Fotografia di Valérie Minetto
La scrittura, tremore d’infanzia
Un’affermazione perentoria, perfino disarmante come “Io scrivo ciò che è vivere”, espressa dal poeta francese Bernard Vargaftig (Nancy 1934 - Avignone, 2012) non funge da mero involucro mitografico. Va ritenuta piuttosto l’implicito propulsore di senso all’interno di un ininterrotto processo creativo. In sostanza, essa racchiude un’intera poetica. Poiché nulla realmente in Vargaftig è concesso alla spontaneità del vissuto, tutto converge al contrario verso i nodi di incandescente problematicità – sotto la regia dell’Improbabile, come direbbe Bonnefoy – che legano vita a scrittura. Ed è il bruciore pervasivo della nominazione poetica a dettare lo statuto di quei nodi: “Mi brucia il tuo nome/ Le rive le loro frange/(…) Oh parola come/ i tuoi seni la tua lingua”. I nomi – carne animata nonché legame con il suolo e gli elementi primi – finiranno presto per ruotare intorno alla questione dell’origine, all’enigma del venire al mondo. Ma non senza aver prima attraversato le vicende della disseminazione (anche cruenta), della continua perdita e riappropriazione del senso, per strappi, latenze e subitanee epifanie, scalfendo dunque l’atemporale rapporto ‘metafisico’ che la lingua d’uso è solita istituire tra i concetti monolitici di vita e parola. Vale a dire: per Vargaftig la parola, imbevuta di temporalità fino alle radici, vive anche e soprattutto nell’avvertire i propri ineludibili vuoti semantici e nel retrocedere alla dimensione del grido, o all’afasia oscura di sotterranee catabasi: “Ci si allontana così dalle parole/ Se esse non sono che l’ombra/ Di un grido”.
Aveva intuito queste premesse sostanziali Aragon, tenendo a battesimo le prove giovanili di Vargaftig verso la metà degli anni Sessanta: “Amo questo linguaggio sminuzzato come il dolore, una ricchezza di vocabolario che non si fonda sulla parola rara, ma sul rinnovamento di vocaboli simili a quei fiori i cui semi per lungo tempo non hanno germogliato perché le ombre glielo impedivano, e che risorgono dalla terra dopo l’incendio della foresta”. Analogamente al procedere di molti poeti coevi, miranti alla scarnificazione/depurazione del linguaggio (da Du Bouchet a Dupin, Regnaut e Noël), Vargaftig inscrive le pulsioni vitali e autobiografiche non in coordinate chiare e diegeticamente orientate, bensì entro serrati circuiti di valore indiziale: tracce foniche e ritmiche gravitanti intorno a se stesse, in definitiva autoteliche, e tuttavia provviste di vie di fuga capaci di veicolare effetti di reale: vissuti frammentari e allusivi, offerti tramite soli indizi. Rimangono ovviamente insostituibili le vicende del soggetto riemergenti per corsi e ricorsi, come l’infanzia funestata dalla guerra, o l’amore per Bruna. La raccolta
Orbe (1980) contiene il paradigma di una siffatta prassi poetica, così come il vettore ‘iniziatico’ che giustifica quella motilità diffusa, circolare o meno – dal grido alla
phoné senza soluzioni di continuità - che può farsi di volta in volta tremore, panico, respiro sincopato o altro. Paradigma attivo ovunque nell’opera: “Niente manca al linguaggio/ La violenza che vacillava/ Quel grido nel presentire il tuo nome/ Nessuna rassegnazione”. Anche in occorrenze scarne e formulari, dove il topos dell’impossibile
coniunctio alligna :
Tremare tenerezza impercettibile
Le cose
Non si congiungono mai
Né i morti faccia a faccia
“Né i morti faccia a faccia”, dal momento che non siamo mai veramente “al mondo” (come sosteneva Rimbaud), in modo particolare quando sperimentiamo attraverso la memoria il
limen dell’infanzia in quanto foriero di allegorica cecità (“Senza che l’infanzia mi dimentichi/ Quando per riprendersi tutto e le rondini/ E l’accecamento fino alle scogliere/ Sottraggono aria all’immobilità”) e allora ogni appello al congiungersi o allo stare con – il
Mitsein bisognoso di luce - non è che un miraggio su fondo oscuro percepito negli intervalli dell’iterato disgiungersi o isolarsi. Scena analoga, forse, a quella che si presenta quando osserviamo con ansia non temperata il moto apparente degli astri, per poi sforzarci invano di trascriverne traiettorie lineari sul planetario. Ed è qui che l’orbitare (e il correlativo
auto-orbarsi dello sguardo) hanno valore poetico-euristico esteso. “
Orbe”, annota il poeta, “designa lo spazio circoscritto dall’orbita di un pianeta o corpo celeste. Ed è anche un aggettivo: un muro orbo è un muro che non presenta nessuna apertura. […] Ed è infine ogni traiettoria e ogni movimento circolare”.
Tremore e oscillazione (ovvero la sismica dell’anima), riconoscibili di primo acchito nell’allentarsi dei legami sintattici, sono generati dall’esperienza infantile con l’intensità degli stati traumatici, e andranno a delineare un territorio “definitivo, permanente, quello del pericolo, ma anche della salvezza”. Che è per forza di cose anche il luogo originario della poesia, luogo dove il soggetto s’arrischia compiendo simultaneamente l’esperienza della scrittura e dell’innamoramento, l’amore-per-la-scrittura e l’amore-per-la-donna: “L’ossessione della paura il pericolo/ Cosa abbiamo di più immenso//Se non amare nominare e sentire”. Un atto di esorcismo, come valore aggiunto, nei confronti della guerra, abissale generatrice di un’idea di ‘movimento’ che per gli ebrei sotto l’occupazione nazista ha significato soltanto fuga e deportazione, in un sottofondo psichico di terrore. Il ragazzino Bernard, appartenente alla comunità ebraica, non riesce a occultare i suoi persistenti traumi sulla pagina. Tutt’al più li rimodella depistandoli su altri oggetti (la natura, i paesaggi) o li addolcisce grazie all’incontro con la donna amata, cogliendo un’occasione insperata di
coniunctio. Ma anche in questa circostanza l’eros può declinarsi solo nell’ordine immaginario di un caotico orbitare, tra capovolte spericolate e perdita d’orientamento, come dentro un allucinante labirinto. Sono le prose di maturità, frammentarie e pervase di ‘ebbra’ angoscia mnestica, raccolte in
Nessun segno particolare (2007): “Tuffarmi verso di te, è come se mi elevassi. Che silenzio in me, perfino quando scappa, piomba su di te, c’è solo aria. Quale paura non sfugge alla paura? Ti chiamo con la curva, ti chiamo, questo rovesciamento prende quota. Chiudiamo gli occhi. La curva vola”.
Gilberto Isella
▪ ▪ ▪
Or je fuyais mon visage
On se détourne ainsi des mots
S’ils ne sont que l’ombre
D’un cri
Nous habitions ce paysage
Furtif comme passe un oiseau
Où chaque geste comble
La vie
Comme si ma propre mort
Sur les miens avait calqué
Sa hâte ses mouvements
Ses plis
Je regardais du dehors
Mon pas troué et
Tu le sais je mens
L’oubli
(
La Véraison, 1967)
Talora fuggivo il mio volto
Ci si allontana così dalle parole
Se esse non sono che l’ombra
Di un grido
Abitavamo questo paesaggio
Furtivo come l’uccello che passa
Dove ogni gesto colma
La vita
Come se la mia propria morte
Sui miei avesse ricalcato
La sua fretta i suoi movimenti
Le sue pieghe
Guardavo da fuori
Il mio passo bucato e
Tu lo sai io mento
L’oblio
▪
Avec la buse d’autrefois
l’air l’air la
Déchirure
effrayante pleine d’enfance
Table et chaises qui me chevauchent
Les fougères
Changées en rats
(
Orbe, 1980)
Con la poiana d’allora
l’aria l’aria la
Lacerazione
spaventosa colma d’infanzia
Tavola e sedie che mi cavalcano
Le felci
Cambiate in topi
▪
Aussi fugace qu’il puisse être
le vide
Sous la chaise
et la patte de l’horloge
Les morts leur mouchoir retourné
Sans personne
Comme un langage
Per quanto fugace possa sembrare
il vuoto
Sotto la sedia
e la zampa dell’orologio
I morti il loro fazzoletto rovesciato
Senza nessuno
Come un linguaggio
▪
Rien ne manque au langage
La violence qui vacillait
Ce cri dans le pressentiment de ton nom
Aucune résignation
Un silence oublié
Un goût un souffle pour atteindre
La pitié que l’immédiateté contemple
Si inlassablement nue
Sans ombre comme restent
Balancement et gravité
Dont à l’intérieur de la désolation
Les montagnes sont éprises
(
Dans les soulèvements, 1996)
Niente manca al linguaggio
La violenza che vacillava
Quel grido nel presentire il tuo nome
Nessuna rassegnazione
Un silenzio dimenticato
Un gusto un respiro per raggiungere
La pietà che l’immediatezza contempla
Così instancabilmente nuda
Priva di ombra se permangono
Ondeggiamento e gravità
Di cui le montagne s’innamorano
Al centro della desolazione
▪
Rien n’est nié
Comme la peur qu’il y a est brève
La soudaineté d’un pli
Quand le même mur va s’écrouler encore
Où de plus en plus d’enfance
Emmène-t-il
À peine inclinés sans être insaisissables
La promptitude près du remblai
Une obstination l’ailleurs un bruissement
Dont la blancheur
Ne répète jamais la détresse
De n’avoir pas regardé
(
Trembler comme le souffle tremble, 2005)
Nulla è negato
Se intorno breve è la paura
Il formarsi improvviso di una piega
Quando il muro sta di nuovo per crollare
Dove sempre più infanzia
Porta con sé
Appena inclinati senza essere imprendibili
La prontezza davanti a un dislivello
Un’ostinazione l’altrove un bisbiglio
Il cui candore
Non rinnova mai lo sconforto
Per non aver guardato