Danilo Di Matteo affronta il capolavoro di André Neher, “L’esilio della parola”, a partire dal rapporto dialogico tra l’essere umano e Dio: è in esso che si incontra la parola abbagliante di Dio (mentre in Abramo la parola rivelata diventa la sua stessa persona, con lui coincidente) ma anche il dilagare del silenzio. Nell’assenza della parola non è più la relazione ad essere centrale, ma la posizione assoluta dell’essere umano. Il dialogo da verticale, con Dio, è anche orizzontale, dell’essere umano con i suoi simili, segno dell’opera, dell’azione, della responsabilità. Il dialogo mostra però anche un aspetto paradossale che lo erode dall’interno. Colui che ascolta in qualche modo non è più in dialogo poiché invaso dalla parola che ascolta, la quale permea il sé con le parole del parlante. Da ciò si trae che il vero dialogo dovrebbe essere un compenetrarsi sincronico, creativo, improvvisato, simile a quello che ascolteremmo a teatro. <<“È nella prospettiva dell’imprevisto” che va concepito il dialogo con la Bibbia. “Il mondo è aperto, i giochi non sono fatti”. Dio “non possiede la totalità delle chiavi della sua opera; nemmeno l’uomo”>>. A volte le chiavi sembrano essere state smarrite e il silenzio configurarsi come il simbolo principe della relazione dialogica: esso coincide con lo spazio in cui l’essere e il nulla disvelano il loro potenziale. Il silenzio “Mette in questione, senza mai rispondere; e risponde senza mai concludere”. Le pagine della Bibbia registrano sia il silenzio di Dio sia quello degli uomini. Tuttavia, il dialogo, in cui a volte i dialoganti dimenticano di partecipare, s’interrompe con le pagine finali della Bibbia. Dopo le parole dei profeti, da secoli nulla viene più registrato, soprattutto è in tale silenzio che si produce uno degli eventi più disumani: quello di Auschwitz, coinvolgendo così anche il tempo storico. È come se uno o entrambi i dialoganti fossero scomparsi.
Di Matteo enuclea le strategie che questi due soli stati, parola e silenzio, possono inscenare. Il potere di non rispondere, il potere di attendere, il potere di dislocarsi diversamente e persino di rifiutare. Le strategie sono a loro volta valutabili come possibili determinazioni su qualcosa su cui non c’è una risposta certa. Il destino stesso, non è ciò che si subisce, ma ciò rispetto a cui si deve ancora sempre decidere. In questo senso, il silenzio ha a che fare con la libertà. E la libertà è basata su una radicale insicurezza. Il silenzio ha a che fare con il nulla (un nulla non vuoto) e con l’energia, il “silenzio che prepara la parola”. “La promessa, dunque, è la dimensione energetica del silenzio”, la garanzia della sua realizzazione.
Un secondo paradosso, segnalato da Di Matteo nell’interpretazione di Neher, assegna ancora al silenzio di Dio l’istituirsi della consapevolezza logica dell’esistenza del male. Il Dio, “che si fa beffe di ogni altra logica”, fa discendere il male logicamente dalla ricezione del silenzio. Pure, ciò è ancora il tramite dell’incontro con Dio. Di Matteo, procedendo nel confronto con le altre interpretazioni del testo biblico (da Bloch a Levinas, da Nemo a Rosenzweig) ed esplicitando le mosse esegetiche di Neher, mostra che da qualsiasi parte si entri nel labirinto (parola, silenzio, male, dialogo), si finisca col toccare tutte le tappe e gli stadi del rapporto con Dio. Ciò detto, appare riduttiva qualsiasi interpretazione di tipo tecnico (religiosa, psicologica, giuridica) che affronti le cose, non nella loro complessità, ma da un punto unilaterale, qual’è, in particolare, quella psicoanalitica, disciplina a cui Di Matteo è particolarmente interessato per la sua professione. Una puntuale precisazione ci fa notare come nella Bibbia sia esplicitato che tali riduzioni al mondo immanente non rilevano dimensioni ulteriori: “lì dove l’invisibile diviene visibile in forma di lacuna”. Ogni certezza umana, sapere, potere, tecnica è incessantemente “smentita dal male”, ogni legge è istituita in quanto esiste “sempre un’impotenza umana”.
Un ulteriore capovolgimento di prospettiva Di Matteo lo trova in Philippe Nemo, il quale, alla domanda “Perché nel mondo c’è il male?”, riporta che Giobbe risponde “in vista di che cosa?”. La risposta evidenzia la messa in gioco della propria persona e la conseguente ritrovata intimità con Dio. Questa svolta, che per Neher fallisce, è in ogni caso la prova vera da affrontare. Il silenzio divino “esprime la presenza divina come e meglio della parola”. Neher analizzando la storia di Geremia arriverà ad affermare che “La rivelazione di Dio è vera soltanto se è sostenuta dal silenzio”.
“Il Dio che non ha bisogno degli uomini”, “il Dio matadialogale” è anche paradossalmente il Dio che con il suo silenzio sfida gli uomini al dialogo. È tramite un altro testo di Neher che Di Matteo ci aiuta a comprendere questa serie di paradossi inanellati e lo fa prendendo in considerazione la questione dell’identità ebraica, la quale ha a che fare con la localizzazione di Dio (non chi sei, ma dove sei) e con la localizzazione di sé. Decidere in quale posizione tra due estremi concettuali ci si pone (“tra la sottomissione e la rivolta, tra il compromesso e l’assoluto”) vuol dire assumere una responsabilità che riguarda anche gli altri, (vuol dire anche localizzare in sé Dio). Gli ebrei si sono voluti popolo a responsabilità universale in un tempo illimitato, in un tempo senza fine. Nell’incompiuto, infatti, risiede l’incessante ritorno dell’uomo e di Dio, dove senza fine appare anche la speranza.
Il rapporto tra promessa e Stato ebraico é dello stesso tipo di quello esistente tra utopia e modello concreto irrealizzabile. Vi traluce un intimo nesso tra l’utopia e la speranza che tende a superare ogni fallimento. Anche qui Di Matteo ravvisa una figura psicoanalitica: l’“Immagine dell’Inaccessibile”, ove la promessa è “intimamente legata al silenzio e all’incompiutezza”. Ci si addentra ancor di più nella selva dei contrari simultanei dove speranza e fallimento sono le due facce della stessa medaglia. Tali estremi roteano sul perno del libero arbitrio, della libertà. Non la fine di ogni espressione dopo Auschwitz, come teorizzava Adorno, ma la ripartenza della speranza proprio dal fallimento. Il non-ancora ebraico si configura in posizione diametralmente opposta al già compiuto dei cristiani. È il forse ebraico dell’incertezza, dell’incompletezza, ma anche del possibile.
Sono, dunque, “la formula della contraddizione”, esprimente “la contiguità del sì e del no”, la non declinabile forza del “nonostante tutto” e la congiunzione avversativa “e tuttavia”, sintetizzante il pensiero di Rosenzweig, ad aprire nuove categorie di pensiero, le quali consentono di pensare insieme il bene e il male.
Rosa Pierno