martedì 29 ottobre 2013

Flavio Ermini su Luigi Fontanella, Land of Time, Selected Poems 1972-2003, Chelsea Editions 2006


Land of Time è un’antologia. Raccoglie un’ampia selezione di poesie di Luigi Fontanella, con testo inglese a fronte. Il volume copre un vasto arco di anni: dal 1972 al 2003, ed evidenzia, pagina dopo pagina, i passaggi testuali di una vocazione che ha toccato, negli anni, vertici espressivi personalissimi.
La natura si rivela in queste poesie con un impeto senza traguardi. È la metamorfosi nel suo punto più ardente, la dispersione senza cedimenti; è l’ansare d’una corsa / rapida, sempre più, / lunga e distante / variegata nella brama / che gli anni non attenua. In Land of Time, la vita sembra scaturire da una sola stagione: la grande estate dei sensi e dello spirito. Il tempo ne è l’immagine esaltante, trattenuta sempre in un atteggiamento estremamente armonizzato, anche quando è chiaro il destino di nulla di cui è portatore: c’è ogni volta il fotografo di posta e pronta / sempre una pistola per la strage finale.
Fin dal primo testo del volume è vivo l’ascolto de l’intima vita / che fugge, in una terra segreta in cui l’io è desolatamente sperduto. Gli anni che sono venuti dopo hanno acuito fino alla drammaticità quel momento determinante.
Agisce in Fontanella un richiamo alla purezza classica. Le sue figure vibranti assomigliano alle prime sillabe di una parola che sta per prorompere. Il poeta ha saputo costantemente fermare nella frase questi avvii lievissimi, questi preannunci, che sono ineguagliabili, perché rappresentano il passo iniziale verso una precisazione ancora avvolta nella rete di tutte le possibilità: c’è il vedere / e tutto ciò che d’invisibile / si può immaginare / dunque partendo e finendo / sempre da una forma / un modello una sagoma un profilo / come seguendo le orme / d’un Mostro inafferrabile.
L’idea del tempo assume in Fontanella una caratterizzazione particolare: quell’ascendere a spirale delle forme da cui non si riceve soltanto un’impressione di movimento rotante, che allude, sì, ai ritmi della danza e alla musicalità, ma dà la percezione del tempo quale nervatura di ogni più riposta sensazione. Il tempo è reso, qui, nella sua accezione metafisica: Più che altro è questa / disperazione del niente la pietà / verso tanti se stessi / il terrore calmo di scoprire che forse non altro è / la vita. Si pensa all’essere come sviluppo di una inevitabile consunzione. E quindi alla gioia fugace, da trattenere con trepidazione.
E dove la spirale si accentua in una dolorosa torsione, sembra trasparire il segno oscuro del destino. È come se Fontanella volesse condurci, per un istante, oltre il solco della vita. Là dove il desiderio e l’azione non hanno più nome: Ciò che resta è questa oscurità / puntuale e immutata della notte. Ecco perché, forse, la sua mano ama fissare l’immagine allo stato nascente. Quasi intendesse rallentare il compiersi di un gesto. Aprirsi alla pienezza della vita significa nascere al versante della disgregazione, ovvero affacciarsi simultaneamente al principiare e al finire dell’esistenza.
La successione delle poesie segnala una progressione che ha per oggetto la materia. L’intervento di Fontanella si fa via via più controllato. Con il tempo, il poeta acutizza quello spunto che la natura gli aveva fornito – e che lo collegava alla sostanza dell’esperienza – e lo libera in parte dai sottili artifici della ricostruzione diretta. Fontanella lascia che le cose lo aggrediscano interamente. La natura non gli porge soltanto dei suggerimenti. Ma viene avanti possente e gli offre il proprio volto, quello del Mostro inafferrabile / che mi preda la notte / e scompare al mattino.
Adesso le sue figure escono con forza drammatica dall’oscurità / puntuale e immutata della notte, dalla geografia sgarbata  e rapida e sporca / di questa città del futuro già morta,  da solchi di fango duro. La materia vivente è densa di emozioni. È già una processualità significante. Tutto è nell’angolazione di un’intenzionalità dominata. Fontanella, infatti, non ha mai voluto trasferire se stesso nell’abitazione delle cose. In esse, semmai, ha sostato più o meno lungamente. Per ricondurle poi nell’area del suo spirito.
L’idealità delle prime poesie – con la sua ricerca di altri modi d’amare – con il passare del tempo affonda le radici non più in sorgenti di cristallo, ma nelle acque profonde di un lago, circoscritto da angoscia, occultamento, morte: Ora raccolgono grida / squame di animali / morti vicino alla riva / ognuno si confonde sempre più con l’altro / nel respiro, laggiù. È la sintesi dell’esperienza comune, pazientemente sofferta e votata alla rinuncia. È l’ombra della disfatta, che si stende anche là dove l’uomo crede di aver innalzato un vessillo vittorioso: una grande bandiera senza segni e senza padroni.
Il definitivo e l’interrotto spiegano anche le contraddizioni in cui si dibatte l’uomo del nostro secolo. Razionalismo e irrazionalità si contendono il campo della vita. La violenza sembra aver murato tutte le speranze: “A ognuno il suo posto,” un ordine / perfetto e inutile. Ma / nessuno si salverà, / nessuno.
L’opera di Fontanella ci aiuta a stringere nella memoria, con maggiore consapevolezza, i grumi di luce e d’ombra che intorbidiscono le nostre giornate.
                                     Flavio Ermini

domenica 20 ottobre 2013

Jean-Luc Nancy “Corpo teatro” Cronopio, 2010


Come far coincidere corpo con mente? Già a partire dall’assunzione di un corpo, si è immersi nel mondo delle percezioni, dei punti di vista, delle prospettive personali. Corpo potrebbe addirittura coincidere con ciò che rappresento a me di me stesso: “un punto, cioè come un non-spazio situato proprio dietro lo spazio che si costruisce come la mia testa, la mia fronte, le mie spalle e tutto quello che c’è dietro, e da cui un corpo che percepisce e agisce sa di essere portato e proiettato”.  Corpo come teatro, palco su cui s’inscena quanto di più singolare e controverso si dia. Co-appartenenza di soggetto e mondo. Per Nancy, si tratta di “separare il più possibile l’ordine dell’esistere da quello del conoscere”. Teatro in quanto essere gettato, esistere, in opposizione a Heidegger, il quale non ne ha mai fatto cenno, nonostante la sua attenzione per Holderlin (traduttore di Sofocle e autore di tragedie). L’esistere ha luogo non solo agli occhi di se stessi, ma anche dell’altro (così come istituito da Levinas). La scena è il luogo in cui il soggetto viene alla presenza tramite “una rappresentazione, un ri-presentarsi”. E “in questo senso, un soggetto è un corpo”. Heidegger non arriva al corpo, poiché nonostante l’apertura, il soggetto è ancora un punto (“configurazione incorporea di un punto di proiezione”), è sempre e solo l’uno. E “partendo dall’uno” non si arriva mai all’altro, sebbene Heidegger abbia pensato l’altro come un esserci-con, esserci-con l’altro.

La stessa presenza è in ogni caso complessa e molteplice (‘esposizione’, ‘venuta’, ‘approccio’, ‘allontanamento’): è il presente che arriva presso, è un avvicinamento: “Il corpo è ciò che viene, si avvicina su una scena e il teatro è ciò che dà luogo all’avvicinarsi di un corpo”. Non si dà l’io senza il suo corpo e non si dà corpo senza distinzione e molteplicità. “I corpi non sono esposti per accidente, ma per essenza”. L’esteriorità è la condizione della compresenza dei corpi, e dramma e attesa sono loro consustanziali, afferma Nancy, seguendo Artuad. Vedere è anche esporsi allo stesso modo in cui le parti del corpo permettono di accostarsi all’anima. Aprendosi, sottraendosi, esponendosi, imponendosi, “il corpo intraprende un dramma che non ha niente di “personale” o di “soggettivo”, ma che è ogni volta la drammatizzazione singolare del suo modo singolare di spiccare in mezzo ad altri corpi”. Derivazione spinoziana rovesciata (anche se Nancy non nomina direttamente Spinoza), poiché se nel filosofo spagnolo la mente è concepita come idea dell’essenza di questo o di quel corpo umano, la separazione effettuata da Nancy rispetto al conoscere taglia i ponti tra corpo e idea.

Con un riferimento epicureo alla loro tensione primordiale, i corpi rappresentano anche l’incorporeo, cioè “la forza del loro rapporto”, “la logica della comparizione”: è proprio tramite queste spinte tra i vuoti delle loro esistenze, in questa casualità, che si genera il dramma “ e il vuoto assume la consistenza di un punto di raccolta del senso”. In questo fuori di sé che non si stacca dal dentro di sé è la presenza, il ruolo, la maschera, l’andatura, l’esibizione. “Ciò che conta è che a teatro il testo è in un corpo, è corpo”. La presenza è senso: “il corpo è un senso in atto”, ma un senso può aver luogo solo fra i corpi. “La parola che si rivolge a qualcuno è una parola corporea”. La presenza non è mai semplicemente data, “il corpo è esso stesso già presentazione: un corpo infatti non consiste semplicemente in un “essere” – quale che sia il significato che si voglia attribuire a questa parola”, poiché implica la compresenza, la distanza, l’interazione di altri corpi. Ciò annulla o trasforma il concetto d’intimità, poiché è esposta. E’ il mondo come teatro della tradizione a partire da Calderon e da Shakespeare. È teatro in quanto verità se “il corpo si rivela la verità dell’anima”, è verità che fa scena. “Il corpo-teatro precede tutti i culti” perché la teatralità “non è né religiosa né artistica”. È la condizione del corpo, per Nancy, la condizione del mondo, ove anche la parola ci sembra debba sottostare a quest’unico concetto: “che non appena c’è un mondo ci sono corpi che s’incontrano, si distanziano, si attirano” mostrando dietro di loro e attorno a loro la sola “notte incorporea della loro provenienza”.

                                                                     Rosa Pierno


domenica 13 ottobre 2013

Gabriella Drudi su “Buio e Blu”di Rosa Pierno, edizioni Anterem, 1993

Mi piace di Rosa Pierno il modo in cui vive la scrittura, “cosa in sé” che si configura e prende senso nell’atto dello scrivere. Grandi esempi nella letteratura di oltre un secolo ci insegnano come in una situazione creativa che parte da tale premessa l’oggetto della narrazione perda corpo, perda identità, si renda instabile, per non dire inattendibile, alluda o illuda di un racconto sganciato da ogni logica discorsiva, dove i “fatti” fluttuano in momenti temporali privi di consequenzialità, e relitti di eroi ed eroine agiscono secondo un impulso dettati da tic isterico o dalla catastrofe psicologica. Il mutamento del rapporto soggetto-oggetto-strumento è certo sintomo di una devianza nel desiderio dell’io narrante, giacché chiunque narra non narra che di sé. Vivere la scrittura come un’azione, un enunciare da cui si attende la replica che ti darà il tuo limite - sia conclusione sia definizione -  lo scenario verbale dove potrai intrometterti, i tempi della frase in cui riconoscerai il tuo tempo interno, significa andare verso l’ignoto, e per lo più fallire. Atto di mediazione la scrittura che tende a nominare non in presa diretta ma lasciando emergere l’esperienza profonda, quanto accadde nella psiche a confronto con il vissuto, è necessariamente un venire a patti con l’oscurità che portiamo in noi, che dal nostro patire e agire si è nutrita, e che rimane informe se non trova la parola. Di volta in volto inconcluso il desiderio di darsi un volto si riaccende, immotivato e sola umana speranza. Che non abbandona. Perché la parola, vicinissima alla verità, vicinissima alla menzogna, è formularsi del nostro essere la mondo.

Se nessuna circostanza di fatto è solo ciò che è ma indizio di un dato interiore, ecco che l’ansia dell’oggetto si dimostra indizio di inconsistenza dell’interiore stesso. L’oggetto annientato annienta l’identità dell’individuo. La scrittura muoverà allora da una rinuncia fondamentale  e andrà seguendo altre logiche - foniche, allegoriche, retoriche, strutturali.

Perché non concepire come opera d’arte l’esecuzione di un’opera d’arte? Scriveva più o meno Valéry. E perché non travisare Valéry? Muovendo dalla situazione creativa cui accennavo, Rosa Pierno percepisce l’ontologico come ombra incongrua, da decifrare, contaminarsi di cellule del reale, che tuttavia testimoniano dell’esistenza di uno sguardo, di un soggettività in grado di accostarsi, osservare, intervenire persino – tramite la scrittura. Emerge da queste pagine una individualità in stato d’assedio. Ma è proprio attraverso l’indagine sull’assediante, sui suoi trucchi, i suoi mancamenti, che a tratti, per schiarite,ripensamenti, improvvise sortite, si formula un’identità soggettiva. Si tratta, fatalmente, di individualità neutra, più che dilagante, una sorta di campione umano embrionale se non traumatizzato dalla nascita. Il suo rapporto con le cose, aggressione e dipendenza insieme, mostra qualche inattesa affinità con le contaminazioni figurali di Francis Bacon.

Seguendo ossessivamente il visibile nel suo comporsi e decomporsi Rosa Pierno arriva a demistificare l’annientamento dell’io narrante. Queste prose si danno una maschera, ed è la maschera della descrizione. Uno sguardo segue ciò che vede. Chi guarda? Poco importa. Si direbbe una ripresa dell’école du régard. Se ogni cronaca è falsa, ogni visionarietà illusoria, ogni fantasia arbitraria, non resta che tornare alla percezione prima del mondo esterno: affidarsi allo sguardo. L’uso quasi costante del verbo al presente sembra accreditare l’influenza di quella scuola. Ma la realtà ontologica di Rosa Pierno è già mediata, già rappresentazione. Sì, incomincia umilmente, seguendo lo sguardo, anonimo, che muove da cosa a cosa, ma le cose di cui si parla sono disegni, dipinti, paesaggi visti in cartolina, se non raffigurati da un artista naif. E poi sculture, madonne e santi, nature morte di conchiglie e bicchieri. Con tale deposito di relitti si delimita la messa in scena del racconto, e si conclude il prologo, come in attesa che si facciano vive le dramatis personae.

Cose sotto osservazione. E però si dubita che siano questi i protagonisti del dramma. Il descrivere non è mai puntuale, anzi spesso soggetto a colpi di mano ingiustificabili in tanta presunta calma e indifferenza, nell’assenza di un io centrato, o che, anche di sbieco, voglia esprimersi. Inopinatamente riflessioni incongrue, spezzoni di frasi che riaffiorano da memorie letterarie, gesti automatici, di sovente traversati da oscura violenza, lasciano intravedere un’immagine informe, modulata dall’ombra. Immagine? Di chi? Mister Hide? Come rispondere? Direi che per Rosa Pierno la modalità del visibile non è affatto ineluttabile. D’altronde la pagina , la stessa frase viene ripetutamente sottoposta a traumi non trascurabili.

Il materiale ontologico a cui Rosa Pierno si affida è materiale di secondo grado. Si direbbe che speri di trarne  - non so. Ombra, fantasma, larva dell’esistere? All’inizio Rosa Pierno compita il suo oggetto, lo descrive con una sorta di devozione coatta. Se non passività. Quasi non sapesse che cosa sta facendo. Quasi copiasse le aste della scrittura del suo oggetto.

Certo in Rosa Pierno il desiderio di narrare è irrinunciabile. Se pure consapevole dell’assurdità dell’ipotesi lo vive quale affermarsi di un’identità. Identità soggettiva. Dando per scontato che narrare è il compiersi di una frase , la rinuncia a una logica discorsiva  in favore di ritmi, cromatismi verbali, citazioni, manie ecolaliche, Rosa Pierno sperimenta la prosa come un artista brut, la voce dell’incognito, voce umana, più complicata, se volete, meno limpida di quella di altri animali, ma comunque voce, inaudibile ai sordi, sottofondo forse, ma comunque partecipe di quell’intrico scarsamente visibile, solo a tratti tangibile, che in crisi di modestia chiamiamo natura  e pomposamente il nostro universo.

Descrivere fuori da una ragionevole struttura spaziale , narrare al di là della convenzione temporale e interrompere questo quieto tracciato con frasi incongrue, allusive persino, significa far trapelare un io informe , dai lineamenti sfatti, ma non impossibile, non irraggiungibile. Miserabile nascita, insensato miracolo. E tuttavia Rosa Pierno ostinatamente lo annota. Pagina dopo pagina tratteggia il suo insopprimibile autoritratto.

                                                                                          Gabriella Drudi     

mercoledì 9 ottobre 2013

Marco Furia su "Preludio e corrente per Antoni" di Gilberto Isella

Nella parte, il tutto



 
“Preludio e corrente per Antoni”, di Gilberto Isella, è vivida raccolta di versi preceduta da un proemio in prosa dalle cui parole iniziali
“Non terminerò la Sagrada Familia”
il lettore comprende di avere tra le mani un volumetto che s’ispira all’opera di Gaudì.
Proemio concluso dalla frase:
“Nessuno terminerà la Sagrada”.
Ci si trova, insomma, al cospetto di un’esplicita dichiarazione d’incompiutezza proiettata in un futuro eterno, privo di limiti.
Nella successiva trama poetica, vera e propria raffinata “corrente” di parole, Isella illumina singoli, anche minimi, aspetti di un complesso organismo linguistico, mostrando piena consapevolezza del valore del particolare.
Pronunce quali
“sassolino rovesciato dalla scarpa”
e
“il balletto di carrucole”
mostrano in maniera chiara come l’attenzione nei confronti di tratti specifici rivesta importanza per il poeta.
Simile atteggiamento, tuttavia, non sarebbe fecondo se i lineamenti verbali del Nostro non sviluppassero intense valenze evocative, radicate, per così dire, nella persistenza delle immagini.
Cito, a questo proposito, i versi
“con materie dell’aria
si fonde
l’aria stessa maceria
filtrante e filtrata, boccascena d’inedia”
e il verso
“su polpastrelli schitarra il nulla”.
Il dettato presenta non comuni qualità espressive: la lingua è precisa, sicura, e, nella sua vivacità, è sempre attinente a un intreccio nel cui àmbito si susseguono affascinanti visioni.
Leggo, per esempio, a pagina 39
“dal fumo piallato
sonno d’onnipotenza”
e, a pagina 44
“con enormi viti di materia cerebrale
saldare il tutto”.
Il frammento poetico di Gilberto, richiamando con allusiva efficacia la totalità di cui è parte, pone in essere un racconto.
Il lettore, anche in virtù delle raffinate inquietudini figurative di Loredana Müller Donadini, s’inoltra in un itinerario ricco d’intervalli, tali da indurre a riflessiva sosta dopo ogni componimento.
Di più, a un fecondo indugio su ogni verso, su ogni parola, come per aderire a un ineludibile desiderio di pausa provato dall’autore e proposto, con coinvolgente immediatezza, a chi legge.
La poesia – spesso sento dire – porta lontano: nel caso della raccolta in esame, la distanza è anche prossimità.
Se tutto esiste, il dettaglio non gli è estraneo.
E il dettaglio è proprio ciò che abbiamo sotto gli occhi.
Forse il celebre architetto spagnolo, con la sua incompiuta Sagrada Familia, intendeva richiamare l’attenzione appunto su siffatta circostanza visiva.
In ogni modo, la lettura della silloge ci insegna a guardare in maniera più penetrante, ossia a cogliere nel particolare le molteplici e suggestive tracce di una storia non altrimenti narrabile.
La poesia, in questo caso, lungi dal costituire mera rappresentazione, è non saltuaria presenza di un perspicace modo di osservare che – ci accorgiamo – arricchisce la consapevolezza del nostro sguardo.
Gaudì, certamente, avrebbe apprezzato molto “Preludio e corrente per Antoni”.

                                                                                                      Marco Furia


Gilberto Isella, “Preludio e corrente per Antoni”, Salvioni Edizioni, 2012, pp. 53, euro 15,00




venerdì 4 ottobre 2013

Flavio Ermini "L'abitazione dell'uomo". Riflessioni sul libro di Fernando Bandini

Ecco l’abitazione dell’uomo. Si eleva dietro i cancelli, in un presente invaso dallo sgomento – “adesso il mondo non è più remoto. / Sta tutto adosso a noi, / tutto pigiato nelle / stanze sgomente” –, e ha le fondamenta altrove, in un passato che non dà scampo: “Ti ha sbigottito la scoperta della / vasta senza conforto orfanezza del mondo?”.

L’abitazione dell’uomo si trova proprio davanti a noi, ci segnala Fernando Bandini. Eccola qui, tra un presente, dove non si possono imparare che “le lingue della notte”, e un passato da cui non ci giungono che risposte tardive: “Il titolo del libro Penny Wirton / e sua madre, l’autore Silvio D’Arzo”.

 “Quante cose / e parole che non ci sono più”, osserva Bandini. Ma, anche se ormai sono sepolte nel sottosuolo del tempo, il poeta non rinuncia alla nominazione, e nel nominare non desiste dall’attingere parole che sappiano ancora porsi in stretta relazione con i princìpi su cui si fonda l’essere umano.
Nel farlo, il poeta infonde alla materia verbale una leggerezza estrema. È come se all’attrito di un passo sapesse ogni volta sostituire la linea filante di un volo; è come se la parola toccata dalle sue mani improvvisamente si svuotasse di ogni gravosità.
La caduta di questa resistenza conferisce luminosità all’abitazione dell’uomo. La rende aerea, fin quasi invisibile – e insieme la impone al nostro sguardo.

La tensione poetica verso l’inconoscibile e l’incomunicabile è eletta a momento positivo dell’esistenza, da contrapporre all’intento di colonizzare la mente che è assimilabile al linguaggio della cronaca, del disamore: vera e propria violazione dello spazio altrui.

Al “caccia / che fa le acrobazie / e scrive Dux nel cielo” come non preferire “l’orlo di una remota proda / stellare”? Tanto che arriva puntuale a questo proposito la precisazione: “Noi eravamo in fuga / verso l’azzurro soprannaturale / di un’altra storia”.

Tra passato e presente non vi è una sostanziale differenza. Il dolore li accomuna, rendendo uniforme quella moltitudine di soggettività che ci abita.

Ecco l’abitazione dell’uomo. Qui, in queste stanze, è forte il richiamo a radicarsi nella vicinanza dell’essere, dov’è consentito all’uomo di ritrovare la propria essenza, e farsi di nuovo custode della verità.
Ma produrre l’abitare è concepibile solo se l’abitare è originariamente connesso al costruire.

Lo spazio abbracciato da Bandini diventa quasi sempre un omaggio in nero all’uomo. Un innalzamento e una diminuzione. Un richiamo alla responsabilizzazione (“Perché ti affanni / a correre? C’è il vuoto alle tue spalle, / i fantasmi di Aznèciv non t’inseguono più!”) e una voce screditante (“sei troppo vecchio, troppo rassegnato / alla tua sorte”). Nell’articolarsi delle sue forme, questo atteggiamento ossimorico assume il tono amaro della malinconia.

L’uomo del nostro tempo, quale insieme di particolazioni eterogenee, trova il suo fedele ritratto in queste poesie, dove non cessa di manifestarsi il senso di un totale relativismo che rende ogni prospettiva incerta e deludente.
“Molte case ho abitato insieme agli angeli” registra Bandini. E, anche se poi in apparenza “gli angeli sono scomparsi”, è pur vero che un suono, non ancora la parola, rivela che di angeli “ne è rimasto qualcuno: si sente / da un breve tintinnio di vetri il suo librarsi / mattutino nell’ombra che si sfalda”. Un gesto. Ma è un gesto che ci parla di vertigini: “lo sentii vicino: / invisibile e muto davanti all’abbaino / parava con le ali la vertigine / dei miei sensi, il mio orrore di cadere”.
È un gesto che ci induce a liberare la narrazione poetica da ancoraggi da terra. E farla salire nel cielo di una realtà seconda, nella quale l’uomo possa vivere rivelando la sua natura di essere non confinabile nei limiti dell’apparenza.

Nell’abitazione dell’uomo si possono cogliere i contrassegni più evidenti della nostra essenza – disparati, inconciliabili, esplodenti –, tradotti in una vibrante tensione.

Lo spazio occupato da queste stanze, inclini più alla negazione che alla positività, è quello dell’approccio e della repulsione, della comunicabilità e dello scontro, della coerenza e della contraddizione.
In questo modo Bandini rende visibile la natura di un mondo in bilico fra compattezza e fatiscenza. Ecco perché i gesti dei suoi angeli sopravvissuti ci parlano di pianure verdi e, insieme, di “mattini di macerie”.

Nello spazio abbracciato da Bandini l’uomo perde il suo involucro, per mostrarsi nella trasparenza della sua verità interiore. Non è più diretto necessariamente da qualche parte, non ha più mete da raggiungere, ma non per questo è finalmente libero di realizzare la responsabilità delle sue storie.
Fugge da se stesso, per ritrovarsi in un luogo che fa appello all’occhio della nostra sensibilità.

Questo luogo si chiama poesia: poesia che racconta storie di pensiero, dove il battito cardiaco s’intreccia al ritmo che sostiene l’universo, alla catena delle nascite e delle rinascite; poesia che produce una specie di varco che apre verso “l’infinità dei luoghi del non-dove”; poesia dove la riflessione sul fare diventa riflessione sull’essere: quando entra in causa l’uomo che si fa lingua dichiarando la volontà di non piegarsi allo spirito del tempo: “Io sto ai margini e l’evo non m’inghiotte / nel suo avido imbuto”.



Fernando Bandini, Dietro i cancelli e altrove, Garzanti, Milano 2007