In
Cos’è ‘poesia’ Giulia Niccolai inizia
il suo discorso, che è insieme un saggio critico e un racconto di vita, con la
constatazione: Ciò che è poesia per uno,
non lo è necessariamente per un altro: Giampiero Neri sostiene addirittura che poesia
sia “ipotesi”, e io sono d’accordo con lui. L’osservazione innanzitutto ci
conferma nell’idea, per altro non sempre riconosciuta, che la parola poetica, o
il segno artistico, si manifestino secondo un (non)codice d’ambiguità. Vale
a dire in dialettica contrapposizione con i codici codificati o codificabili
della retorica, del discorso comune, del ‘buon senso comune’, della prassi
contingente e infine della comunicazione. Forma quest’ultima di un rapporto sempre
finalizzato ad un risultato utilitaristico: comunicare per convincere l’altro della
bontà più o meno convinta della mia asserzione. Con uno scopo ben determinato,
se non aggressivo, al di là di ogni mera ipotesi, perciò sostanzialmente
menzognero. Non è la menzogna rappresentativa della poesia e dell’arte (di cui
si è superficialmente abituati a dire) che ci interessa, bensì la verità di un
segno anche silente di comunione, di
empatia, di quella che gli antichi definivano coinonía. Poesia come ricerca di senso (senso e sensibilità, carnale e mentale e cosale) piuttosto
che segno come segnale e quindi come significato.
Significato ovviamente impossibile se ci muoviamo nell’ambito di forme
ipotetiche. Poesia, quindi, come verità, non comunicativamente verificabile,
bensì profondamente sentibile.
Nell’ambito
dei processi psicoanalitici potremmo percepire la coinonía come una dialettica conoscitiva e appassionata, seppur
silente, fra inconscio e inconscio. Ma rifacendoci a Jung dovremo prendere atto
che «un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio è senza dubbio
personale. Esso poggia tuttavia sopra uno strato più profondo che è innato e
che chiamiamo inconscio collettivo». È
in questo spazio atemporale (rispetto alle storie icastiche o dell’inconscio
personale), che poi è lo spazio dei miti, che rivivono e si trasformano
(metamorfosi) i segni ambigui della poesia, le loro comunioni, la loro eternale
presenza nella dismisura fantasmatica
delle assenze. Sono i territori che
ci rendono sempre attuali, seppur inconsciamente, i riti della poesia di ogni
tempo e di ogni luogo. Si può osare di credere che ciò possa comunque
coinvolgerci in quell’ ambiguo nulla
prolifico, perché tacito ma creativo, dell’idea di poesia propostaci da
Giulia Niccolai – come tutti sappiamo artista, poetessa concettuale prima,
monaca buddista poi dal 1990.
Le
assenze come spazio della poesia
quale sopra intesa, trovano evidenza in un racconto della poetessa che parafrasiamo:
… Eravamo a Kioto nel grande tempio Sanjusangen
do, famoso per le 1001 statue di Bodhisattva i figli del Budda. 10 file di
sculture in legno, ognuna di 100 personaggi quasi a grandezza naturale… Il monaco
ci spegò che Sanjusangen do in
giapponese significa 33. Come mai 33? Il monaco proseguì: il salone che ospita
le statue dei 1001 è sorretto da 35 colonne 33 sono gli spazi vuoti tra le
colonne…:
Capii subito che filosoficamente, / il fatto di dare il nome al tempio
/ in base al numero degli spazi vuoti / dunque a ciò che non c’è, / può essere
interpretato / come la garanzia più elegante, / squisitamente Zen, / di non
escludere mai niente, / e nessuno.
Dal
niente e dal nessuno e visitati dalla meditazione, nasce la poesia, che deve
essere - o aggiungiamo è senz’altro – rivelazione. La rivelazione che viene dalle coincidenze e dalle epifanie fra vicende e persone e oggetti e spazi. Queste, svela
Giulia Niccolai, sono le cause
fondamentali per cui iniziai un cammino spirituale… ed è come se la mia stessa
vita fosse divenuta rivelazione: poesia.
Aggiungendo una ulteriore giustificazione la poetessa ci rende conto del
fatto che: se non avessi trovato il
Buddismo a cinquant’anni dopo l’ictus cerebrale, non credo che avrei avuto la
forza di riprendermi… Sento chiaramente di dovere questa rinascita e questa
meravigliosa ‘seconda’ vita di rivelazioni… al buddismo… dopo m’è risultato
chiarissimo il fatto di aver già ricevuto insegnamenti dai lama in vite
precedenti, delle quali io, prima, non avevo memoria.
Possiamo
citare piccola ma significativa parte del testo Meditazione 2, dalle Meditazioni,
uno dei percorsi di cognizione, riferibile, questo, alle rivelazioni dell’arte:
Un’incisione, netta, verticale / un “taglio di Fontana” / «la non
rappresentazione / in favore della creazione / di sensazioni spaziali» / – dice il Manifesto - / e anche «il fatto di passare / a un altro
piano dietro la tela, / per andare oltre ciò che è percepito»… / l’apertura dell’occhio della mente / …/ in grado di spaziare.
In
Meditazione 5 rivela, a noi, e a se
stessa:
… lì in quel campo coperto di neve / sotto terra, in un buio denso
/ e neutrale: un chicco di grano… / Questione di attimi e l’emozione / si
trasforma in timore riverente: / mi
sento sopraffatta dalla forza / smisurata di quel seme, / una forza immane
legata / a quella cosmica… La visione non può essere spiegata / a parole, il
suo effetto è stato quello / di aver
vissuto per un attimo / l’armonia universale, l’interconnessione / di tutte le
cose. / L’enigma divenuto / rivelazione?
La
‘prima’ e la ‘seconda’ vita… Oppure un’unica vita? Una possibile risposta può
venirci dalla complessiva lettura del saggio, o racconto, lettura che deve
essere parallela tuttavia alla lettura di Poemi
& Oggetti – Poesie complete. Un percorso del quale si fa guida e
garante, con una eccezionale introduzione, la poetessa e critico Milli Graffi,
come è noto, fra l’altro, responsabile della redazione della storica e insieme
attualissima rivista il verri.
Di
questo percorso è fondamentale, citato con appropriati sviluppi critici da
Graffi, il romanzo di Giulia Niccolai Esoterico biliardo (Archinto ed., Milano
2001). Se ne parlò anche in “Testuale, rivista di critica della poesia
contemporanea” al n. 31-32 (si consulti fra l’altro il sito web www.testualecritica.it).
Si trattava di una brevissima sintesi che ripresa qui ci aiuta a ricordare in
poche righe (sebbene per i lettori avveduti e di quella generazione possano essere
superflue) la straordinaria vicenda culturale e di ricerca che ha segnato la
vita e la poesia dell’autrice: protagonisti con lei Geltrude Stein, Adriano
Spatola, Corrado Costa, Giorgio Manganelli… il Mulino di Bazzano… la rivista
sperimentale “TAM TAM”… la rivista “il verri” di Luciano Anceschi… i viaggi e
la permanenza negli Stati Uniti… e infine (ma non infine!) il lunghissimo
determinante soggiorno in India…
Vale
la pena trascrivere ancora, ai fini anche di questo nostro articolo, una
considerazione autentica dell’autrice sull’esperienza della meditazione e sul rapporto di comunione con se stessi, con l’altro e con
gli oggetti:
… far scendere e
stabilizzare nel sangue, nel midollo, nel DNA i pensieri e i concetti che
abbiamo in testa allo stato aeriforme, volatilizzato e non ancorato, è
esattamente lo scopo della meditazione. In un certo senso, allora, è come se
anche Thornton Wilder [di
cui Niccolai aveva descritto l’entusiasmo per la Stein] avesse subìto il potere pervadente della scrittura della Stein,
recependolo come meditazione. Inoltre, sempre in meditazione, il tentativo di
ognuno è quello di portare la mente oltre il ‘pensiero discorsivo’, quella
sorta di pollaio di impulsi che, come certi spaghi inutilizzabili, ci
ritroviamo sempre nella testa: voglio questo, non voglio quello, devo fare
questo, devo ricordare quest’altro, non mi piace questo, mi piace quello, ecc.,
e oltre la ‘concettualizzazione’ (che è ciò che sto facendo io mentre scrivo, e
che fate voi che mi state leggendo) per raggiungere l’’assorbimento’ (la prima
vera vacanza della mente!), una sorta di radiosa e intuitiva pace interiore
nella quale la mente sembra oscillare leggermente come una barchetta
sull’acqua.
Si
è detto di una prima vita, e di una seconda a partire dal’esperienza
buddista. Leggendo l’introduzione di Milli Graffi e seguendo via via la storia
delle poesie complete in Poemi & Oggetti, si può ipotizzare
che, almeno dal punto di vista squisitamente poetico (visivo e concettuale), si
dia in realtà una sola coerente vita.
Una sola coerente idea di ricerca segnica, concettuale, scritturale e visuale.
Ci
sono innanzitutto da considerare (dopo il romanzo d’esordio del 1966 Il grande angolo edito da Feltrinelli)
le concrete astrazioni oggettuali
concepite in armonia con le sperimentazioni di TAM TAM. Milli Graffi (preceduta
da una altrettanto sapiente prefazione di Stefano Bartezzaghi e dalla
presentazione della collana “fuoriformato” da lui diretta di Andrea Cortellessa), nella sua
introduzione a Poemi & Oggetti
cataloga con intelligente acribia critica circa 140 oggetti riprodotti fotograficamente, quando non si tratti di operazioni
fotografiche vere e proprie:
«Ho
fortemente voluto includere in questa antologia Poema & Oggetto [la cui prima edizione è del 1974 per “Geiger”,
la casa editrice collegata al Mulino di Bazzano e diretta da Maurizio Spatola,
fratello di Adriano], che potrebbe apparire come un’opera prevalentemente
visiva, perché in realtà rappresenta un punto di svolta decisivo nella ricerca
dell’Autrice sul linguaggio. Questa volta non va [come per le precedenti opere
di scrittura] a scavare nell’infinita variabilità dell’orizzonte semantico
delle parole [fra nonsense e ambiguità significanti e ironie in parte ludiche
in parte anche aggressive], ma vuole affrontare il rapporto che si stabilisce
tra la scrittura e la realtà».
Ecco
allora, solo per fare qualche esempio, “scultura”,
una macchina da scrivere con il nastro incartocciato che sforna un foglio
spiegazzato con la scritta “poema” (la poesia come insignificanza logica?); la Parola POEMA riportata in
prospettiva su un “setaccio” (titolo
dell’opera); una ammasso di spilli, sopravanzati
da uno spillo vero infilato nella pagina:
“poema tautologico”. Un’altra macchina da scrivere questa volta tipograficamente
disegnata con il foglio che trascrive poema,
nell’originale un vero foglio bianco infilato in un taglio praticato
all’altezza del carrello e fissato con lo scotch sul verso della pagina. L’ammasso dei caratteri di whole che formano una texture: titolo “whole: intero, hole: buco”… L’oggetto
e il suo senso o nonsenso (in quanto evasivamente riprodotto con l’inganno
grafico) gioca con la scrittura e i suoi alfabeti, le sue linee, i suoi spazi…
la sua pienezza d’assenza aperta alle infinite ambiguità, come avveniva
per gli spazi vuoti fra le colonne nel tempio di Sanjusangen do di Kyoto. Si instaura fra oggetti e alfabeti,
coniugati secondo un’idea di poema (più paragrafi o campitoli di un lungo
percorso), una dialettica, non descrivibile né analizzabile, che viene più o
meno inconsciamente dalle discusse ipotesi linguistiche di referente-significante-significato (Saussure) e dallo schema preconcettuale, la parola che si fa (Brandi). Ma è
proprio qui, ancora una volta, l’aperta ambiguità della poesia e del segno che
vuole evidenziarla senza successo, poiché la poesia è una dismisura
sensualmente recepibile, mai concretamente spiegabile, come gli oggetti stessi,
isolati da ogni contesto se non quello fantasmatico, nella impossibilità delle
loro riproduzioni e delle loro analogiche spazialità.
Di
qui, dopo innumerevoli altre esperienze scritturali, alcune ancora visuali - in
particolare, solamente per fare qualche sporadica citazione Humpty Dumpty (poesia concreta - 1969) e
Webster Poems (poesie in inglese con riferimento al Webster, famoso vocabolario
americano - 1971-1977) - , nel 1982 ecco i famosi Frisbees (poesie da lanciare), Frisbees
di coda e d’occasione (1985), Frisbees,
lunghe e brevi (1988-2004), Frisbees
della vecchiaia (2001-2011). Milli
Graffi, per iniziare le sue analisi testuali, ci illumina in poche righe per
altro assai acute e esaustive sulla natura dei Frisbees : «Si presentano come brevi e fulminanti focalizzazioni di
piccoli eventi quotidiani marginali, frammenti, lampi, guizzi di un senso
subalterno o, se vogliamo, anche alternativo al senso comune, sotterraneo e
occulto, volutamente irrisorio, fragile, ma imprevedibilmente tenace e
allegramente corrosivo». Al di là degli stessi Frisbees tuttavia si può notare che è questa la marca complessiva e
coerente del segno poetico di Giulia Niccolai: perciò si osa rifiutare la
distinzione fra la vita prima e quella dopo l’esperienza buddista. Costanti
sono comunque, l’alternanza al senso, comune e occulto nell’osservazione meditata della cose minime. Non senza
sovente, se non proprio sempre irrisione, almeno felice e leggera ironia: a
questo proposito si rimanda al saggio di Eloisa Guarracino, “Un epico-comico vero. Sulla parola
epico-mica in Giulia Niccolai,
pubblicato in “Testuale” n.49, e consultabile integralmente anche in web al
sito della rivista www.testualecritica.it
Dei
Frisbees si possono qui, ovviamente, proporre solo alcuni
esempi lanciati (!) in tempi diversi
dal 1982 al 2011:
Una volta / aprendo il frigorifero / è capitato anche a me di dire: /
“C’è qualcosa di marcio in Danimarca”.
La poesia / va da tute le parti / e così fo io. / Laudata sia.
Una delle ragioni per cui / da ragazza ho fatto la fotografa / è anche
quella / di essere sempre dietro la macchina fotografica / e mai davanti. / (Infatti
chi fotografa / non viene quasi mai fotografato). / Non allo specchio, / ma
nelle fotografie che mi ritraevano / distinguevo la paura sul mio volto.
Coltivare il linguaggio come l’orto. / Coltivare l’orto come il
linguaggio. / Raccogliere i piselli e le taccole / mi ricorda la correzione
delle bozze. / Come gli errori, / non si
riesce mai a individuarli tutti. / Per svista ne rimangono sempre un paio sulla
pianta.
Ogni tanto / mi capita di leggere / in brutta / un Frisbee / che non
capisco. / O che non capisco più. / O che non capisco ora. / E allora? / Allora
/ non lo metto in bella.
Stampati / i Frisbees / andrebbero / tanto distanziati / da permettere
a chi lo vuole / 8358618 / di scrivere i propri / negli spazi bianchi.
Carissimi / date in premio / una foto di Man Raj / o di Man Ray / a chi
/ (leggendo il vostro annuncio su la Repubblica) / capisce
che Man Raj / non è Man Raj / ma è Man Ray? / P.S. Il migliore amico è sempre
Duchamp.
Col tempo / la sofferenza / diventa conoscenza. / Ma anche. / Col tempo
/ la conoscenza / diventa sofferenza.
Di sofferenza / ne ho a sufficienza
/ ma ho sempre fame di conoscenza.
Ma quando sei sola, anche l’ombra / di un sorriso scatena i sospetti /
degli altri passeggeri del vagone / quando te la scorgono in volto. / Sorridevo
così, vagamente, ripensando / alla frase che mi aveva detto al telefono / la
segretaria del commercialista / proprio prima che uscissi di casa. / Cinguettando
felice, tono efficiente, / in codice giovanil-finanziario mi ave /
informato: “Signora, il suo look è in
credito!”. / Non avevo capito. Mi aveva allora spiegato / che quest’anno non ho
IRPEF da pagare. / In metro sorridevo al pensiero che le due / generazioni che
ci separano, quei 40 anni / di differenza, hanno in realtà il peso di anni-luce
. / Perché è probabile che, da parte mia, non riuscirei mai / a dire qualcosa
che riesca a far sorridere lei.
……………
A questo punto vorrei suggerire un minuto di silenzio.
……………
Quel minuto di silenzio è durato cinque anni perché ora siamo nel 2010,
di anni ne ho settantacinque e ho smesso di scrivere da allora. Ho smesso
perché non ne sento più il bisogno e mi sembra addirittura di essermi liberata
di qualcosa. Del bisogno di esprimermi ? …
Dico a un amico informatico, Giuliano Severi, sono molto contenta
perché il libro me lo presenta Bartezzaghi. Chi? Chiede lui, il calciatore?
Solo
brevi, pochi Frisbees, forse non del
tutto significanti per cogliere l’andante, negli anni, della scrittura di
Giulia Niccolai. Andrebbero tutti, non solo questi, ma tutti, riletti alla
ricerca delle infinite (perciò impossibili da cogliere sufficientemente!)
intime ragioni linguistiche, personali, strettamente meditative, rivelatrici e
poetiche. Ciascuna segno profondo di un mondo minimale che insieme ad altri
minimali mondi crea uno, o più, universi senza limiti accertabili.
Forse
ora, qui, si può semplificando (ma non tanto semplicemente), cogliere la
dismisura del nostro pensiero, dei nostri pensieri, che si affollano e si con-fondono – guardando ai minimi oggetti e a noi stessi – in ogni attimo, ogni minuto, ogni ora del
giorno, ogni giorno degli anni. Della vita.
Gio Ferri