domenica 22 ottobre 2023

Le “Favole femminili” di Beatrice Hastings nel volume “Beatrice Hastings in full revolt” Caffè letterario Le cicale operose, Livorno, 2020, a cura di Maristella Diotaiuti e Federico Tortora.

 


L’emerito lavoro editoriale compiuto da Maristella Diotaiuti e Federico Tortora nel rintracciare i documenti e i testi di Beatrice Hastings (1879-1943), non altrimenti pubblicati in Italia, ci consente di conoscere novelle, memorie, articoli e manifesti femministi della giornalista, scrittrice e poetessa nata a Londra e poi trasferitasi in Sudafrica, in Europa e negli Stati Uniti. Il lavoro di recupero è stato certosino, riuscendo a restituire le sfaccettature della sua complessa statura intellettuale nel diretto confronto con le personalità  letterarie e artistiche coeve (da Pound a Breton, da Modigliani a Picasso). Non una semplice comparsa, Beatrice Hastings; certamente una persona scomoda poiché si è voluta diversa dalla mentalità femminile dominante e per questo è stata marginalizzata. La pratica di rifiutare il lavoro intellettuale delle donne è ancora una piaga e per questo è necessario dare il dovuto rilievo alla voce di Hastings.

Nel volume sono presenti le Favole femminili, scritte nel gennaio del 1916: racconti simbolici e, in quanto tali, paradossali. Una donna, che voglia combattere in maniera paritetica, deve essere disegnata come una dea o un uccello mostruoso o una strega. Una donna non può porsi col suo reale corpo femminile, né essere accettata come stante su uno stesso piano da un generico lettore. Ecco il luogo simbolico, la figura mascherante, in cui risiede il paradosso. Ciò è purtroppo una conseguenza prodotta dal sistema culturale, ossia da quell’insieme di credenze, luoghi comuni, interpretazioni, creazioni che definiscono l’essere umano in una dimensione geografica e storica. Per Beatrice Hastings, che ha mostrato occhi di aquila nel guardare nell’abisso della differenza dei sessi, tale divario è, però, prima di tutto inscritto nella natura. La sua posizione è assolutamente esplicita nel primo racconto appartenente alla serie delle Favole femminili. Paradossale è che si debba scrivere di una dea per parlare di una donna. Che si debba mostrare la sua bellezza interiore, la sua forza e determinazione, la sua intelligenza attraverso un simbolo irreale. Altrimenti, la sua persona sarebbe subito ricoperta, negli occhi sia del lettore sia della lettrice, da un ciarpame formato da pregiudizi e catene ideologiche (quelli della cultura vittoriana che l’autrice ha in mente di colpire, definita come ipocrita e iniqua).

La dea ultramondana che chiede (nel testo Un’opera d’arte) alla strega di tramutare i suoi caratteri non umani (la chioma di ferro, le ali, gli artigli), ossia di diventare bella per lo sguardo maschile, reclama per sé, appunto, qualcosa che le garantisca la felicità sulla terra. La bellezza femminile sembra sufficiente per conquistarla, ma la segue  un’altra, non secondaria affermazione: la bellezza fisica è rara. La maggior parte degli esseri umani non può aspirare ad essa. Gli individui prima di essere diversi per censo lo sono per natura. A ciò nulla può opporsi. Natura non è cultura. Contro la natura è infinitamente più difficile combattere. Quella che si profila come un’inossidabile verità, cambia i dati del problema, perché raddoppia gli attacchi da affrontare.

Da lontano ricorda la favola della sirenetta di Andersen. La stessa trama, la stessa crudeltà. Anche modificare il dato di natura, lì dove ce ne fosse la possibilità, si tramuta in problema. Nessuno riconoscerà il sacrificio e intanto si sarà perso anche il legame con i propri simili, quel parterre di relazioni, affetti, amicizie, che costituiscono il contesto esistenziale a cui ancorare la propria esistenza affettiva. Volersi diversi, essere diversi, è restare soli. Ma questo sarebbe davvero il minor problema, se si potesse decidere del proprio corpo, della propria cultura. Da una parte, la donna riceve aiuti, accoglienza, desiderio, se è avvenente, dall’altra, è tenuta costantemente con il capo interrato: struzzo involontario a tutte le latitudini, in tutte le storie.

Al dato naturale, a quella natura che sottomette la donna attraverso la maternità, si aggiunge il dato culturale che le inculca che la maternità è il suo unico sbocco esistenziale, il suo unico ruolo. La posizione di Hastings è lampante, netta, senza rivoli e frange. Non c’è nulla da aggiungere. Lei desidererebbe solo che la donna potesse scegliere ed è sicura che allora sceglierebbe di non essere madre mai. C’è certamente un raccapriccio di fronte alla condizione dell’essere umano. Scrive che non ha mai conosciuto un essere umano di cui desiderare essere la madre. La maternità è anche una condizione di sacrificio, implica che un essere si annichili per consentire a un altro la prosecuzione della specie. Ma sarebbe importante, al di là di questo, che è appunto la questione tragica posta dalla natura, che una donna che decidesse di essere madre, avesse tutto l’aiuto dello Stato per non dover sottostare a ricatti, connivenze, umiliazioni. Qui si scorge anche la disperata visione di Hastings, la quale non crede che sia possibile superare l’umiliazione inflitta dalla natura stessa, così come non crede si possa ottenere una condivisa consapevolezza umana sulle diversità imposte dalla natura. Eppure, Hastings è un’intellettuale che lotta, che crede, dunque, che sia possibile erodere tale negativa condizione femminile, sia pure nel tempo. I suoi scritti sono percorsi da vene gonfie di denuncia, ribollono di indignazione, indicano vie e reclamano prese di coscienza da parte dei lettori. Anche la denuncia delle condizioni in cui versa la donna, vittima di se stessa, va in questa direzione. Le madri, che hanno subito per prime, anziché spezzare la catena dell’obbedienza alla situazione economica-sociale che le vuole solo fattrici e sottoposte al potere dell’uomo, divengono le portavoci dell’ideologia di asservimento, inculcando alle figlie la medesima prospettiva esistenziale. Ecco perché la strega, nella prima favola, si oppone alla trasformazione della dea, non vuole favorirla, la vuole schiacciare, viso sul suolo, come lo è lei. 

Tuttavia i due aspetti, della disperazione e della forza progettuale, convivono in Hastings e questo la rende non parziale, profonda, non manichea.

Nel testo Nel frattempo è la volta di una dea che fronteggia un uomo. Il rapporto è infido, senza esclusione di colpi, violento fino allo stremo. Egli va combattuto con le sue stesse armi, altrimenti la dea non avrebbe la meglio. Se di sicuro è sempre leggibile, nelle Favole femminili, la sofferenza per una condizione in cui le proprie risorse (sensibilità, intelligenza, cultura) vengono sopraffatte dal sistema sociale che stabilisce a priori l’inferiorità della donna, è anche vero che la dea vince sempre. Basta seguire la propria volontà, esaudire i propri desideri, a costo di tutto, senza demordere mai.

Tali testi sono frutto di quest’impellenza espressiva, non hanno una costruzione canonica, assommano difetti e cliché nelle descrizioni. La voce di Beatrice Hastings scolpisce le parole, le fa risplendere nell’acciaio. Il suo stile è perentorio e senza tentennamenti. La verità è complessa, ma non per questo opaca. Che il messaggio arrivi forte e chiaro, soprattutto ricordando che le Favole femminili è stato pubblicato su un quotidiano.


Rosa Pierno

mercoledì 4 ottobre 2023

Anna Miquel “La memoria del mar 1998-2013” mostra presso la Galéria Trama, Barcellona, 2013

 


I quadri di Anna Miquel introducono il riguardante nel mondo delle essenze. È davvero come fare un salto nell’acqua e sentire l’occlusione dell’udito, del respiro, dei sensi in generale. Per trapasso analogico, anche il colore blu del liquido rappresentato inscena uno stato di immersione metafisica. In Turbulencias (Turbolenza, 2003, tecnica mista su tela), ove un vortice acquoreo occupa il centro della scena, la sensazione di perdita di riferimenti non migliora con la presenza, sui quattro angoli della tela, di lembi di terra: siamo nello spazio. Il vortice, poi, sembra un buco nero al negativo. Il suo fondo bianco, accecante, ci indica la luce celestiale del paradiso dantesco. Sagome circoscritte esclusivamente da contorni nivei tracciano le silhouette di esseri umani e conchiglie e rimandano, anziché agli oggetti reali, alle caratteristiche astratte degli oggetti. Qualcosa di più di un’idea. 

L’essenza dell’essere umano è, per Anna Miquel, inscindibile dalla relazione con il cosmo. Quasi che solo attraverso codesta relazione si possa coglierne un significato esauriente. In A la deriva (Alla deriva, 2005, tecnica mista su tela), la sagoma umana dipinta col blu scuro e sospesa nel blu marino e la riva che appare irraggiungibile danno la sensazione di un essere umano irrimediabilmente solo e disperso, prevalendo sulle altre possibili definizioni. In El hundimiento (L’affondmento, 2007 tecnica mista su acetato), meglio si intende questo aspetto: un uomo e di una donna, immersi nel blu di un vasca terrestre, se galleggiano nel liquido, allo stesso tempo affondano in un etereo spazio mentale. La sproporzione tra fondi e figure sottolinea la fragilità di queste ultime. Per l’artista il mare è una metafora e le figure sono segni. La tempesta visuale è uno specchio della tempesta dell’anima. Altri titoli ci indicano i temi del distacco, del naufragio, dell’abbandono, della profondità, del silenzio e della quiete e, come sottolinea l’artista, alcuni dei suoi titoli provengono dagli scritti di Meister Eckhart. Per questo filosofo l’Uno è al di sopra di tutte le cose. L’essere umano non può comprendere finché usa il giudizio, la memoria, i sensi e finché si serve di immagini di enti determinati, che sono finiti, mentre Dio è immediato. Il mare, in questo contesto, assume il valore di limite conoscitivo: liquido amniotico dal quale non è possibile uscire per vedere com’è realmente il mondo.

Il tuffo del nuotatore (La zambullida (Il tuffo), 2004, tecnica mista su acetato) è immortalato attraverso una sequenza di impatti del corpo nell’acqua. Questa volta non è l’essenza, l’oggetto della ricerca, quanto piuttosto il tempo, il medesimo che si snoda uguale e diverso. Alla mente ritornano le parole di Eraclito: <<noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo>>. Mobilità e cambiamento sono i principi su cui si basa il cosmo, perché dimenticarlo? Per essere ciò che siamo ora, dobbiamo non essere ciò che eravamo un istante fa. Ecco che allora la splendida fissità dell’immagine di Anna Miquel, sebbene i pigmenti dell’acqua, del cielo, della terra siano sgranati da striature provocate dai moti delle sostanze stesse, riposa su un dinamismo prima di tutto mentale, giacché l’artista catalana è alla ricerca di quell’Uno che è all’origine di tutte le cose.

Nell’opera En el rompiente (Sul surf, 2000, tecnica mista su tela) lo spazio è suddiviso in rettangoli, porzioni di spazio psicologico che incasellano sagome di pesci o loro ombre: indistinte, ovattate, già fossili. Se guardando si avverte la sospensione del senso dell’udito, si configura, di conseguenza, quell’assoluto che paradossalmente accompagna il silenzio. Ma il quadro introduce anche al prelievo da una tradizione filtrata e fatta propria fino allo spasimo. Ora è il Matisse di Oceania che s’ammaglia all’opera di Miquel come in una visione differita. Il dialogo tra antico e contemporaneo compare anche come titolo di una sua opera, in cui il passaggio cronologico è affidato al colore, il quale, stratificato e scuro, si stempera, in altri riquadri, in trasparenze e velature. Quasi sempre, nei quadri che hanno tema marino, compare la barca, memoria delle origini geografiche dell’artista (Cadaqués). Tale serie, a tratti, sembra cercare un raccordo con le immagini di Escher, con quei pesci allineati e alienati in un mare limitato e ripetitivo, opera del 2012.

Per la mostra La memoria del mar, l’artista ha lavorato su vari supporti. Alcuni assorbenti e opachi come il cartone, la carta artigianale e la tela, ed altri trasparenti, brillanti come l’acetato o l’acrilico; ha adottato una vernice a base di cemento per simulare la texture della sabbia o della roccia, che le ha consentito di ottenere nello stesso quadro effetti incompatibili. Questa maniera di procedere, di procurare brusche alterazioni sulla superficie del supporto, le serve per indicare le onde, i venti, le tempeste o i vortici del mare. In effetti, le figure sono simboli nei lavori di Anna Miquel ed è significativo che il trattamento delle materie sia particolarmente insistito: il tentativo dialogico tra esseri umani e natura, se termina con uno scacco, è al contempo tutto quello che di più certo esiste.

Nella serie che ritrae una barca senza motore che procede nell’oscurità, il nero dello sfondo è assoluto, mentre le onde conservano una parvenza di luminosità. La barca è ritratta in varie posizioni, mentre il mare si apre con inaspettate geometrie triangolari.  Nella serie di sei pezzi Mares de residuos y un cielo encendido (Mare di residui e un cielo incendiato, 2010), il cielo rosseggia in una prospettiva di triangoli che il mare in diagonale sostiene. La barca, intanto, s’intravede, ma, nelle intemperie, conserva un che di indeclinabile. Concetto ripreso nei 27 pezzi della serie intitolata Tormenta corrosiva; lluvia ácida (Tormenta corrosiva; pioggia acida, 2009, tecnica mista su acetato) dove la barca è preda degli elementi ingovernabili e dei colori aciduli. L’aspetto evocato dalle piogge acide fa il paio con il titolo Cuerpos evanescente en un mar de petróleo (Corpi evanescenti in un mare di petrolio, 2008, tecnica mista sopra acetato) a indicare la sensibilità dell’artista verso i temi economici, sociali e di salvaguardia dell’ambiente. I pigmenti brillanti e trasparenti appaiono oscurati dalla sovrapposizione di un pigmento nero. Ma oramai si è già compreso che non si tratta di un dialogo tra ombra e luce, quanto di quello tra creazione e distruzione.

La luce, presa nel suo aspetto metaforico, è un tema fondamentale per Anna Miquel. Una sezione del catalogo riporta in esergo un frase di Octavio Paz: <<Molta luce è come molta ombra, non ti fa vedere>> e alcuni quadri esemplificano in maniera suggestiva l’abbacinante mobilità della visione, non solo quando il paesaggio è troppo illuminato, poiché anche alla luce del crepuscolo, le cose appaiono incerte, informi. I sei splendidi pezzi che compongono l’opera Barquitos de papel y luz de crepúscolo (Barchette di carta e luce del crepuscolo, 2011) mostrano le metamorfosi del sole nella mente, le nebbie oscure di un’impossibile conoscenza. L’indefinitezza delle forme, soprattutto degli elementi naturali più che degli oggetti, è funzione diretta di quel movimento inesausto di cui parlavo all’inizio. Qui si misura tutta la distanza tra le parole mare, cielo, sole, acqua, in relazione all’astrattezza del concetto, e la meravigliosa potenza dell’immagine che tratteggia più che l’ambiguità dei significati, quella delle forme. Ma vorrei anche sottolineare che il gusto delle opere in serie viene a Anna Miquel dal suo interesse per il cinema di animazione, di cui è stata prolifica realizzatrice. Nel’opera A J.M.W. Turner del 2012, ad esempio, l’artista catalana utilizza i riquadri, (una serie interna all’opera) dove la molteplicità si lega all’unità visivamente. Non tutto può essere espresso con le parole.


                                       Rosa Pierno