mercoledì 30 gennaio 2013

GIANDOMENICO TIEPOLO



“Il mondo nuovo”. Musi di cani elegantissimi sbucano dalle palandrane dei padroni, cani simili creati furono per nobili possessori e, infatti, s’adusa nelle migliori compagnie a essi accompagnarsi per prestigio attestare. La gente che s’assembra  nella piazza, intorno a non si sa ancora quale oggetto o accadimento, ha metafisica presenza. Mare limpidamente immoto, privo di ondeggiamenti e di risacca, rimarca statuario evento che motiva accentramento. Di lanterna magica si tratta: mostra mondi nuovi con esotici multicolori paraventi. Indiani con piumaggi variopinti su canoe  e pappagalli con impennati ciuffi.  Se alle loro spalle ci mettiamo in fila, scorgiamo anche noi il profilato, immaginario mondo. Vediamo quel che non esiste, quel che attrae uomini colti e conviene a commedianti scaltri. Vediamo lo spettacolo di umani curiosi e lestofanti, tutti intenti a rimirare come scimmie un novello atto, un’ennesima rappresentazione, un’infingarda ricostruzione.

“Minuetto”. Nell’ampia piazza che interrompe la laguna, suonatori e cantanti offrono sonoro intrattenimento. Hanno già adunato un variegato pubblico: un arabo, una venditrice di spille, un turco, un re, una nana che vende fiori e offrono pregiato saggio a incalliti sfaccendati e a inadatte orecchie. Uccelli roteano sulle acque tremolanti, mentre nuvole arrancano dal fondo verso il roboante finale di una erotica favola.


In un artefatto e incongruo paesaggio, orsi tenuti alla corda da uomini con improvvisati abiti si sollevano sulle zampe posteriori, laddove abeti impalliditi non riescono a proiettare nemmeno svenevole ombra. Un uomo col bastone costringe le scimmie a saltare e a fare le capriole. In lontananza una civile casa colonica, stretta dall’agitazione che si svolge in primo piano, aspira  a più elevati piani.

Più che da un teatrino di marionette, lo spettacolo è dato dall’adunanza che lo assedia. Contro un aperto cielo solcato da immancabili gabbiani, cani scheletrici, uomini panciuti e con la gobba, né privi di capelli bianchi e nasi adunchi, parlano fra loro, si distraggono o tengono il naso in su per guardare le tonsille alla cantante.

Scorrono sui disegni acquarellati soffici nuvole che con chiaroscuri subitanei muovono la scena fino a premere sulle membra, sporcando i vestiti con unta ombra,  e contemporaneamente proiettando in primo piano anche le cose che sono lontanissime, come se disegno fosse afflitto da smobilitante vento.


La pagina che dà il titolo alla serie di disegni su Pulcinella contiene una scala per arrivare in nessun luogo, una brocca di vino, un piatto con l’uva, un cesto di vimini, una giacca gettata a terra, legna da ardere e tanti secchi o cappelli. Immancabili il cane, i gabbiani e la ragazza del cuore, in questo caso marionetta, che Pulcinella stringe a sé, mentre considera il titolo come fosse un enigma scritto in caratteri cirillici.

Di Pulcinella non ve n’è mai uno solo. Solo perché è maschera si sdoppia, si triplica, si volta, si gira, fa venire il mal di testa. Pulcinella ha tanti parenti, è assistente di sarti, è pittore di quadri storici, viene  rapito da un centauro e cavalca un dromedario. Pulcinella invadono il giardino della villa; insieme a sultani partecipano a una caccia ai cervi e danzano in una sala ove sono mille roteanti specchi. Persino  al suo capezzale, per l’ultimo istante, Pulcinella è ancora circondato da altri Pulcinella.


“Paggi vasi e pappagallo” . Sulle tonde e rasate teste dei paggi di tutto punto vestiti con broccati sbucanti al modo di corolle rovesciate dalle armature, vasellame emana i suoi esangui bagliori vessato da pappagallo che sprigiona rossi echeggianti, mentre teste di capre e di leoni, corpi di arpie e di sirene sono disseminate per favola narrare a ragazzini impenitenti e increduli.

“L’acquazzone”. Si dirigono senza fretta verso l’orizzonte desolato privi di meta. Un Pulcinella che si è tirato in testa il mantello per ripararsi dalla pioggia è accompagnato da un cane che guarda in un’altra direzione. Famiglia ha ombrello che ripara solo la donna; un vecchio e una signora anziana fiancheggiano il gruppo da lati opposti; un altro Pulcinella, più discosto,  ha anch’egli un ombrello. Nessuno di loro sembra sapere dove dirigersi. E’ uno sconsolato ire per le piovigginose vie del mondo, ma calde e non prive di confortanti uccelli a far da guida al branco.

                                                                                             Rosa Pierno

sabato 26 gennaio 2013

Gio Ferri su “Drammi, resurrezioni, poesia: Emilio Isgrò e le storie di Gibellina”



Senza alcun dubbio i naviganti web affezionati a questo sito (“Trasversale” diretto da Rosa Pierno) sono sicuramente amanti della poesia, del teatro, della musica. I più anziani di loro ricordano benissimo gli eventi che tanti anni fa colpirono il Belice e in particolare la città di Gibellina, e non hanno probabilmente dimenticato (anche se purtroppo i nostri tempi sovente sono senza memoria) le vicende civili e artistiche che segnarono la morte e la resurrezione (assai tarda per ragioni politico-burocratiche) di quei territori. I più giovani forse, salvo eccezioni sorrette da personali letture, ne sanno qualcosa solo vagamente per sentito dire.

A ricordare a noi tutti quelle vicende, drammatiche e insieme uniche e entusiasmanti, è fortunatamente arrivata, programmata non a caso per il 15 gennaio 2013, la presentazione, presso il “Museo del Novecento” di Milano, del volume, edito da “Le Lettere” di Firenze, L’Orestea di Gibellina e altri testi per il teatro. Autore Emilio Isgrò, curatrice la grecista Martina Treu. Di fronte al numerosissimo pubblico sono intervenuti alcuni dei protagonisti degli ormai ‘antichi’ avvenimenti: lo stesso Emilio Isgrò, Martina Treu, lo scultore Arnaldo Pomodoro, il regista Filippo Crivelli, l’attrice Anna Nogara, e altri ancora.

Fra il 15 e il 16 gennaio 1968 un terribile terremoto distrusse il Belice e in particolare Gibellina fu rasa al suolo. Il sindaco e senatore Ludovico Corrao (purtroppo recentemente scomparso) subito progettò di ricostruire i luoghi non solo, e necessariamente, dal punto di vista edilizio, bensì anche dal punto di vista culturale e artistico: ciò al fine di far risorgere una antica civiltà greco-sicula che per millenni aveva caratterizzato la vita di quelle terre. Furono invitati in diversi tempi per le arti gli scultori Alberto Burri, Pietro Consagra, Andrea Cascella, Fausto Melotti, Ettore Colla, Mimmo Paladino, Mario Schifano, Arnaldo Pomodoro, Carla Accardi. Negli anni non mancarono gli interventi in luogo di performers quale per esempio Joseph Beuys.

Prese forma uno straordinario museo all’aperto che andò arricchendosi negli anni. Tuttavia il pur pregevole piano urbanistico-architettonico si prestò, e si presta, a critiche: i decenni passati dal disastro alla ricostruzione fecero invecchiare il progetto (l’architettura si fermò ai criteri degli anni ’60), ma soprattutto nel frattempo si verificò un naturale spopolamento (gli abitanti per anni rifugiati in baracche emigrarono pian piano altrove). Venne meno perciò l’antico tessuto civile, abitativo e produttivo, e la nuova Gibellina sotto diversi aspetti apparve, e ancora in parte appare, una città, se non morta, artificiale.

Comunque la necessità di vivacizzare il nuovo complesso, richiamando, seppur in forme culturali rinnovate, la memoria di un raro passato millenario, sempre per merito del sindaco Corrao, portò a promuovere, oltre all’operato degli scultori, incontri culturali e spettacoli sul territorio, in una linea estetica e storico-sociale con le scoperte artistiche italiane ed europee degli anni ’80.


Nel giugno del 1983, e per le due estati successive, su incarico di Ludovico Corrao e con il contributo del Teatro Massimo di Palermo, e la regia di Filippo Crivelli,  Emilio Isgrò tradusse magistralmente e mise in scena un evento teatrale all’aperto: L’Orestea di Gibellina. Così ha riassunto le notizie riportate dal volume citato e ha introdotto il dibattito al “Museo del Novecento” di Milano la docente e studiosa di teatro greco Martina Treu: «Nella location particolarissima delle rovine di Gibellina per la prima volta Isgrò realizzò il suo testo teatrale più significativo: una riscrittura dell’Orestea di Eschilo in un originalissimo impasto linguistico di italiano, siciliano, e altri idiomi qui e là anche espressivamente inventati. Così fu inaugurato un nuovo straordinario spazio teatrale (che ancora oggi ospita un importante festival internazionale) segnando una svolta epocale nella storia degli spettacoli classici, non solo in Italia. Oggi, a distanza di oltre un quarto di secolo, quello spettacolo resta nella storia per la grande portata simbolica e la rilevanza dei contributi artistici (dalla musica di Francesco Pennisi alle scene – macchine mobili – di Arnaldo Pomodoro). In questo volume l’autore ha restaurato il testo, mantenendo la ricchezza dell’impasto linguistico e la forza dell’ambizioso impianto corale…».

La rappresentazione si realizzò in uno dei profondi crateri di Gibellina (in una giornata di imprevisto violento e rigenerante vento mediterraneo) con la partecipazione diretta di molti abitanti del luogo e degli spettatori che parteciparono fisicamente e vocalmente ai movimenti drammaturgici delle masse. Furono coinvolti, con partecipazioni innovative, anche gli abitanti che per antichissima tradizione avevano organizzato in passato processioni religiose (di lontana radice pagana), recando sulle spalle altari e immagini di santi. Oltre all’Orestea il volume raccoglie di Isgrò i contributi critici e i ‘manifesti teorici’, insieme ad altri pensati per la scena. Martina Treu, nel volume, secondo la sua stessa ammissione  «Isgrò ha corredato i testi di annotazioni e apparati critici, tesi a facilitarne la comprensione anche a un pubblico non siciliano e a metterne in luce le complesse relazioni, tanto in ‘verticale’ (col passato, e in particolare con il Mediterraneo antico e la Grecia classica, a partire naturalmente da Eschilo), quanto in ‘orizzontale’ (con la restante produzione dello stesso Isgrò e con il mondo culturale e artistico contemporaneo)».


È superfluo forse, qui, dire di Emilio Isgrò, uno dei nostri artisti più inventivi e prolifici, oltre la stessa esperienza di Gibellina: per il più vasto pubblico è il poeta visivo delle notissime “Cancellature”, ma multiformi (come ricorda ancora Martina Treu) sono i suoi interventi in altri campi delle lettere e delle arti, dalla poesia alla narrativa al teatro. Tuttavia qui appare interessante valutare ciò che sembrerebbe distante e contraddittorio, riprendendo le “Cancellature” a fronte dell’esperienza di Gibellina. C’è invece un sotterraneo legame fra le due operazioni, come è emerso anche dal dibattito al “Museo del Novecento”. Con le “Cancellature” Isgrò ha inteso e intende liberare i testi troppo spesso manipolati e falsificati dalla storia e privati della loro originarietà: creare quindi un vuoto testuale per offrire l’opportunità, a chi ne abbia la capacità come autore e lettore, di ricominciare al di là di ogni accademica ideologia poetico-culturale. A Gibellina terremotata Isgrò ha trovato quel vuoto, quella tremenda cancellatura storico-ambientale e, realizzando il suo progetto rigenerante, lo ha riempito con il mito, con la poesia, con la tradizione antica e non mistificata di un popolo, creatura e generatore di una straordinaria civiltà.

La sera del 3 giugno 1983 – fra i gemiti di quel vento che filtrava attraverso le macchine  mobili di Pomodoro e i resti del disastro – il racconto iniziò con una struggente recita di versi (recitati anche durante l’incontro del 15 gennaio 2013 a Milano) che introducevano alla memoria del passato e alla drammaticità della sua cancellatura, il Canto del carrettiere:

Zotta in Sicilia significa frusta. / Ed è con questa frusta che si chiama zotta, / che pungo questa cavalla quando annotta / su Madonie, Peloritani e Nèbrodi. / È con questo nerbo che la spingo. // Ma non la freno né la tengo a bada / e tremo, tremo se alza la cresta / dalla sua biada / lungo le pianure e sopra le voragini. // Non scalciare. Pensiero, / fermati, fermati, destriero, / dentro le vertigini! / Inchiodati carretto! // Non superare gli argini che restano / sul ciglio dell’abisso. / La lanterna si è spenta / in questa notte eterna. / Come sono ferito, sfracellato al viso! // È l’occipite che canta contro il sasso a punta. / Ah la mia povera testa! / Ah Cassandra! Cassandra! / Giumenta maledetta!

Il lamento del vento, come bestia ferita, che non vuole chiudere gli occhi, recava agli spettatori i versi del carrettiere che era apparso sulla scena trascinando le due enormi ruote di Arnaldo Pomodoro.

La Cassandra di Euripide aveva detto:

Ahi sventure, sventure della città interamente distrutta! /  Oh sacrifici del padre per la salvezza delle mura, /  strage grande di greggi pascenti, / rimedio non diedero alcuno perché la città / non soffrisse la sorte che ha. / E presto io, anima ardente, al suolo cadrò.

Certamente, molte nuove ed egregie cose sono sorte a Gibellina grazie alla poesia. Ma l’antica Gibellina, caduta, non c’è più.
                                                    
                                                                               Gio Ferri

Foto di Patrizio Nesi: Orestea di Gibellina di Emilio Isgrò e Arnaldo Pomodoro, Rotella fantastica per L'Orestea di Gibellina di Emilio Isgrò, 1983-1985

martedì 22 gennaio 2013

dalla raccolta “Appunti di un falegname senza amici”, inedito di Alessandro Assiri, 2012


Non è possibile né scindere né unire esistenza e scrittura: a tratti distinguibili, a tratti coincidenti. La scrittura, oltretutto, spesso rifiutata quando pare che attraverso essa si definisca la persona, il poeta inteso in quanto dialettica identità/maschera, ma ancor di più accoratamente seguita, pedinata, curata per rintracciare in essa qualcosa di personale. Il registro lessemico si rincorre tra queste due sponde senza soluzione di continuità, attingendo alle cose e l’attinto lanciandolo lontano da sé, come cosa non autentica. Continuamente risospinte ai bordi dell’esistenza da che centrali erano, le cose, i libri in maniera preponderante, costituiscono il fulcro, anche in negativo, di questi testi poetici. Il soggetto dichiara di non sapere, di non conoscere le cose reali, le cose che corrispondono alla realtà: il vetro, il cemento,  per condurci di fronte allo spettacolo della sua interiorità, quella relativa ai sabati a tracolla trascorsi in casa, ma è un’interiorità piena di buchi, di oggetti che stanno al posto di altri, che ne usurpano lo spazio. Poiché, appunto, altre sono le cose che si vorrebbe avere e la loro mancanza depaupera il soggetto, lo rende presente solo tramite una matita: considerato che è attraverso la rappresentazione che si pensa di mettere in atto una resistenza rispetto a una realtà non accogliente, con cui non si trova accordo. Resistere, non accettare, non conformarsi è l’ultima strenua attività, ma il disegno,  la scrittura si appropriano del corpo - siamo letti pur senza che pronunciamo nulla -   dunque, la strategia da mettere in piedi si complica. Scrittura si alloca nello spazio esistenziale, di cui il poeta avverte l’usurpazione e, dunque, è necessaria anche una ribellione alla scrittura, la quale è cresciuta  a dismisura, e proprio mentre il poeta se ne allontanava, quando era divenuta quasi una cosa familiare, tessuta con frequenza quotidiana. Ribellione che denuncia che lo spazio esistenziale è altro, è negli interstizi del tempo, quello sospeso, quello delle pieghe. Quello riposto nell’infanzia. D’altra parte, Alessandro Assiri lo ripete, la scrittura brucia più storia di quanta ne produca. Chiede che l’esistenza stessa faccia da combustile alla sua realizzazione. E dunque in questo divario, in questi due tempi differenti, così come sono diversi carne e scrittura, si situa l’esistenza del poeta. Difficilissima disputa, poiché la scrittura si dice di carne, è parte del poeta, e proprio mentre ne costruisce il simulacro. Crediamo che in questo scarto non dirimibile sia la cifra di questo testo, in cui la bilancia  non può pendere a favore di nessun corno del problema e se, pertanto, il dramma è costituito da un drago a due teste, bisogna affrontare entrambe: convivere con la scrittura così come si convive con un altro essere, con la sua presenza, con la sua assenza, cercando di liberarsene, gettando altra storia nel testo.


Il gatto la volpe e l'armeria dei briganti

E' una questione di qualcosa, forse di fretta o meraviglia, ma qui si respira male
sia le sorprese che le scuse, poi le stelle finiscono o si vedono di meno ed improvviso ci si scorda
che a bologna un libro in tasca lo devi sempre avere così se ci si incontra se ne ha un pezzo da strappare

non so più se è troppa neve o se grattiamo male il vetro, se contano i numeri o il cemento
è quasi un'ora che hai le mani chiuse, un'ora oltre le cose dalle ciglia amplificate
con cui sbatti l'alfabeto

la fine degli auguri forti, se fossi capace ci metterei una croce, ma quando penso che sei scrittura chiara
mi vengono in mente tutti i sabati a tracolla dove il nemico si combatteva stando a casa
e un po' mi irrigidisco come quando si va in vacanza e si ostenta il coraggio con la testa tutta indietro

i fiori non li voglio recidono i pensieri, diventano formule di saluti risentiti, come essere costretti a vivere sempre con i saldi
tra i toni grigi che arrivano dal terzo, coi figli di corsa e gli zerbini severi
siamo solo un po' di sporco accanto a dormire il nostro sonno coi buchi

mi è arrivato in ritardo c'era rimasto addosso poco,solo una somiglianza vaga una resistenza a matita
dalle maiuscole ti riconoscerei tra tanti, la storia sempre più piccola di una materia che conosci
continua ad andare spesso a capo, le lettere grandi tirano a fine mese un gesto trasgressivo dei sensi

vedi che alla fine saltano fuori i nomi con lentezza ed ovvietà anticipano i corpi e si rimangiano parole
chiamano le descrizioni del mondo con meticci movimenti di accattoni  e concorrenti
non avrai altro dramma al di fuori di me, a questo ci condanna il nome a essere letti anche senza voce

quello spazio bianco è pelle dove devo inventare una retorica, un’esecuzione di sentimenti
un buon pomeriggio a cui chiedere scusa, la lista della spesa e quella dei nemici
vedo virgole danzanti cadere come folgore, il servo che ci chiama non è diverso dall'anagramma stupido di un verso

vorrei scrivere tutto quello che tocco che sei morbida sul tardi che sei cresciuta a misura del mio stesso allontanarmi
la vita che si riassume non è mai quella precisa dello sporco ne del risparmio del sale  
piuttosto è quella delle ore, delle distanze fatte a piedi, dei corridoi lunghi, dei balconi da dove ti sporgevi


le parole che abbiamo scritto insieme ci fanno apprendisti su tutto, ci mettono sonno al posto dell'angoscia
sembra di uccidere sorrisi in una lingua sconosciuta, nessuna scala per il paradiso
ne ascensori per posti irresistibili, ti lascio ai tuoi ricordi scuri e torno a rimproverarmi di un giovedì minore

le tue righe successive invadono i libri di segni, ci deludono, ci avvertono, come consigli ci rincuorano
poi solo rumore all'impazzata, primavere dai conti salati rimasticano i vuoti nel peso di qualcosa che decide
se mi muovo mi stai dietro, in un altro libro scritto bruci i chili delle scorte


quando diventi scrittura ricomincio a cambiare, ti aspetto dritto senza nipoti e senza slanci
ti muovi d'altro dentro mentre irritata ritorni di carne, senza sconti cerchi il muro che ti piega
nel buio della gonna dove a volte piove tutto il tempo che ti resto nelle gambe

finisce tra due metri con il pane e con la pasta, starò magari bene, ma per ora non si sente
tutto quel che si può fare è un impossibile un po' corto, l'hai trovato dentro il frigo
tutto il mondo che hai rubato, con le mani dentro al vaso e i cavalli a dondolo a batterci in testa

il mio sud è qualcosa in discesa consuma più storia di quella che produce, ha un ginocchio per la morte
un triciclo per l'amore e qui lo sai si trova casa in fretta senza esagerare con le linee troppo chiare
scendevo a patti con i tuoi inviti  con la ferocia della caccia e col letto da bagnare


chi balla nei vestiti fugge da un pericolo col bavero rialzato, accumula squilli e nocche spellate
divani dove insistere trascinando i propri strappi di perimetri insalubri come affitti stagionali
i soggiorni brevi delle estati, le notti appena fresche a strapparti dal riposo cosi toccato dai tuoi mali

la mia pazienza è il doppio esatto dei tuoi vocaboli, insieme fanno le spalle
in questo freddo di scrittura come vita che ci usura, questo cielo inizia dal tallone
da una terra provvisoria di parole in catene, dove bruci più storia di quanta ne produci

stavamo come Roma ad assorbire un vantaggio di un mestiere che si impara
nell'insistenza di quel dio che tiene l'uomo ostile minacciandoci col cielo
tutti presi a prender le misure delle piccole ambizioni, dei piatti di portata

quale lato viene fuori? è il blues che preferisco, dicono di me che tu non guardi mai
nel gomitolo del nome ai fili ricevuti e si faceva quel che si poteva per stare più in vetrina
adesso vediamo l'ora in cui partire, immaginare l'armadio dell'arrivo col supplemento del cuscino

il venerdì che siamo scesi dall'albero per tornare in casa era fatto solo di bambini e di cerotti
tenevamo l'orizzonte in basso una qualità modesta, il conto chiesto in fretta dei vent'anni meno
le biglie coi ciclisti che ci sorridevano al ritorno dalla volata finale ancora sporche di sabbia

facevi sulle dita le addizioni difficili, riparavi gli errori aggiungendo una spanna
rimediavi per noi che dovevamo pur vivere cercando di accorgercene
ritratto di una voce che riscrive le nostre virtù misere al sicuro dai rovesci

contribuiamo a darci il volto di una vita in abiti leggeri, perché restaurare sarebbe rimanere
fedeli a una misura legata all'inverno, gomitoli di rese e toppe improvvise
tu che prima di scrivere non conti e le sillabe che diventano saliva zavorrate di pesi

sul pavimento qualche goccia di un grazie appeso ai denti come se scappare fuori ci pulisse dentro
come la sera della festa  che da sempre è degli avanzi, ti trovo un po' più esperta verso una fine di vacanza
a trasformare la casa come diretta conseguenza ad accarezzare con il sidol le maniglie della porta

ti vesti e io ricucio quel che di esatto c'era, tra l'erba cercavamo copertura
è compito della luce elaborare la fame, rifarsi amanti mediocri, lavarsi per primi
domani ti dimenticherò meglio, domani che avrò fatto acqua quando serve

                                                                              Alessandro Assiri

sabato 19 gennaio 2013

Giuseppe Borrone su REALITY di Matteo Garrone


Regia: Matteo Garrone; Origine: Italia - Francia, 2012; Durata: 1h 55’; Distribuzione: 01 Distribution; Genere: Commedia - Drammatico; Cast: Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone, Graziella Marina, Nello Iorio, Nunzia Schiano, Rosaria D’Urso, Giuseppina Cervizzi; Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Matteo Garrone, Massimo Gaudioso; Fotografia: Marco Onorato; Montaggio: Marco Spoletini; Data uscita in Italia: 28 settembre 2012
  

Decolla come l’epilogo di una fiaba l’attesa opera post “Gomorra” di Matteo Garrone. Una carrozza dorata, trainata da cavalli bianchi, conduce una coppia di giovani sposi nel ristorante principesco alle pendici del Vesuvio, dove si consumerà il ricevimento nuziale. La macchina da presa pedina in pianosequenza dal cielo il corteo, planando nel mondo ipertrash che si materializza oltre i cancelli. Una pletora di corpi sformati, un trionfo di kitsch e la partecipazione di un ospite del “Grande Fratello” per allietare la festa. Ma più che un happy ending, è solo l’inizio del viaggio in un incubo, la discesa negli inferi di una realtà deformata e grottesca. Napoli, l’Italia dei nostri giorni televisivi.
Entrare nella casa del più popolare reality show diventa l’ossessione di Luciano, un pescivendolo napoletano che conduce insieme alla moglie Maria (Loredana Simioli), al cugino Michele (Nando Paone) e alla famiglia allargata (tra cui le imperdibili zie Rosaria D’Urso e Nunzia Schiano) un’esistenza semplice e dignitosa, se si eccettuano le truffe imbastite con la consorte per arrotondare. Nel quartiere sbrecciato e fatiscente di una fantomatica periferia, che ricorda la Napoli del dopoguerra del cinema italiano degli anni Cinquanta – evocato e omaggiato anche per gli espliciti riferimenti a “Bellissima” e a “Lo sceicco bianco” - l’illusione del successo penetra nelle porose pareti tufacee dello stabile decadente in cui risiede Luciano. Devastando irrimediabilmente la sua vita e la sua psiche.
Con lo sguardo da antropologo, Garrone registra in Reality” lo slittamento progressivo del nostro paese verso le effimere chimere della notorietà. Rinnegando la propria cultura e le tradizioni contadine, l’Italia, e l’occidente in generale, è diventata ormai la terra dei centri commerciali e degli acquafan, delle televendite e delle ospitate. Un circo Barnum felliniano, sottolineato dall’ambientazione a Cinecittà, regno del maestro riminese, popolato da mostruose creature tatuate e muscolose, un esercito dilagante di comparse nel palcoscenico surreale e straniante della contemporaneità.
La parabola pasoliniana sul genocidio di un popolo privato della sua identità, a cui i napoletani, come i Tuareg, sembrerebbero opporsi in un disperato tentativo di resistenza culturale alla modernità, è sopraffatta dal magnetico potere d’attrazione del tubo catodico. Il sogno di un’impossibile normalità è l’ultima sconfitta annunciata prima dell’inevitabile disastro.
La chiusura circolare risolleva dal suolo la macchina da presa, lasciando sul terreno i desideri infranti del protagonista, prigioniero, nella finzione come nella vita reale (Aniello Arena è un attore-detenuto della compagnia del carcere della Fortezza di Volterra), dei fantasmi della modernità.
Giuseppe Borrone

martedì 15 gennaio 2013

Bruno Galluccio “Verticali”, Einaudi, 2009


C’è un respiro di mare nel libro di Bruno Galluccio, Verticali, Einaudi, 2009, un respiro che va e che viene, che porta dappresso e risospinge lontano ciò che è trascorso, ma che non è ancora finito, e ciò che ha avuto termine e non se ne è andato definitivamente. Così il discorso poetico si rifrange continuamente su una battigia pullulante di immagini e ricordi, di frasi che ancora riverberano fra lustri, reperti appena riscoperti. Tuttavia, non ascrivibile interamente alla pura sfera dell’io lirico, giacché il verso di Bruno Galluccio, in questa tarda quanto feconda opera prima, così ricco di aromi e insenature, è anche discorso matematico, allude alla sfera scientifica. La vena umanissima di questo poeta non si dispiega mai al di fuori della verifica sul proprio modo di vivere che è propria della filosofia greca e che aveva come obiettivo la costruzione di un dialogo intorno a concetti di cui, se non si potevano dare definizioni assolute, si potevano però disporre su un piano le ragioni, motivarle, creando adesione intorno alla propria visione. Modo di vivere che, se tendeva alla saggezza senza mai raggiungerla pienamente, dava luogo anche a un’attività contemplativa.

quando dicevo suono
intendevo dire piuttosto la fine del suono
quando in sé ricade
e ciascuno nella sua separazione lo vede
tramutarsi in mancanza
e si esercita allora in sottrazioni
e ammette i limiti del corpo

ma quando dicevo vento
intendevo davvero vento
con tutto il nero e le rotazioni che conduce
e pure intendevo il segno polare
capace di versare sguardi nel cielo improvviso
con la domanda ancora incompleta
ai piedi di alture incavate

I due tipi di discorso, quello analitico, geometrico e quello relativo all’esistente, alla sfera soggettiva, vengono tenuti costantemente sulla graticola in un confronto diretto che non li vede mai fondersi. La distanza mantenuta aperta come lame di forbici divaricate serve a non perdere lucidità analitica e a non rinunciare alla contemplazione immaginativa come, appunto, accade nella filosofia antica.  Non a caso è presente nei versi anche la forma dialogica: un costante riferirsi al tu, al noi, per arricchire la visione che altrimenti non includerebbe anche le posizioni opposte. È nel dialogo che, infatti, Galluccio tende a costruire relazioni, legami tra le contrapposte sponde, che moltiplica i trapassi, i passaggi, tra la scienza e la psicologia, tra la ragione e la morale: “e guardi il polpastrello e il viaggio / dei suoi atomi / dal big bang a questa zattera coerente”.  I meccanismi di una ragione che si accampa con la sua capacità analitica e di una poesia capace di introdurre alla via contemplativa sono fatti sfrigolare l’uno contro l’altro da Galluccio come componenti dalle  quali non è possibile separarsi al fine di costruire il quadro del nostro stare al mondo: “i treni accadono precisi / oltrepassano il fondo della retina / e proseguono lungo le domande delle mappe // noi restiamo muti vapori sui vetri”.  

Ma il poeta napoletano perlustra anche il regno dell’estetica, della sinestesia, dove le cose se non scambiano la propria essenza, condividono, però, alcuni attributi: “Ecco c’è l’acqua / che scorre verso il suono limpido / e una luna aperta  dispiega la sua diffusione”. In un inclinare verso gli aspetti delle cose più aporetici: “Il mondo si presenta  a noi / che acconsentiamo a deporre il coltello,  / a riconoscere la notte / come pura assenza di sole”, Galluccio si addentra nelle pieghe e nei vapori, nelle mobili percezioni, accettando la sfida delle apparenze. Fino al punto che il suo stesso io  viene travolto: “E così non mi riconosci?”. Anzi più affonda lo sguardo nelle cose, più avverte di perdere la presa, ma questo è anche il modo con cui afferra ciò che più sfugge alla presa razionale: “Nel silenzio / l’universo torna a riflettersi in se stesso / a immaginarsi”. È questo il modo con cui s’insedia nel movimento oscillatorio delle contraddizioni, della paradossalità del proprio esistere, corpo compreso, della cifra del vivere.  

E’ questa finale commistione ad essere rappresentata in particolare nell’ultima sezione dedicata a “ George Cantor matematico”,  in cui tutto è presente: idealità, corpo, concetti, sensazioni, in una sorta di vento che vorticizza ogni elemento creando la persuasione di uno sradicamento e di un perturbamento, a costituire l’approdo finale del viaggio di Bruno Galluccio, il quale non congegna false speranze: “il discorso cade rialzandosi / i giochi completi  sono nuovamente disfatti / il quesito viene gettato sempre più lontano”, riproponendo la lezione socratica.  Ma, anche, che approda, nel verso con cui concludiamo questa lettura: “potrei farmi pantano e sonda che pesca / la conchiglia che accoglie tutte le acque” , che per essere un riferimento mitico, un ritorno all’origine, non fa che riproporre una nuova ripartenza, la quale s’innesta nella spirale vichiana, come l’esegesi di Croce ha indicato, ogni volta inglobando un nuovo territorio, ogni volta allargando il proprio orizzonte.  

  
                                                                Rosa Pierno

venerdì 11 gennaio 2013

“Ettore Frani: verso l'esperienza del mistero e delle sue intuizioni” di Leonardo Bonetti


In mostra a Ravenna dal 24 novembre al 13 gennaio 2013

Una delle interrogazioni che ricorrono di fronte alla pittura di Ettore Frani, dentro al cuore della sua rivelazione, è se l'opera sia, nella sua essenza, una manifestazione simbolica o, al contrario, una pura concentrazione ermetica. Se, cioè, la sua proliferazione immaginale agisca come un rinvio a questioni che affondano nel mito secondo costellazioni già sperimentate o, per converso, rappresenti una prova colloquiale, un brano intrinseco al mistero dell'essere, alla sua esperienza cogente, vivissima, insondabile.
Il motivo per cui la prima ipotesi si mostra da subito come incongrua o, con ogni evidenza, insufficiente, è legato al fatto che nelle opere di un'artista come Frani, il più antico tra i moderni, si concentra tutta la potenza di una visione parziale e incondizionata. Un lacerto o brano rivelato sin dal suo nascondimento, a partire dalla negazione della sintassi, del procedere per premesse e conseguenze. Un metodo ellittico, il suo, capace di proiettare dentro l'ambulacro di un edificio immaginale una luce che permea i soggetti, li illumina e ne scaturisce intimamente. Un quadro-camera oscura dove la visione si compone come parte di un tutto. Ricettacolo di vita geologica, risultato di movimenti nello spazio e nel tempo in vista di un segreto sub-naturale all'incrocio tra mistero ed esperienza, cornice di irrealtà capace di renderlo immortale.
 E l'assunto, allora, è questo: vive, in ogni opera di Ettore Frani, un'intuizione e non una profezia. La sua arte non parla del mistero o per il mistero, ma sgorga direttamente dall'intuizione della sua esperienza. C'è, in queste opere, tutte, dalla prima fase tra specchio e velo, alla seconda dei panneggi, sprofondata oltre il nascondimento, alle ultime di Terra, latte, luce e di Attrazione celeste, un furore e un movente profondo che conduce all'esperienza del mistero e delle sue intuizioni. Tanto che lo spazio in cui si apre per soddisfarne l'attesa non è una struttura vuota o, ancor peggio, astratta ma, semmai, l'estensione metafisica della sua intuizione, la sua dilatazione in profondità, regione interiore in cui viene calata l'esperienza dell'inesprimibile.
Materia di questa estensione è, fondamentalmente, la luce. C'è infatti una morbidezza, una ariosità, una fusione impalpabile di ombre radiose proprio lì dove il nero è pregno di luce. E l'emozionalità dell'opera non si risolve in un gesto definito, in un moto esatto; semmai nell'immagine dei moventi, delle spinte spirituali profonde.
Per questo siamo ancora all'interno della caverna dell'essere, sebbene in attesa e sulla soglia. Si tratta di una luce senza progetto, è ovvio, tutta interna allo sviluppo dell'esecuzione. Come se la velatura vincesse sulla prospettiva. Ma è una luce fattasi aria, densità luministica, atmosfera e corpo, intransigenza di forme. Perché spazio, tempo e luce raggiungano uno stadio di fusione paragonabile a un assoluto relativo, punto d'arrivo di un percorso artistico ed esperienziale insito in ogni opera.
La prospettiva, in questo contesto, non si risolve in una geometria delle linee ma, semmai, nel prodotto dei rapporti di luce dati dalle sue velature. Lo testimoniano gli orizzonti alti, mai concepiti come panoramiche distese, prospettiche. E che rappresentano una materia nobile, vicina alla sostanza interiore dello spazio e della luce. Formando un piano che non ha spessore di superficie e non si oppone alla concentrazione della luce, ma la trattiene solo quanto basta per restituirle una sottile frequenza di vibrazione. Uno spazio profondo e aperto dentro la caverna del sub-naturale in cui si è immersi senza riparo dentro l'esperienza della visione.
L'antitesi di profondità e superficie non si dà come tale, ma come proporzione di valori non oppositivi. La luce è spazio senza intenzioni. Mentre le figure, testimoni di una visione annunciata e in fieri, capaci di imprigionarne le risonanze, ne sono attraversate, riempite; materia opaca, energia accumulata e compressa che si disperde nel gioco di superficie e profondità.
È la dimensione dell'essere a rappresentarne l'essenza fondamentale; l'ombra un piano inclinato di irradiazione. Figure illuminate dall'interno che danno il senso della loro verità, della loro essenza. E che, in questo spazio e in questa luce dalla medesima natura profonda, si comportano allo stesso modo. Figure che non occupano lo spazio, che non lo colonizzano ma, semmai, vi sbocciano come escrescenze colme di estensione. E il cui motore è una luce più piena, più insondabile. Così che il loro mistero chiama a farsi sperimentare nelle forme stesse dell'essere.

Il colore, altresì, o l'assenza del colore, si costituisce nelle opere di Frani come una media interiore tra due tonalità, tra due timbri. Vi si gioca la proliferazione delle intensità luminose atte a descriverne i fenomeni per una rivelazione di unità assoluta, immutabile.
Il tempo si fa spazio, fino ad escludere ogni successione. Le zone d'ombra vere e proprie macchie d'aria, lo spazio aperto un fondale immerso e, persino, sprofondato nell'opera, caverna dell'essere. Opera che a volte si pone sulla soglia, sul limite estremo oltre il quale rischia la negazione di se stessa. Linea oltre la quale la luce si spiegherebbe come elemento puramente naturale. Quando è invece in questa caverna dell'essere, in questo ventre metafisico, che le due tonalità sprigionano il loro senso più profondo. Universo senza colore, dove persino le sfumature più sottili, estensione delle verità intrinseche all'essere, incarnano un'origine fervida, cupa, inquieta.
 Ma è proprio nel tempo e nello spazio che prende corpo il senso musicale dell'opera di Frani, a partire dal silenzio e dal tono interiore. Un rumore di preghiera e di trionfo, un'armonia condotta sulla traccia della caduta e dell'elevazione. Esattamente ciò che accade in Terra Latte Luce III, dove a una predella assorta nel silenzio e nella lontananza, si impone il fragore della resurrezione, cateratta d'acqua risorgente. E, con impatto visivo ancora più assordante, l'Attrazione celeste, vero paradigma dell'esperienza artistica dell'ultimo Frani, punto d'arrivo tra i più riusciti nella sintesi tra sguardo, luce e suono.
Tutto ciò secondo due direttrici essenziali, nel tempo e nello spazio. Perché è proprio questo movimento impalpabile a tradurre musicalmente il discorso pittorico di Ettore Frani in ritmo e in altezza. La pioggia come caduta ed elevazione, dai toni gravi del basso a quelli acutissimi dell'alto, per arrivare al ciglio di tenebra e luce, nota caparbia e lunga sotto il contrappunto della stellata, vero e proprio sciame sonoro e cristallino. Mentre il ritmo rilancia da profondità aeree, dal vicino al lontano perfettamente intersecantesi nell'alto e nel basso. Tanto che ogni particolare risuona nell'alternarsi di prossimità e distanza.
Così La fortezza, montagne imperiose risorgenti dalle tenebre della coscienza, tra nebbie risalenti: la grande Torre del Pakistan. E al suo fianco le due Comunicande, donne dopo il bagliore. La prima svuotata, adusta, folgorata; l'altra spirante verso l'alto.
 E ancora Sorgente: tela di bianco, bagnata, unta dal basso, nel centro. Corpo su coronamento, o predella nera, con acqua che cade e risorge; mentre nell'alto precipita una luce irreale. Emanata dall'acqua stessa. Radiosa.
Quindi Palpebre, quadri dipinti ad occhi chiusi. Ombre umane nel bianco. Sul retro, chiusi alla visione, nascosti allo sguardo, due cieli stellati, visti con gli occhi della mente, secondo un vero e proprio rovesciamento della prospettiva. Cieli senza occhi, da cigli erbosi, da ciglia interiori. Che sprofondano, catapultano nelle trincee dell'essere durante la notte, prima del lancio dei traccianti, prima dell'incursione, della raffica, dell'abbattimento. Ascensione di luce verso l'alto. Stellata fittissima. Moltitudine squillante, argentina.
Per arrivare, infine, all'atanor, origine ultima, principio e fine, quadro circolare. Il barattolo del pittore visto dall'alto, come vaso alchemico, colore nero stemperato in acqua-resina, in gomma-ragia, vero luogo, per ogni artista, di tutti i nascondimenti, di tutte le rivelazioni.
                                                                   Leonardo Bonetti

martedì 8 gennaio 2013

Gao Xingjian e Claudio Magris “Letteratura e ideologia”, Bompiani, 2012


Il libretto a due voci,  in cui si affiancano, ripercorrendo entrambi i medesimi temi, Gao Xingjian e Claudio Magris,  e che affronta il rapporto letteratura e ideologia dalle due angolazioni, Occidente e Oriente, è utile anche per comprendere come i temi traggano un’ulteriore colorazione dalle condizioni politiche sul cui sfondo vengono letti  i materiali culturali. Poiché, ad esempio, in Cina è molto sentito il problema della libertà individuale, dello svincolamento dal realismo socialista, e dell’autonomia da qualsivoglia dottrina o adesione politica. È altresì interessante vedere quali marche e necessità vengano sottolineate dalle due posizioni rispetto alle uguaglianze di fondo (e si sentono in entrambi gli autori le voci di Bachtin, dell’arte come vita, e di Auerbach col il suo sogno democratico della letteratura). I due autori condividono la definizione della letteratura come espressioni di vita, espressione delle sue molteplici nuances, capacità di costruire la propria visione pur con tutte le particolarità e manchevolezze che un’espressione individuale comporta, contro le visioni preconfezionate e imposte dall’ideologia. In fondo, consistendo proprio in questo il pregio della letteratura: la capacità di offrire ciò che altrimenti non potrebbe essere afferrato né condiviso.

Con stile limpidissimo e fermo, Claudio Magris espone il proprio punto di vista, con il quale ritaglia con accurata precisione, per l’ideologia e la letteratura, posizioni e funzioni, riuscendo anche a tracciarne un fulminante excursus storico. Si parte dalla definizione di ‘ideologia’ di Karl Mannheim, secondo il quale “essa non è una visione parziale del mondo, bensì “il superamento delle visioni parziali che si sono via via succedute””, e non va giudicata “secondo criteri di verità, bensì in base al senso e alla funzione che assume nella vita pubblica e politica”. Per Nietzsche, essa è vera non in quanto dice la verità, ma perché “impone una concezione utile a dominare la realtà. Ma è Marx a liquidarla, poiché essa ricopre i fatti con immagini e giustificazioni illusorie, così com’è illusorio “che ai processi storici presieda la lotta fra le idee”. E l’ideologia è per questo anche l’opposto della letteratura, la quale conserva libertà immaginativa e concretezza sensibile. La categoria degli intellettuali, spesso “scorrettamente confusi con gli scrittori” asserviti al potere, “hanno peccato contro la vita”, insieme a tanti scrittori che hanno tradito – per cattiva ideologia – la loro calda umanità (Céline, Hamsun, Aragon, Pirandello).  Lo stesso Platone, il quale ha dato il suo assenso soltanto a una letteratura ideologica, impegnata, che dovrebbe contribuire a cambiare il mondo, non solo a rappresentarlo, ammettendo solo l’arte che “forgia la moralità e i valori patriottici, sociali e civili” autore di tragedie da lui stesso distrutte, sapeva meglio di chiunque altro che la poesia è “ispirazione che ha solo in se stessa, negli abissi e nei voli della fantasia e del sentimento, la propria sorgente e il proprio senso”. Anzi, Magris, proprio scavando in questo rifiuto platonico “ che non tollera espressioni difformi dal suo modello di valori e fa violenza all’individuo e al suo diritto alla diversità” trae, tramite la sua seduzione e la sua ambiguità, “il significato che essa ha per la vita degli uomini”. La libertà della letteratura è tale che, leggendo, possiamo arrivare a identificarci anche col male: “Se l’arte è bellezza, quest’ultima non sempre è, come secondo Platone dovrebbe essere, l’apparizione del Bene e del Vero”.    Ecco, dunque. che se l’ideologia appiattisce la vita, la letteratura ce la riconsegna nei suoi molteplici aspetti, ci consente di metterci nei panni degli altri e in questo senso si può definire democratica. Se il Novecento è stato un secolo dominato dalle ideologie, pure, è stato un secolo in cui la letteratura si è furiosamente ribellata a esse. Altro discorso naturalmente vale per la letteratura al servizio di una causa, in cui la creazione fantastica non si lascia asservire. L’ideologia tentando sempre di piegare a una causa, a un dovere, uccide la letteratura, è altra cosa dall’autentica dimensione morale e politica della letteratura “che non predica, bensì mostra”.       

Gao Xingjian invece, più attento a specificare il rapporto tra filosofia e letteratura per evidenziare il ruolo insostituibile della letteratura nel fornirci descrizioni della realtà che affrontiamo, ci dà anche il senso dell’assoluta esigenza di dissolvere lacci e lacciuoli, ribadendo che non si dà vera letteratura se non dove si siano tranciati i rapporti con i sistemi ideologici che invischiano gli autori fino al punto di sporcare la limpidezza delle loro voci. Anche per il vincitore del Premio Nobel, l’ideologia aspira a dominare e a servirsi strumentalmente della letteratura e il marxismo, il liberalismo, il nazionalismo, “strutture ideologiche che tendono a dare spiegazioni al mondo”, di fatto vogliono contrastare “la libera espressione del sentimento e del pensiero dell’uomo”, la quale trascende ogni utilità pratica. Con grande fermezza, l’artista cinese, afferma che “Voler usare la letteratura come strumento per cambiare la società equivale a volerla usare per divulgare le norme morali ed etiche” e che la letteratura impegnata nella politica è destinata a rendere la politica dei partiti un po’ più attraente. Ma la letteratura trascende l’ideologia, la politica e l’utilità pratica. Lo scrittore, d’altronde, non è un salvatore, al contrario solo spogliandosi da questo ruolo illusorio “può giungere a una conoscenza lucida dell’umanità”, conseguita attraverso la ricerca dell’oscuro e del dettaglio, della sensibilità estetica e del sentimento. Facendo riferimento al rapporto tra filosofia e letteratura, entrambe giungendo alla conoscenza attraverso il proprio metodo, egli afferma che “laddove la filosofia si richiama alle distinzioni della ragione pura” e argomenta per giungere a una verità ultima, “la letteratura raggiunge la propria conoscenza rimanendo in contatto con i sensi e le emozioni”. La letteratura “non ha la vanità di fornire una concezione del mondo” e spinge verso associazioni di idee sempre nuove “affrontando i molteplici e illimitati aspetti della vita”.  

                                                                                             Rosa Pierno

domenica 6 gennaio 2013

“libretto” rivista d’arte, n.18, 2012



La rivista d’arte “libretto”, numero 18 (2°semestre 2012)  edito da Pagine d’Arte,  si configura come un vero e proprio racconto sull’arte, con testi aventi il respiro lungo della meditazione e del piacere e aventi interesse per il recupero di vicende artistiche, di oggetti ed eventi legati alla qualità e non alla novità.  Il racconto, nello svolgersi dei testi di vario argomento e riguardanti diversi ambiti artistici, (pittura, fotografia, arte dei giardini, cinema, architettura, design e illustrazione),   configura, appunto, un’attenzione estranea alle mode e ai mercati.

La rivista segue, più precisamente, un itinerario che è sempre scoperta  dell’inusuale, del non giustamente valorizzato e in questo senso consente di conoscere cose che altrimenti resterebbero insondate. Così come è attenta anche al valore del recupero: si veda il testo sulle serre di Auteuil, un incanto minacciato nel quartiere del Bois de Boulogne.di M. Claivel, con la descrizione di ciò che è stato, ciò che è e che cosa si prevede diventi questo bellissimo giardino.

Concentrandosi geograficamente in un’area che abbraccia non solo il suolo nazionale, ma anche la Svizzera e la Francia,  consente di conoscere artisti d’oltralpe, i quali sono accomunati, nella loro pratica, da una passione che non concede deroghe all’improvvisazione. In ogni caso, la specificità del punto di vista inerente alle varie espressioni artistiche traccia una sorta di allargamento dell’orizzonte coincidente con un modo particolare di guardare e analizzare le prospettive. 

 In questo numero, il breve saggio “Abitare nel collettivo, vivere nel domestico”, a cura degli architetti Giacomo e Riccarda Guidotti, è dedicato a un progetto di villa unifamiliare che utilizza i dati paesaggistici di scarso valore estetico come elemento progettuale,  basandosi esclusivamente sull’interno e chiudendosi all’esterno, mentre il testo sulle opere micrografiche, costruite con minutissima calligrafia tracciante disegni sorprendenti, appartenenti alla collezione Braginsky esposte al Landesmuseum di Zurigo, consente a O. Muscardini, richiamando in causa l’ultima grafia di Robert Walser come manifestazione patologica, di mettere in rilievo come essa s’innesti sempre in un ambito comune sia all’etico sia all’abilità sia all’enigma.

Ma tante sono le pagine che sviluppano temi interessanti: da quelle sulle attrici delle pellicole hollywoodiane degli anni trenta, a quelle dedicate agli artisti Ercan Richter, Dino Baiocco, Daniel Lifschitz, Imre Reiner, Italo Valenti, Emilio Tadini, fino a quelle di  Raffaele La Capria che parla dei testi in cui ha messo in evidenza l’assoluta necessità della bellezza. Insomma un itinerario insolito quanto vario e appassionatamente percorso.