Sebbene il
tessuto poetico sia innestato da schegge metalliche, da scarti di lavorazione,
da ingranaggi, strumenti tecnologici, la loro costante presenza, non intralcia
lo sguardo perlustrante del lettore. Sono ausili, non il nemico contro cui
rivolgere invettive, come invece accade in tanta parte della cultura
novecentesca avversa alla scienza e alla tecnologia. La tecnica che sembra
ancillare al corpo, non può in ogni caso risolverne i problemi, ma nemmeno sembra
porne. Anzi, emerge ancora più scarno ed essenziale il problema sollevato dal
corpo, dalle sue protesi. I capillari, i ventricoli, gli sterni, nella poesia
di Daniele Poletti fanno problema, sono il reale versus linguaggio, a cui solo per necessità di completezza viene
affiancata la natura, ma più come analogicamente ripetitiva (le ramificazioni
al posto delle vene, le foglie al posto delle membrane, ecc.: “Argilla e pietra
nel succo identico del ripetersi”.) E le malattie del corpo vengono equiparate
a quelle delle piante o addirittura
trasmesse ai materiali inerti. Ma, contemporaneamente, il corpo proietta,
nefasto, i suoi spurghi, i suoi umori, i suoi nervi annodanti, persino la sua
morte, su lenzuola e cielo (“morituro cielo”).
Tale accostamento
non per segnalare la via di risoluzione della contesa tra i due contendenti, ma
per mostrarne la irriducibilità, il salto esistente nell’analogia che non ci
priva in ogni caso della possibilità metaforica, ma che anzi vede proprio in
essa le potenzialità della sua riuscita. Un lavoro che sembrerebbe inserirsi su
quel binario meta-letterario per cui quello che si mette in evidenza non è
soltanto il contenuto manifesto, ma una riflessione sul modo di prodursi del
pensiero letterario, cioè sulla sua specificità. E che ci sia un legame, poi,
fra filotassi e matematica, fra materia e pensiero astratto è un corollario che
non viene a complicare il già saturo
quadro in cui il corpo riempie persino gli interstizi, non lasciando alcuna
asola di vuoto.
Certo non è assente
un polemico accenno contro il tentativo di attribuire ogni soluzione alla sola ragione:
Visura
Spiovuto
si cammina alla cieca
i
riflessi strizzare d’occhi un arrugare
ai
bozzali che duplicano il cielo
in
sciepi, trovatura di nuvole
l’occultà
degli incroci e delle strisce
pedonali.
Con gesti armillari classifichi
le
ombre per ripararci dall’ombra
hanno
tagliato tutti i rami istituito
il
catasto delle aree aduste non
vi
sarà apocatastasi perché un giorno
fu
detto che il sole è una stella
e se
ne perse l’uso. Lo sgretolo
della
luce nell’oggi vero di sempre
preme
in basso la terra che porto
nelle
tasche di nuovo il tentativo
di
invertebrare il tempo. L’acqua
nel
mortaio pestare le nuvole
il celeste
intenso esiguo rinsecchito.
La ragione non
può essere una soluzione valida quando ci si dimentica completamente che
abbiamo a disposizione ben altri strumenti per sistemarci nel mondo
(dall’immaginazione, alla percezione). “Invertebrare” il mondo ha qui il senso
di operare una sostituzione che, però, non dimentica mai di essere tale. Qui si
tratta esattamente del problema del realismo e dell’antirealismo che
Wittgenstein ha tentato di superare sulla scia di Aristotele, con un ancoraggio
nel linguaggio. L’orizzonte di senso sopravanza il reale. E proprio da questo
raggiunto incrocio si diparte Poletti, il quale penetra nell’operare del
linguaggio in modo da svelarlo, contro una forte tendenza a fraintenderlo. In
questa direzione, dunque, Poletti non congegna un linguaggio ideale, dispiegato,
ma un linguaggio in cui la logica arriva sempre dopo e le tavole anatomiche,
che s’incrociano con quelle botaniche, nell’evidenziare che tutto è già in
ordine con il solo loro accostamento, mostrano un senso a cui non manca nulla. Se
infatti formalizziamo un pensiero troppo monocorde, non riusciamo più a
cogliere la molteplicità originaria del linguaggio. Di qui l’importanza di
trovare membri intermedi, significati aggettanti, andando a ricostituire quel fascio
di fibre che è il senso.
Nella prima parte
della raccolta, avvertiamo la presenza di un occhio indagatore che scorre e
registra, che opera trasformazioni o individua equivalenze, come accadrebbe in
una wunderkammer. Niente di alchemico,
ma tutto compresente. Nessuna esclusione: tutto partecipa all’allestimento. Nella
seconda parte della raccolta è, però, l’orecchio a pretendere il proscenio, il
lessico si slabbra, si sventagliano forme atipiche fino al refuso,
sovrapposizioni e innesti. Vale qui riportare le parole dello stesso autore
assolutamente esplicative sulla modalità costruttiva con cui opera, in maniera artigiana, diremmo fisica, sul materiale
poetico:
“Per quanto riguarda alcuni
"neologismi", parole come: ‘sterpiti’, ‘maceriata’, ‘intristito’,’ pietrà’
hanno il fine di creare un alterazione percettiva: in quanto
"pietrà", ad esempio, verrà letto d'acchito, da un’alta percentuale
di lettori, come ‘pietà’ o ‘pietra’. Nel realizzare invece che la parola è
"pietrà", l'auspicio è quello di aver creato un cuneo, un’unica
parola, con una plausibilità fonetica e
morfologica (anche se anamorfica!), che suggerisca due immagini e che si
incunei (appunto!) nel cervello secondo una logica non additiva, ma
esponenziale. Perciò ‘una pietrà di rami’ è un verso che dovrebbe connotare la
stagione invernale, già denunciata in apertura di poesia, attraverso una
vegetazione che è pietrificata (spoglia) e allo stesso tempo pietosa, di una
pietà che adombra il motivo cristico della corona di spine (anticipato con ‘incristito’).”
Felicissima
opportunità di risalire al momento ideativo, il commento di Poletti apre uno
squarcio anche sul funzionamento sintattico, poiché il senso che sfolgora nel
singolo vocabolo si innesta in un tessuto sintattico di paziente intreccio:
simile a un nido formato da materiali non omogenei, disarticolati, spuri che
eppure, al fine, vanno a formare un’unità poetica.
Inoltre, l’accostamento di vocaboli che apparentemente
nulla hanno in comune è il viatico che introduce l’ossimoro, il paradosso, l’onirico,
in parallelo con la ricerca surrealista, mostrante che le connessioni nascono
dai registri più vari, assonanze, casellari rigidi o disordinati, similitudini
o divergenze, non solo reali, ma anche inerenti esclusivamente all’area linguistica.
In ogni caso, la ricerca di Poletti segue la scia degli studi foucaltiani in
cui le pratiche si succedono senz’altro fondamento che il loro uso.
Siamo in presenza
di una struttura poetica con fori ora più fitti e piccoli, ora più larghi e
radi, di discontinua consistenza e sovrapposizione, la quale determina una ulteriore differenza nella lettura,
tattile differenza diremmo, e che corrisponde ai punti in cui è più manifesto il
riferimento al linguaggio anziché al corpo, a ciò che ha una materia o non ne
ha affatto. Alle zone testuali che si riferiscono al materico corrisponde una
spiccata attenzione ai valori estetici e percettivi, subito riequilibrata dalla
sua assenza nelle zone in cui il linguaggio esclude riferimenti concreti.
Achiria II
Non tagliare il pollice serve a far
scivolare
l’occhiello nel nodo della stringa.
Dopo le otto ore il rifugio
dell’acqua
un alfabeto d’uva passa sulle dita
mentre i formicai stridono sul
marciapiede
e gli uteri stremiscono in letti
bianchi.
Sotto contraria apparenza i denti
appassiti dietro le labbra dal non
detto
un silenzio sperperato nel dire
urgente
del respiro gli spazi tronfiano.
Sul pavimento in semina una
manciata
d’unghie recise mosaico genealogico
che attende solo l’ora delle
pulizie.
Per non cercare la notte nel
mattino
discalceato orecchio piede nudo
nell’argilla
finché l’ora tiene finché il tempo
lo permette.
Ma non esistono
cesure nette nel fluire poetico istruito da Poletti: il passaggio tra le
diverse zone, se è consustanziale, è anche sempre in evidenza. Una poesia che
non teme di scendere in agone e che denuncia mentre propizia, mette in guardia mentre
attua, in linea con una poesia che pretende per sé anche il ruolo attivo di
strumento conoscitivo.
Rosa Pierno
La raccolta “Poesie
e defixiones” è consultabile sui due seguenti siti:
http://rebstein.wordpress.com/2013/01/30/immarcescibile/
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