei seguenti versi:


Far scorrere nel non finito

emozioni e sogni

Lasciare monchi i progetti

con piegata umiltà


Vi è anche l’assunzione di un opposto punto di vista sulla morte, poiché, se è scontato che quando siamo vivi la morte non c’è, c’è però il suo concetto ed è con quello che ci si deve misurare. Dunque, il ribaltamento ottiene che la “Morte è nascita al contrario”, per cui si ritorna verso il punto di partenza: il nulla.

Nella riflessione sul termine della vita, “la via ancora aperta / si confronta con ignota / misura”. L’io resiste appena alla vertigine dell’oblio. Si direbbe che sopravvive perché sa. Le parole che il poeta mette insieme sulla carta, inseguendo senso e storia, indicano che egli si dispone alla morte proprio denegando senso e storia. Cosicché le vere parole, dice a se stesso, “le ritrovasti nel vero silenzio vivo / senza ombre di dolore attorno / alfabeto d'emozioni del colore d'un ruscello”. È ancora l’orizzonte dell’immaginazione che disegna fondali, scenari, situazioni, valenze: un’immaginazione tutta umana, ma certamente capace d’inglobare in sé una nuova visione. Difatti, non si può uscire dalla condizione esistenziale se non con il termine della vita, ossia con la perdita dell’immaginazione, pertanto, conviene utilizzarla nel modo più creativo per dare la stura alla molteplicità; non per inseguire il divenire, ma per attestare della permutazione e del ribaltamento. Viene alla mente il quadro di H. Bosch Quattro visioni dell’Aldilà, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, nel quale, in un cielo nero privo di profondità, si apre un imbuto di luce incandescente. Miracolo della perspicacia, potenza dell’immaginazione! Ritornando al metodo messo a punto da Iori, mi riferisco al ribaltamento come tecnica, poiché è di fatto una modalità da lui particolarmente utilizzata. La perdita della memoria coincide con la capacità di attraversare la bruma e di conseguenza:


Inutili certezze svaniscono

nell'aria d'alabastro

perdendosi in dubbi 

taglienti più del vero


È dunque il gioco degli opposti a consentire al poeta di non stazionare in caselle bloccanti o fuorvianti, di non irrigidire il suo pensiero, ma di lasciarlo libero di aggirare gli ostacoli: quei concetti talmente evidenti da cui è altrimenti facile farsi abbindolare. Ricordi, pregiudizi, convenzioni, i quali non combaciano nei tentativi plurimi della volontà di ricondurre tutto ad unità, hanno una cattiva influenza sulla mente che si dichiara delusa dalla realtà, come se essa stessa non appartenesse al medesimo ambito. Tuttavia, in questo gioco, si delinea almeno la consapevolezza del valore che la distanza dalle illusioni può fornire, profilando una vaga traccia de “l'imperfetto regno / di ciò che verrà”. Il sogno, in questo senso, prende il posto dei desideri, quelli sbrananti, distruttivi, come il rimpianto, compagno della depressione, e modifica la direzione, mostrando appunto un’altra via. Persistono gli enigmi nei sogni, ma si può constatarne la presenza senza arrovellarsi per risolverli. Anzi si può tornare al non sapere: “Fino a fluida sincronia / col dilatarsi dell'ignoto”. Sarebbe questo “il poetico vero”, lo stadio di massima apertura al nulla, anziché l’ingresso nelle gabbie della ragione.

Pertanto, la vera posta in gioco sembrerebbe essere la compresenza “d'armonie e dissonanze / in perpetuo divenire”, non in quanto scopo o bersaglio, ma in quanto condizione in cui si attenuano le illusioni e si accede all’equivalenza dei termini. 


Che cosa si diventa dopo? In quale condizione ci si ritroverà? In una “straniata immisura / permeante e scura”. Tuttavia, anche la terra ha una sua giustizia: 


Senza il pavido 

lo sconcio non sarebbe re” 

dirà quel giovane 

invocando il tempo 

in cui solo gente di seta 

abiterà cielo e terra”


Allora, i legami fra terra e cielo, bellezza e disperazione, dolore e gioia, pieno e vuoto esistono e non sono recidibili come banalmente si crede. Sicché anche il confine tra vita e morte è in realtà illusorio. È necessario aprire mente e cuore per auscultarne il battito all’unisono. 


Rosa Pierno




venerdì 3 ottobre 2025

Stefano Iori, “L’albero della poesia”,Terra d’Ulivi, 2025

 


I testi teorici di Stefano Iori presenti ne L’albero della poesia, pubblicato nel 2025 da Terra d’Ulivi nella collana di saggi Angelus Novus, forniscono un quadro di interessi culturali variegato, approfondito ed esteso. Difatti, i testi pubblicati in saggi precedenti e gli editoriali scritti per rivista «Menabò», da lui diretta, si rivelano estremamente interessanti sia per cogliere in maniera chiara l’orizzonte di riferimento dell’autore sia per valutare, nell’estemporaneità delle occasioni, la mobilità di un pensiero che non si fa assediare da alcun luogo comune sulla poesia, né si chiude in una torre d’avorio. A riprova, si consideri che se è con quest’apertura che Iori ha maturato i suoi editoriali, è anche vero che non ha mai considerato la poesia un valore in assoluto, ma sempre da considerarsi in relazione con altri settori della sapienza umana: la conoscenza filosofica, la valutazione politica, il silenzio, la musica, la creatività, il tempo; idee che attraversano tutte le arti. Non ultima la relazione io/l’altro, la quale si riverbera nella relazione scrittore/lettore; relazione vista «con “spirito di comunità”»: si sta assieme per perdersi ancor più, dove perdersi ha il significato di cercare da sé la propria via, cosparsa, naturalmente, dalla presenza dei suoi autori prediletti. Sebbene una soluzione definitiva alle contraddizioni e alle disuguaglianze sia impossibile, ciò che conta è l’intesa tra i due diversi soggetti: lo scrivente e il lettore. Tale sintonia si stringe ancor di più quando si è nel labirinto, dentro il quale lo smarrimento è inevitabile. Tuttavia, nella loro percorrenza, i due soggetti svilupperanno un dinamismo crescente, «nel segno della vertigine che li accomuna» (dal volume collettaneo Poesia, la vertigine della bellezza, La Corte dei Poeti-Gilgamesh, 2017). Vista dalla specola della sfera politica, si tratta della lotta tra la creazione e la consuetudine, nel senso di indomito compito assunto dal cittadino contro il tentativo di omologazione perseguito dai poteri forti all’interno della società liquida, dove tutti i valori vengono dissolti. Le tesi di Stefano Iori, nate meditando su alcuni punti focali dell’ebraismo, per i quali la parola è centrale, e sulla poesia costituiscono una sfida all’ignoto stesso, poiché non si tratta mai di definizioni preconfezionate, ma  di un dialogo incessante fra voci in lotta tra di loro, così come lo sono la luce e l’ombra, al fine di intravedere nuove vie da esplorare insieme e di ottenerne nuovi slanci e nuovo vigore. Addirittura, darsi la possibilità di traguardare da un labirinto a un altro, di trascorrere da una complessità all’altra giacché, e non risulti un compito ingrato, ossia senza risultati, è il percorso stesso, l’attraversamento, la misura delle prolifiche differenze a evitare il fallimento. È l’essersi eticamente impegnati nella ricerca della propria irriducibilità, nell’aver forgiato il proprio metodo conoscitivo, nel non aver abbandonato l’arduo compito, a dispetto della dimensione dell’incertezza in cui affondiamo, giacché «Scrivendo poesia abbracciamo pratica di vita e di perfezionamento etico e spirituale».

La poesia è labirintica come tutte le forme di conoscenza sapienziali. In questo senso, essa si distingue dalla logica, perché non si sussume in un concetto, ma lo esplora e lo sfonda. La stessa forma sistemica della filosofia si contrappone alla poesia, laddove quest’ultima consente l’accesso all’incomprensibile e all’ineffabile. Eppure, ciò non toglie che ci sia un confine poroso tra le due discipline, per cui entrambe tentano di conquistare alcune porzioni appartenenti all’altra, senza tuttavia mai perdere la propria specificità. È questo il senso dell’intervento di Iori nel volume collettaneo Poesia e Filosofia. I domini contesi, pubblicato dall’associazione La Corte dei Poeti nel 2021, qui riportato. È anche vero che il filosofo e il poeta inseguono entrambi la verità: «combattono l’appiattimento del pensiero liquido dominante, ne costituiscono l’alternativa necessaria», sono custodi della lingua.

Quando il silenzio viene definito «“forma non forma” dei nostri modi di affrontare (pensare) l’ignoto», il lettore ha a disposizione una mappa che non lo obbliga, ma gli indica contatti e allontanamenti, assonanze, disguidi. D’altronde, il silenzio è anche pausa, vuoto bianco tra le parole, alterità che consente l’esistenza stessa del ritmo musicale. È l’albero della vita a simboleggiare gli opposti, il perenne movimento a due, che genera l’altro da sé, il mutamento. L’obiettivo è certamente raggiungere l’equilibrio attraverso un intreccio di «intuizione emotiva e raziocinio». In questo movimento, la memoria assume un ruolo imprescindibile, in quanto, dalla lotta che produce frammenti e residui, solo essa è artefice di una re-invenzione che rilegge ciò che è trascorso, dando vita a una nuova visione del passato che è contemporaneamente nuovo presente e futuro. 

La parola sacro, in questo quadro, si rivela strettamente attorta alla parola utopia: da una parte è necessario ridare sacralità alla vita contro le vie dell’onnipotenza umana che giunge a distruggere il suo stesso ambiente, dall’altra è la visione utopica che, pur in queste difficoltà, può giungere a individuare i cambiamenti necessari. Stefano Iori propone la poesia come prassi che ci fa avvicinare alle istanze più profonde e originarie e ci fa aprire alla nostra essenza umana: «Essa coglie il più profondo senso della vita e tende a farsi essa stessa vita». La speranza che il dialogo fra poeta e lettore, a cui la poesia dà luogo, possa essere ricostitutivo dei valori coincide con il paradosso dell’attesa che è «l’esperienza cruciale di chiunque cerchi di costruire i propri strumenti per sperimentare se stesso e gli altri. Colui che attende trova. La non-attesa garantisce la non-scoperta». È pertanto sempre possibile che l’umanità muti in senso positivo e, a maggior ragione, tale posizione ha, negli attuali frangenti storici, una valenza di non supina accettazione della realtà. Proprio la poesia si pone, grazie al presente insito nella tradizione, come un nuovo modo di vedere e di pensare rivolti verso la direzione del progresso. Spesso, negli editoriali, pare di ascoltare la voce appassionata di Iori che incita a non accettare supinamente le situazioni sociali e politiche in cui siamo immersi. È un invito a ricostruire se stessi e gli altri con i valori letterari, i quali sono gli unici in grado di indirizzarci e di unirci. Seguire Stefano Iori nelle sue rabdomantiche peregrinazioni, che si svolgono toccando il silenzio, il nulla, l’ignoto, è veleggiare su un mare che s’addentra nelle tenebre con l’illuminazione poetica a indicare la rotta.


                                            Rosa Pierno


martedì 16 settembre 2025

Luciana Bianchera “Non sarà che un attimo”, Gilgamesh, 2025

 



L’attimo non può che essere confrontato con ciò che avviene in seguito e che, pertanto, apparirà sconosciuto al presente, non fosse altro perché insieme formano una coppia oppositiva, dove gli elementi si contrappongono in quanto entità o concetti diversi. Il tentativo di preveggenza, ossia leggere le cose come segni per divinare il futuro è il desiderio che caratterizza l’impeto lirico di Luciana Bianchera ed è un fervore onnipresente nel suo nuovo libro di poesie Non sarà che un attimo, Gilgamesh, 2025, tradotto in spagnolo da Antonio Tari Garcia. Il libro è bilingue in quanto nato dai continui viaggi che la poetessa, per motivi di lavoro, ha effettuato negli ultimi anni, poiché potente e influente è stato il suo incontro con la lingua spagnola. È certamente dovuta alla professione della poetessa, che si occupa di psicoanalisi ed etnoclinica, la propensione a vedere in ogni aspetto dell’esistenza, una sorta di simbolizzazione continua, a tratti estenuata, che quasi sorvola poeticamente il legame che pure tesse tra aspetti affatto distanti. Siffatto slancio non è dovuto soltanto all’interpretazione della psicologia individuale, a cui, peraltro, non viene meno la consapevolezza dell’arbitrio insito nell’atto interpretativo della realtà effettuato tramite linguaggio. Il primo riferimento, d’altronde, lo troviamo proprio nella prima poesia: “Bambini affaccendati / nel gioco dell’invenzione del gioco”, verso che richiama in contrappunto “Sospendo il gioco”, in riferimento alla lettura dei segni istituiti dal vecchio cappello e dallo scialle appartenuti ai nonni da cui, appunto giocando, non si perviene ad alcuna risoluzione futura. Luciana si abbandona all’intuizione; solo così riesce ad afferrare per qualche istante il mistero del domani. La dichiarazione sulla nostra tendenza all’interpretazione si trova a essere giustamente limitata dalla coscienza, indica la poetessa, poiché la realtà non corrisponde alla nostra volontà o ai nostri desideri e, dunque, risulta più equilibrata quella visione che appare maggiormente rispettosa dei limiti. Inoltre, è da considerarsi che “Nel sogno / ogni cosa / prenderà altra forma”. Un’ulteriore modalità esegetica si frappone in tal modo tra la realtà e il soggetto, rendendo maggiormente complessa l’analisi dei dati. E, in aggiunta, come districare il sogno dalla credenza, l’apporto della cultura dall’uso della lingua? Sarà per questo che la sua scrittura ci appare come bucata dall’incertezza della divisione tra i corpi, tra le menti e tra l’esperienza e i sogni, i propri e quelli degli altri, visto che anche il soggetto e l’altro sono due forme di categorizzazione prive di margini, a tratti entità addentellate (“Nel mio corpo / scorrono le vite degli altri”), sovrapposte o imcompossibili. Cosicché Bianchera si sottrae alla facile tendenza di congetturare profili certi e si addentra nell’esplorazione dell’informe. Non dismette però lo slancio del sogno a occhi aperti, della visione favolosa con i suoi risvolti miracolosi e intangibili. Sicché una freschezza, un candido sguardo, una levità tracimano dalle pagine, nonostante le dolenti illusioni, in codesta repentina versatilità emotiva, sempre sotto dettato del contingente. E che dire, d’altra parte, quando la natura invia segnali di corrispondenza amorosa tra i suoi diversi elementi, mentre la propria esistenza appare priva di amore? “Il cielo / penetra nell’acqua / che si arrende placida / all’amore”. Lo scarto è certamente da registrare, ma tocca adeguarsi. Inutile tergiversare su giustificazioni, speranze, attese. Il dato viene consegnato con lucida chiarezza allo sguardo divenuto per questo accogliente e comprensivo del lettore. 

Il linguaggio è sotto la lente di osservazione di Bianchera, in quanto a esso affidiamo la nostra possibilità di dire chi siamo di volta in volta e che cosa desideriamo. Wittgenstein ci avvisa che il linguaggio interiore non esiste, che noi lo usiamo, avendo appreso dagli altri le regole della sua applicazione, che quello che crediamo interiorità non è che una fioritura linguistica, contingente, con cui esperiamo qualcosa, con il quale ci raccontiamo a noi stessi, dal quale ripartiamo soddisfatti o insoddisfatti. Per questo non si smette mai di parlare. “Non ricordo la storia / di ogni oggetto. / Mi svanisce il ricordo di te”, pertanto si dovrà cercare ancora, scrivendo, un pensiero che ripresenterà la forma desiderata, quella con cui si crede di coincidere: un pensiero linguistico. Si seguono le evoluzioni delle delicatissime forme che Luciana Bianchera rilascia come petali durante le sue sfiorite giornate o come gioiosi strali luminosi lanciati in azzurri cieli. Il loro susseguirsi scandisce il quotidiano in quanto rosario di attimi. Ed è certamente il tempo a funzionare da collettore, aggregatore di istanti percepiti, di sogni, di disguidi, di coincidenze. A tal punto, che è il tempo che, aggregando ciò che è eterogeneo, potrebbe essere definito il vero poeta. La coesione dell’eterogeneo viene dunque effettuata da un agglutinatore in grado di riconfigurare ciò che è sfaldato, di ridare identità a ciò che è non riconosciuto. “Senza lottare”, però, poiché questo sembra essere il quid afferrato, la saggezza raggiunta.

Tutto non è che un “Bastimento di ipotesi e intanto / il cielo si sta annuvolando”. Afferrata nelle maglie delle mille fugaci, iridiscenti o poderose e oscure immagini, Bianchera riesce a tenere ben saldo il timone fra i procellosi eventi e a godersi il loro susseguirsi lussuoso e arricchente. Ricucire, tessere, adombrare, prevedere sono fatiche pari a quelle che Sisifo deve sostenere, ma non è possibile astenersi dal vivere. La morte stessa, ci rammenta Luciana Bianchera, è un pensiero che funziona da sponda, quasi un muro che risponde a ogni nostro colpo. Se gli attimi della vita sembrano perdersi nel nulla, nonostante ciò tutto apparirà  anche “meravigliosamente compiuto”.


                                                           Rosa Pierno


sabato 28 giugno 2025

Sintassi del Segno Sospeso, mostra di Maria Rosa Benso presto il Teatro Palazzo Saluzzo Paesana, maggio 2025

 



Sebbene alla ricerca degli accadimenti che si situano sul confine, nel tentativo di sorprendere ciò che è evanescente, apparente e perciò stesso incerto, Maria Rosa Benso non rinuncia a intitolare la sua opera, la prima che appare nel catalogo della mostra Sintassi del Segno Sospeso, tenutasi a Torino presso il Teatro Palazzo Saluzzo Paesana nel maggio 2025,  Strutture fluttuanti. Ora, è ben evidente che una struttura per reggere non può essere labile né incostante, se non venendo meno alla sua ragione d’essere, ma tale antinomia ben racconta come l’accento venga posto dall’artista sulla paradossalità insita nell’azione del dipingere che dalla materia passa alla materia avendo spianato tutto quanto di reale esista. In una splendida distesa d’acqua azzurro cobalto, un puntino nero ci mette sull’avviso che, poiché è di pittura che si tratta, il vero antecedente è la storia della pittura stessa: dunque, per quest’opera, il pensiero va a Mirò. Ma subito lo sguardo si perde seguendo, nelle intestine profondità, le cime di giganteschi filamenti, forse di materia organica, e il fruitore incontra un secondo paradosso: la profondità si ottiene su una superficie. La riflessione di Benso, pertanto, è sempre anche una riflessione sulla pittura. 

Se esiste materia, essa è desostanziata, presenta vacuoli, ossia è lavorata sottraendo pigmento bianco dalla carta inchiostrata (Materia sospesa, inchiostro su carta, 2022). Ha persino un accenno di forma ed è fortemente analogica, al fine di insistere sulla metamorfosi, sul divenire, più che sulla saldezza per quel che riguarda le cose del mondo. In fondo, la stabilità del mondo è un desiderata dell’umana mente.

Nelle due carte intitolate Percezioni, (tecnica mista su carta, 2021), la superficie è mossa, disomogenea, appena vapori acquei; con alcune asole, nelle quali traspare il candore della carta, essendo aree prive di campitura. Su tale estensione si sovrappongono addensamenti grigi, delineando una zona dove è meno possibile discernere: forse banchi di segni mnemonici. Ed è qui che entra in campo la scrittura come intervento mentale. Il segno aggancia la volontà, ma anche l’incoscienza. Sappiamo molto più di, ma lo dimentichiamo. Spesso è proprio il sostrato mnestico a tirarci in ballo, a trascinarci.

La memoria, inestricabilmente intrecciata al tempo, è la protagonista di due opere: Attraversare il tempo e La materia del vento (entrambe realizzate a olio e tecnica mista su tela, 2025). Tempo e memoria striano, tolgono intensità, elidono la materia, senza però riuscire a cancellarla del tutto, poiché rimane un’impressione: sorta di lastra sulla quale un vento, che sposta e desostanzia, erode i margini.

L’opera At the still point, there the dance is, (olio e tecnica mista su tela, 2025) palesa la presenza di una scrittura che si sovrappone al visibile, ma, appunto, è un visibile guardato con gli occhi della mente. Un circolo bianco simboleggia la luce, non abbagliante, un punto denso, mentre la scrittura, solo apparentemente leggibile, è formata da una calligrafia elegante quanto indecifrabile. È il verbo da cui tutto origina. A conferma, in Prima che sia voce (tecnica mista su carta, 2024), che nelle tenebrose spazialità soltanto un moto di segni si manifesta, prima ancora del verbo.

La scrittura si confonde col puro segno nell’opera Centro e assenza (olio e tecnica mista su tela, 2025), divenendo a tratti disegno, quasi fosse possibile una sorta di deformazione, un’anamorfosi di cui non si verrà mai a capo e che induce il fruitore a riflettere sulla vicinanza che scrittura e disegno hanno sotto taluni aspetti. Ci si chiede anche se l’assenza si possa scrivere. Il titolo, come la stessa artista indica nel sottotitolo, proviene da Henry Michaux, Entre centre et absence. Maria Rosa Benso, difatti, inanella opere che per i titoli si rifanno alla letteratura di area francese. In Je veux ētre un poète, et je veux ētre un ciel (da Arthur Rimbaud, lettera a Paul Demeny) del 2024, nel buio silente, la nascita del mondo terreste è data dal colore Terra di Siena; si vede la luce coincidere con la scrittura, o meglio con una sorta di prescrittura, dove il senso letterale è ancora di là da venire e non ha in fondo importanza che arrivi. Il senso, quello vero, pare consistere in un indefinito. Tuttavia, la scrittura, larvale, è già comunicazione, come attesta A più voci, (tecnica mi sta su carta, 2024). È già una danza, un passo doppio, un addensamento della materia. Il rosso in luna forse, tramite il valore simbolico del sangue, all’umano orizzonte. Parrebbe potersi affermare che alla parola compete solo il segno della sua stessa perdita. I titoli delle opere tradiscono un’infedeltà al reale e una preferenza senza ripensamenti per l’origine introvabile delle cose, la cosmogonia del senso totale, con l’irrinunciabile corrispettivo di totale mancanza di senso. Lo si comprende bene in Mirror (inchiostro su carta, 2024), laddove a specchiarsi solo due segni, mentre lo sfondo è in liquefazione perenne. Come riconoscere un’identità in un siffatto paesaggio?

La geometria, quando presente, come in Fenditure (argento ossidato su carta, 2022) disegna un ambiente estraneo, simbolico, sgraffiato e riporta alla memoria le fotografie scientifiche delle particelle sorprese nei loro inimmaginabili tragitti, come, d’altronde, il titolo stesso farebbe pensare. In realtà, sono gli effetti che si ottengono con la brunitura dell’argento: labirintici segni con sprazzi di luce ed ombre sui quali soffia un vento da microcosmo.

In Whispers e in Il peso delle nuvole (entrambi realizzati con tecnica mista - assemblage, del 2024), lacerti di garza di seta mimano le volute di nembi vaganti nell’aria, ma sono rigidamente riquadrati da cornici bianco-nere che li fanno dialogare con la geometria. Quest’ultima è la simbolica stampella della ragione, ma la razionalità compie i suoi magheggi per far quadrare il cerchio: il paradossale è, dunque, perpetuamente in agguato in siffatte opere realizzate con raffinatissimi mezzi, sul limitare di un minimalismo che è strumento per accedere alle questioni ultime e peraltro nient’affatto distanti dalla nostra quotidianità. 

Nell’assemblaggio di Trasparenze (2024) e di Brouillard (2025), Maria Rosa Benso introduce rametti, garza di seta, vecchi quadranti di orologio da polso privi di lancette per giocare sulla soglia tra il vedere e il non vedere, sulle consistenze appena sufficienti delle materia, sicché la domanda sembra più riferirsi alla reale fondatezza delle sostanze e alle inevitabili apparenze a cui diamo il pomposo nome di realtà. 


Rosa Pierno


domenica 11 maggio 2025

“…così fiorirà”, mostra collettiva per il ventennale alla galleria La Nube d’Oort, Roma, dal 14/05al 25/06 2025

 


“...così fiorirà”


14 maggio  – 25 giugno 2025


 “L’uomo come l’erba, i suoi giorni come fiori del campo, così fiorirà” (*)


Una mostra per festeggiare i vent’anni di attività (2005-2025) della galleria La Nube di Oort


Vernissage   mercoledì 14 maggio 2025 ore 18.30

* dal titolo di un'opera di Iulia Ghiță che riporta un verso dei salmi


Per la mostra che celebra il ventennale dell’attività della galleria La Nube di Oort il direttore artistico Cristian Stănescu ha voluto scegliere una frase poetica che valesse come tema della mostra: "L’uomo come l’erba, i suoi giorni come fiori del campo, così fiorirà". Tale tema, non da prendersi alla lettera, è stato accolto con sensibilità dai numerosi artisti che hanno partecipato alle precedenti esposizioni. Naturalmente, la numerosità delle opere presenti (quarantasei) attesta del fantastico lavoro svolto dalla galleria romana negli anni che vanno dal 2005 al 2025. 


Effettuando il vaglio delle opere presenti, si rileva che alcune opere presentano un soggetto naturalistico declinato a volte con elementi geometrici. Si vedano i fiori dai colori spenti e pastosi accostati ai coni dai colori terrestri e cilestri di Luca Grechi; l’abaco di forme vegetali sempre dissomiglianti l’una dall’altra di Geneviève Rocher; i fiori cosmici di Peter Flaccus, realizzati a encausto e aventi perfette forme opache circolari ed esplosioni a raggiera trasparenti; “i  petali” di Licia Galizia in poliene verniciato, carta e legno, in cui colore e forma si oppongono a ciò che è vegetale. Il referente naturale è invece completamente assente dal quadro di Antonio Cimino: in esso si rincorrono grandezze dal sapore analogico, ma vi è ancora il ricorso a figure geometriche.


In alcune opere è in atto una dialettica che salva l’estrazione dell’idea, ma anche la concretezza del dato, secondo la lezione di Aristotele. È una questione importante poiché determina l’accoglimento del divenire, evitando che esso sia escluso. All’interno di codesta dialettica opera Georgina Spengler, con un tulipano nella pienezza della sua fioritura alle prese con la galassia di Andromeda e con le linee fluide di un tempo lineare/circolare; Leila Mirzakhani coglie dei papaveri la traccia esclusivamente cromatica; mentre Sandra Heinz sorprende le ortensie nel tempo e nello spazio del loro formularsi e Rosa Pierno realizza un acquerello in cui le forme si disciolgono e si raddensano nell’esclusivo movimento  del colore. 


Nei lavori che si situano tra descrizione e decorazione, il piacere non è disgiungibile dalla conoscenza. La decorazione, che si articola fra astrazione e naturalismo e che non ha mai abbandonato l’arte moderna e contemporanea, mostra la sua presenza perenne anche nell’opera di Myriam Laplante, la quale presenta la natura nella sua duplice veste di schema e di materia, un opera che rimanda a una sua performance; Cristiana Pacchiarotti fa spuntare i suoi delicatissimi fiori impunturandoli in una lastra di porcellana; Elly Nagaoki formula le sue intricate essenze dal sapore memoriale, non prive di colore tonale; le forme quasi assenti di Iulia Ghiță svaniscono per interna dissolvenza e nell’opera di Innocenzo Odescalchi si contrappone a un fondale espressivo e materico una forma floreale stilizzata.


Esplicitamente legati alla consistenza del filo, alla serialità del ricamo e della tessitura sono le opere di Simone Pontecorvo e di Giorgia Accorsi, anch’esse annodate a stretto filo alla decorazione, con forte preminenza degli elementi materici e gestuali. In Edith Urban, invece, il collage realizzato con materiali diversi accede a un simbolismo personale, diaristico, memoriale.


Quando di un reperto vegetale si evidenziano le forze strutturanti, di accrescimento, esse si candidano quali elementi utili alla categorizzazione, come in Diana Legel. In Renée Lavaillante è la linea di contorno a determinare la forma, individuando nel contempo l’inseparabile dimensione spaziale, specificata, in questo caso, da variazioni chiaroscurali. Non troppo distante è la scultura in terracotta di Lucilla Catania che affida la nascita della forma allo scavo lineare nella materia mediante un gesto formante che non si separa dalla sensibilità per lo spazio.


Nell’enfatizzare la bidimensionalità, Alessia Armeni, assieme alla semplificazione e alla pennellata fluida, che accentua ancor di più il valore della superficie, conserva il rapporto fra luce e ombra, mentre in Elena Boni, l’immagine, raddoppiata dalla superficie riflettente dell’acqua, restituisce un’obliquità indicante la tridimensionalità come dimensione invisibile, ma ineliminabile.


L’uccellino-emblema di Elvio Chiricozzi, la figura umana che avanza a fatica di Donatella Spaziani, la donna tra due cieli di Stefano Di Stasio, il corpo femminile sul quale spuntano i fiori di Paola Gandolfi, il fiore spaziale che invoca la Nube di Oort  di Karolina Lusikova, l’uccello che implica il concetto di gabbia di Monique Régimbald-Zeiber presentano un linguaggio visivo di tipo sostanzialmente classico, ma fortemente simbolico, a tratti con accenni enigmatici, ove è indicata con fermezza l’impossibilità di tradurre l’immagine in parole, a sottolineare il valore insostituibile di ciò che è visivo. 


Gli artisti si pongono di fronte al soggetto bandendone quel superficiale naturalismo che costituisce il “genere”. Quindi, più che coglierne il dato transeunte, essi disegnano figure intatte del conoscere: fiori fotografati, ma digitalmente elaborati, per Piero Varroni, il quale enfatizza alcune caratteristiche del petalo solitario, o il lavoro comparativo di Francesca Phillips, la quale utilizza la fotografia come elemento che evidenzia somiglianze e differenze tra pianta ed albero; a sua volta, Daniela Monaci trasforma lo scatto in scultura.


Per la declinazione concettuale del dato naturale, ove l’elemento vegetale viene sottoposto ad alcune operazioni, quali la ripetizione, il ribaltamento e la simmetria, il riferimento va alle opere di Andrea Fogli e di Giuseppe Salvatori. Qualora l’immagine naturale sia interpretata mediante associazioni nate da una contiguità visiva, si è di fronte ai lavori di Adele Lotito e di Gulia Lusikova. Laddove le opere sono realizzate con materiali aventi caratteristiche opposte al modello, il rimando è ai fiori di un composto cristallino di John O’Brien, i quali conservano nel passaggio materico la fragilità del modello,  e ai fiori di loto di Paolo Di Capua che scolpisce  i bordi  dei petali nelle venature del legno.


Al gioco del bianco e del nero, Carlo Lorenzetti e Bizhan Bassiri affidano il rischio dell’imprevisto e le fortune dell’analogia. Il primo, utilizzando ferro e carta, crea una scultura essenziale, polisemica; il secondo realizza una contrapposizione irriducibile, in cui figura e fondo, scambiandosi incessantemente i ruoli, variano la percezione delle forme. Nel medesimo solco, Ernesto Porcari lavora le sue sottili aste di ferro per trarne analogicamente una memoria vegetale.


Nel novero delle opere che non hanno come tema elementi vegetali, ma interagiscono con materiali prelevati da disparati contesti, realizzando un corto-circuito ove il concetto si esplica attraverso l’utilizzo di un materiale allusivo, rientra l’opera di Aldo Grazzi. Sul versante esclusivamente materico lavora Solmaz Vilkachi, presente con una sfera di travertino intrisa di pigmento rosso sangue. 


All’ordine del paesaggio appartiene l’opera di Uemon Ikeda, ove la pioggia, con il suo accenno ritmico, attiva sfere sensoriali diverse. Oan Kyu in Returning Breeze traccia, in serie, onde scritturali fortemente evocative, ma scandite da incidenti di percorso che introducono il caso come componente irrinunciabile.


L’inaugurazione della mostra è stata completata dalla performance di Lucia Bricco, Atmospheric sample, in cui lo sdoppiamento e la ricomposizione dei corpi richiede le risorse dell’immaginazione, del sogno e dell’inconscio, come anche nel delicatissimo video di animazione di Adelaide Cioni.


La mostra celebrativa è composita, complessa e per questo efficacissima nel testimoniare la ricchezza delle proposte, in relazione alle diverse provenienze geografiche (Canada, Stati Uniti, Corea del Sud, Russia, Iran, Giappone, Europa), alla disparità dei mezzi (pittura, scultura, fotografia, performance e video d’animazione) e delle linee di ricerca visiva. Sulle pareti, le opere si dispongono in maniera fitta, in un armonia sorprendente, un pò una quadreria d’altri tempi, dove con un colpo d’occhio è possibile vedere differenze più che l’unità delle esposizioni settecentesche e ottocentesche.



                                                                                                                            Rosa Pierno



La Nube di Oort – Via Principe Eugenio 60, Roma 

Orario di apertura : dal 14 al 22 maggio 2025 da martedì a venerdì  17.30 / 19.30  

e  dal 26 maggio al 25 giugno 2025 per appuntamento (+39 3383387824)