Il tentativo di riattualizzare il lascito di un’intera epoca, come questo di Tzvetan Todorov ne “Lo spirito dell’Illuminismo”, è meno condivisibile se, espunte le emergenze più problematiche, se ne filtri solo la parte più congeniale al proprio assunto, quello che si vuole porgere come un frutto polito e digeribile. Todorov presenta una troppo patinata confezione del pensiero settecentesco (privandolo di asperità, contraddizioni e incongruenze teoriche e politiche). Dopo avere sgombrato il campo dalle egoistiche e isolate posizioni sadiane che escludono l’altro e pongono l’individuo in un contesto in cui le relazioni sociali sono tranciate, e dopo avere precisato che l’illuminismo non cade nel terreno del relativismo perché cerca sempre solido terreno nell’accettazione del diverso punto di vista quando esso sia universalmente condivisibile, assume come guida quelli che sono i capisaldi della dottrina illuminista e afferma che essi non solo sono ancora validi, ma sono gli unici che abbiamo a disposizione per operare nel nostro presente. Una volta assunti come universalmente condivisibili i concetti di dignità non calpestabile della persona, di inviolabilità dei diritti umani e quelli relativi all’autonomia da ogni tipo di potere precostituito e della conoscenza rispetto a ogni sapere preconfezionato, essi fungono per Todorov, da metro con cui misurare le azioni e le decisioni dei governi nella nostra epoca.
Se il libro risulta affascinante per la limpidezza delle idee, non si può “assumerlo” senza il necessario antidoto. Gli universali risultano vuoti se non li si contestualizza; restano astrusi, zavorrati come sono dalla loro origine trascendentale. E il fatto che si tenti di fondare la loro accettabilità sulla condivisione generale non fa sorgere minori dubbi: in nome di quale Ragione, di quale Bene e di quale Senso della storia si possono imporre scelte? Inoltre, il concetto di critica formalizzato da Kant, sull’onda dell’esperienza dell’Illuminismo, non assume in questo libro la sua funzione regolatrice: si resta in balia di concetti che per essere, appunto, universali, sono rigidi e considerati al di fuori dei modi e delle situazioni in cui dovrebbero operare per fornire un miglioramento delle condizioni di vita. Utilizzare concetti polimorfi, duttili, calati nei contesti, non disuniti da valenze contraddittorie e consideranti la molteplicità dei punti di vista, non trascendentali, e per questo più rispondenti alla complessità umana di cui debbono essere strumento di sostegno, e non certo coercitivo, costituirebbe la polarità dialettica che a questo libro manca.
Il disagio che si prova è quello di trovarsi di fronte a un maestro in buonafede che appiattisca proprio quel concetto di critica che dovrebbe essere lo strumento con cui non accettare niente incondizionatamente, niente che non sia passato attraverso il vaglio della critica della conoscenza, fornendoci invece, e contro il suo stesso assunto, una scenografia in cui politica, economia, saperi e potere sono disegnati in maniera manichea e dove è sempre facile individuare la verità. Passando sotto silenzio che la verità ha una valenza storica, è presa nella rete della storia e il riferimento alla natura umana non offre maggiori appigli. Definizioni di principio non hanno significato se non sono calate in un contesto storico in cui, di volta in volta esse devono essere valutate in maniera specifica. Valga come un esempio per tutti il principio di una società senza classi, considerata come desiderabile da tutti gli uomini, da raggiungere con la lotta condotta da una classe sull’altra (posizione assunta da Chomsky durante il confronto con Foucault in “Della natura umana”, Derive Approdi, il quale fa appello alla natura umana per fondare la giustezza delle sue posizioni, che si riveleranno nella risposta di Foucault solo un’opinione). Io credo che non possiamo non sperare di realizzare una società più giusta, ma è un visione inseparabile dall’esercizio della critica rivolta a qualsiasi forma in cui il principio si attualizza.
Rosa Pierno