mercoledì 22 novembre 2023

Flavio Ermini Alle armi. La poesia che insorge, Terra d’Ulivi edizioni, Lecce, 2021

 


Situato tra poesia e prosa, tra saggio filosofico e appello, il libro Alle armi. La poesia che insorge di Flavio Ermini, edizioni Terra d’Ulivi, Lecce, 2021, mostra che la divisione in generi non deve essere travalicata né destituita, ma utilizzata per rafforzare il proprio dire. Tragedia, poesia, prosa, filosofia, nel libro di Ermini, non appaiono mescolati o solo a tratti affioranti, in quanto ciascuno fa acquisire al discorso diversi livelli di senso senza soluzione di continuità. Ora, che tutto ruoti intorno al linguaggio è lapalissiano: si vuole, difatti, superare il livello di realtà per arpionare l’essere; non, dunque, seguire le evoluzioni dell’ente, ma portarsi più dappresso al mistero ontologico.  Scrive Flavio: “L'esperienza dell'esilio ci insegna che non è l'uomo a creare il linguaggio; bensì è il linguaggio a far sì che l'uomo sia tale. A parlare autenticamente è il linguaggio. All'uomo spetta il compito di ascoltare l'appello che il linguaggio gli rivolge. Ecco perché è ingiusto pensare che il linguaggio sia un semplice mezzo di espressione”. Impossibile cogliere noi stessi, pertanto, senza l'intermediazione della parola. Naturalmente, non lo strumento che utilizziamo per la comunicazione. Anzi, occorre sfruttarne gli errori, le carenze, denudarlo, eliminare lo stile e la forma al fine di attingere quel pensiero irriducibile a una forma discorsiva e dunque tanto più vicino all’essere. Ossia a quell’intero che non è né pura esteriorità né pura interiorità: “Insomma, uno sguardo assoluto che si fa umano e finito – e dunque imperfetto – attraverso la parola poetica” scrive Flavio nella premessa. Dimorare, pertanto, “nei confini inesplorati della lingua” coincide propriamente con l’atto poetico, “il solo che, abbracciando quanto è cura e verità, può indurci a coltivare con maggior vigilanza critica il nostro rapporto con il mondo”. Si rivela discriminante concepire le cose nel loro insieme, non fermarsi soltanto di fronte alla molteplicità del sensibile. Se un’idea, difatti, può essere influenzata da tante possibili cause, la sua pretesa di validità resta intonsa: è d’uopo quindi distinguere il contesto di formazione da quello di validità. 


L’inespresso, conseguito tramite il linguaggio, coincide con la condizione sacra che nei tempi contemporanei abbiamo perso. L’atto poetico è atto della libertà, ove il soggetto si nega alla pedissequa adesione a ciò che diviene; si sottrae, cioè, al tempo esteriore. Il tempo, come voleva anche Derrida (in Spectres de Marx) è sconnesso, sregolato, disarticolato, di fatto interiore. Ermini sottolinea che “È sbagliato concentrarsi sulla puntualità dell'ora. Ciò che si tenta di pensare è il tempo privo di tempo”. Nella contemporaneità Ermini rileva che siamo stati esiliati dalla poesia. L'uomo non si forma più al teatro tragico, luogo nel quale egli andava a interrogarsi. Benjamin scrive che nella compagine del fattuale, l’originario non si dà mai a conoscere. È la poesia, secondo Ermini, ad offrire una prospettiva privilegiata in grado di indicare dell’essenza i frantumi, le macchie, le tracce, gli indizi di un intrico, di eventi imprevisti, per questo “La poesia si sospende nel dire; è impossibile manipolarla o renderla oggetto di calcolo”. Sfugge sempre alla presa: è il bordo del discorso, il suo limite. Essa “prevede una nuova soggettività che – senza <<io>> – prenda forma nella natura”. Io e natura sono due concetti cogenti: l’io aborrito nella sua fissità, deve lasciare alla scrittura la possibilità di snodarsi in libertà. Calasso (in Il cacciatore Celeste) lo vuole metamorfico e sfuggente. Per quel che attiene alla natura, essa non va dominata, ma è da riconoscere: non va categorizzata, ma ne va presa in carico l’essenza, non l’esistenza. Cioè l’idea, l’ipotesi; se ne deve, insomma, considerare l’origine. Anche a costo di mettersi contro se stessi, ci si deve ribellare al dominio dell’apparenza per andare incontro a un pensiero che travalica le cose. Si profila l’urgenza di individuare nella natura la sua origine in quanto principio che comanda un processo nella misura in cui è a esso immanente. La poesia può consentire codesto avvicinamento poiché le sue parole “seguono gli oscuri e dilemmatici sentieri che portano al mistero dell'esistenza; parole fragili che vivono nella contestuale presenza del dicibile e dell'indicibile, attente al sottosuolo della storia”. Ermini si pone contro la storia hegeliana, storia universale, del progresso, contro il trionfalismo storicistico, e a favore della storia kirkegaardiana, la quale insegue il fallimento della compiutezza e del finito, lo scacco della perfezione, indagando nei recessi dei pensieri confusi e oscuri, sì che l’indebolimento della logica investe qualsiasi rapporto conoscitivo. Anche Warburg paventava il tecnicismo moderno, a suo avviso foriero della distruzione di quel senso della distanza che era l’atto fondatore della civilizzazione umana. Distanza che non recideva affatto il passato dal presente. È anche parere di Ermini che la parola debba prendere le debite distanze dalla tecnica e dai suoi prodotti, considerati veri e propri oltraggi nei confronti dell'umanità.  


“Se la poesia nasce in esilio lo fa solo per rammemorarci l'origine, e poi risalire a quel remoto, decisivo cortocircuito che ha aperto all'evento dell'essere”. Ogni origine, secondo Heidegger inerisce una decisione e ogni decisione è originaria. La decisione, per Agamben, è una nozione ontologica. Decisiva appare a quest’ultimo la capacità di rimanere fedeli al passato, a ciò che pur dimenticato, perduto, deve, pur tuttavia, restare indimenticabile, ossia la storia dell’essere. Nella misura in cui è pensiero poetante – ossia meditazione sulla storia della metafisica – la storia della dimenticanza dell’essere e la dimenticanza di questa stessa dimenticanza diventa pensiero della possibilità  rimossa. Il punto di insorgenza resta sfuggente, poiché non passato: esso continua nel presente in pieghe, chiaroscuri, dialettica di visibile e invisibile. Si tratta di una vera e propria archeologia in cui storia e natura, convertitesi l’una nell’altra, siano, nel neutro, indecidibili. Flavio Ermini vede tale percorso come un viaggio da non affrontare disarmati, nel senso che è necessario maturare la consapevolezza di una riflessione che non appartenga in proprio all’uomo, ma sia un’onda dell'essere. È l'essere del mondo che “pensa anche nell'uomo, natura compresa”. Qualsiasi pensare è “pensare l'essere, ossia pensare la sua immutabilità e la sua indivisibilità”. La poesia, pertanto, si rivela strumento essenziale per ritrovare, attraverso questo capovolgimento della visione, la vera essenza degli esseri umani. “Nella poesia è ancora presente una comprensione autentica della verità, non legata a una teorizzazione umana, ma a una rivelazione della physis. Comprendere il mondo implica un cambiamento di vita, ossia decidersi per un esistenza autentica, in cui non vi è posto per la ricerca del piacere e la fuga dal dolore. 


Se la poesia consente un’apertura non "prepotente", come accade nel "discorso", bensì  una disposizione originaria, la parola poetica apre uno spazio vitale che eccede il significato. Si dischiude così un cammino che sospinge l'esperienza di scrittura oltre se stessa, per seguire le volute e le inarcature di una voce nascosta, vera e propria materia viva dell'essere. Compendiando, non è un processo di conoscenza ad attirare l’interesse di Ermini, poiché conoscere è solo un movimento soggettivo che non modifica e non produce nulla di rilevante. Bisogna invece guardare alla verità; ovverosia al  disvelamento di quanto è più remoto, la sua natura più profonda, precedente (in senso originario e costitutivo) alla sua stessa forma di vita. Ermini indica nella scrittura la rivelazione dell’origine. Ripudiato il bello, insorgono le verità sovratemporali. Ecco cosa succede quando la poesia vuole approssimarsi alla verità dell'essere. Si tratta di rispondere alla sua continua chiamata che proviene da “prima delle cose, dal silenzio del principio”. Tale attività, contrastata da un mondo alienante, persegue quella “comunione essenziale, fondata su una lingua capace di tornare a unire poesia e filosofia, così come accadeva agli albori del pensiero greco”. È così che si sceglie la cura per il prossimo, che si diviene intimi al mondo.


Rosa Pierno


sabato 4 novembre 2023

Marco Furia “Salt de Motan. Balzo di gatto”, Cosmopoli, Bacău, 2023

 



È appena un libro di una cinquantina di pagine, con traduzione a fronte in rumeno, per le edizioni Cosmopoli, Bacău, 2023, il nuovo libro antologico di Marco Furia Salt de Motan. Balzo di gatto. Seppur in numero ridotto, i testi selezionati punteggiano l’intero percorso letterario di Marco Furia e si potrebbe individuare, non certo un bilancio,  alcune tangenze che valgono come punti inamovibili sul suo percorso. Si penserebbe da principio al nouveau roman, alle prose poetiche di Ponge, ai testi di Butor, Serraute, Robbe-Grillet per quella volontà di guardare ossessivamente una scena o un oggetto al fine di descriverla compiutamente. Il tentativo di codesta poetica è di costringere il linguaggio su binari, tenerlo obbligatoriamente scevro da disgressioni, interpretazioni, in una parola, al riparo dall’incombente soggettività.


Evitato l’acquisto


Evitato l’acquisto d’elettrico spremiagrumi dalle eccessive, ingombranti, dimensioni, poiché intendeva sostituire analogo, ormai inservibile, elettrodomestico, provò, senza successo, a recarsi in altra (poco fornita) bottega.

Percorso a piedi non breve tragitto che lo separava da ligneo portone, salito fino al proprio confortevole appartamento, raggiunta ampia cucina, estrasse da piccolo canestro due arance che, servendosi d’affilato coltello, tagliò a metà.

Infruttuosa ricerca ebbe a ricordargli d’essersi liberato, anni addietro, di vecchio spremitoio a mano.


(da Minime circostanze, Edizioni Contatti 2021)


Sempre tangenti, i suoi interessi, alle aree avanguardistiche attestati dalla sua partecipazione ad alcune riviste Tam Tam,DOC(K)S”, Cervo volante”, “δ”, TESTE”, così come il suo interesse per le scritture solitarie: quella di Pizzuto, ad esempio, da cui anche il prestito di alcune forme linguistiche: il gerundio e l’ablativo assoluto; quest’ultimo, se usato in un certo modo, lungi dal chiudere, crea una sorta di sospensione capace di far continuare il discorso, suggerisce lo stesso Furia.

E, pur tuttavia, se si rimanesse inchiodati agli influssi di area francese, si sarebbe persa la reale camera magmatica che pompa fluidi nel testo di Furia: quell’appassionata ricerca che si diparte dai testi filosofici di Wittgenstein. Imputerò, per quel che mi riguarda, quasi esclusivamente ad essa la ricerca che sottende tutta la produzione di Marco Furia: la distanza tra ciò che è lo stato interiore, il mistero da sondare, e ciò che è espresso linguisticamente o con il linguaggio dei gesti. Non, pertanto, il restringimento, triste, per la verità, del registro linguistico all’evidenza delle cose, che tiene il soggetto sotto scacco, quanto, piuttosto, la ricerca del soggetto: dove esso si situi, si materializzi, con quali mezzi si disveli. Lo stato interiore è per Wittgenstein, come si sa, inesprimibile, ed è soltanto tramite il gioco linguistico che gli esseri umani trovano regole di comunicazione per l’espressione di stati altrimenti non individuabili e non confrontabili. Approssimazioni che, d’altronde, si riferiscono alle possibilità del linguaggio, i cui limiti non sono valicabili. Ora dato che lo stato interiore non è attingibile, la messe di percezioni, pensieri, emozioni resterebbe latente se, appunto, non fosse ricreabile attraverso il medium linguistico.


(Occhiali appoggiati alla parte superiore dei lobi cartilaginei ed in prossimità del punto di contatto tra naso e fronte. Capelli perfettamente immobili nonostante il vivace movimento del capo: ogni cosa al suo posto).

Parole-bolle di sapone s’inseguono nell’aria del tutto libere dalle banali motivazioni che ne hanno provocato la nascita: subito si dissolvono, inghiottite.



Il silenzio, perfetto, non provocava rumore alcuno.


(da Mappaluna, Edizioni Tam Tam, 1985)


Ossia, percepiamo un ambiente, il nostro corpo, non un’interiorità, se non con il linguaggio. D’altronde, “Qual è la quantità massima d’obiettività contenibile nella rappresentazione? È possibile esprimerla in percentuale? Ovvero non sarà mai tale da superare lo zero?”. Domanda del tutto retorica che mette a nudo la pretesa di raggiungere una descrizione “scientifica” dei dati di fatto e della psicologia tramite il mezzo linguistico.

E allora il linguaggio, diverrà nel percorso scritturale di Furia, il centrale elemento di studio. Il suo stile si amplierà fino al tentativo di captare la sonorità del linguaggio, ancor più che la sonorità dell’ambiente: 


Qual ribelle silenzio

pur sonori

leggeri tratti, effimera

sì lieve

musica (subitanea

armonia muta

mai acustico cenno?

Forse stile

forestiero, difforme?)

nulla voce

zitta, assorta sembianza

repentina

inerzia, solitarie

integre frasi

tacite, discontinue

linee opache

pentagrammi, riverberi

baleni

lustri, pallidi impulsi

(ignoto idioma

non sondabile indugio?)

incerte tregue

ritmi d’eco, barbagli

attimi fiochi

fulgidi, poi dissolte

gemme, gioie

caducità melodiche

improvvisi

statici dinamismi,

lampi bui.


(da Pentagrammi – con sette grafiche-collages di Bruno Conte”, Edizioni LArca Felice, 2009


L’armonia sonora di cui Furia va alla ricerca è quella che inficia la tentata destituzione del soggetto. E, sia detto per inciso, a poco serviranno certi tentativi di abbattere persino il portato estetico per rendere desoggettivizzata la scrittura. Anche la considerazione di una scrittura non-estetica ricade in una valutazione estetica, che è per definizione di livello individuale. Certo riflettere sul neutro è un arricchimento, ma non è che una soglia  raggiungibile utopicamente.

Di codeste sirene da schivare, Furia è sempre stato consapevole, per questo i suoi testi sono un importante antidoto all’assolutizzazione del relativo e al recupero del bello.


Rosa Pierno