Nel 1821, John Constable dipinse “Il carro di fieno”.
Sotto un cielo a tratti imbronciato, un carro attraversa una pozza irrigatoria posta accanto a due case rurali immerse nel verde.
Lo sguardo cade, innanzi tutto, sul carro che, assieme al fieno, trasporta due contadini e, subito dopo, sui due piccoli edifici illuminati da una fluida luce.
Ho detto “fluida”, perché, in effetti, la luminosità del quadro presenta un aspetto che mi piacerebbe definire liquido.
Acqua e luce sembrano fondersi fino a costituire un nuovo elemento, quasi la mano del pittore avesse creato un’entità prima inesistente.
Tutto tace: non avvertiamo il rumore provocato dalle grosse ruote e dagli zoccoli dei cavalli, né le parole pronunciate dai contadini, poiché la nostra attenzione è concentrata sui riverberi luminosi.
Non ci meraviglia il fatto che Constable fosse solito eseguire provvisori tratteggi all’aperto al fine di catturare taluni riflessi: anzi, saremmo colti da stupore se ci raccontassero che “Il carro del fieno” fu interamente dipinto all’interno dell’atelier senza l’ausilio di schizzi tracciati all’aria aperta.
La materia della pittura è la luce e l’artista va a cercarla nello spazio e nel tempo in cui essa si trova.
Sì, certo, anche nel tempo, poiché la luminosità, che, ovviamente, ignora orologi e cronometri, è anche fulgida storia di se stessa e il suo attimo, pur restando tale, può essere molto durevole.
Il pittore è sensibile al fascino di quell’oltre da cui traggono origine certi modelli, ma che, in sé, è privo di qualsiasi schema.
Conscio dei propri umani limiti, il Nostro si avvicina il più possibile a una persistenza ineffabile di cui non può offrire alcuna rappresentazione: il suo pennello traccia segni che, nel loro stesso mostrarsi, pongono dei limiti al mondo.
Occorre, forse, votarsi all’inattività contemplativa?
No, non è necessario, come il quadro in esame dimostra.
L’arte, insomma, è il segno che prende atto dell’esistenza di un non rappresentabile quid al quale può soltanto alludere.
Così, in quest’opera, spazio, tempo, liquido, solido, chiaro, scuro, umano, animale, vegetale, eccetera, ci sono, ma richiamano àmbiti in cui quei tratti non ci sono ancora.
La nostra esistenza è intrisa del nostro modo di vedere e non possiamo separare l’una dall’altro: tuttavia è possibile, per esempio, riconoscere nel suono il silenzio, nel movimento la stasi e, di più, è possibile creare accostamenti diversi, dipingendo, come fece Constable, un’acqua che è luce (e viceversa).
Riconosciamo in quella pianura una coltivata porzione di superficie terrestre, immaginiamo, senza incontrare difficoltà, quale potrebbe essere la meta di quel carro, ci rappresentiamo gli interni di quelle case e i loro abitanti, non ci sentiamo estranei al vigile atteggiamento di quel cane che presidia il suo territorio: tutto ci sembra familiare, eppure avvertiamo la presenza di qualcosa che non c’è.
Qualcosa che la liquida luce del dipinto suggerisce, illuminando perfino noi, esterni al dipinto medesimo.
Osservare un’opera d’arte è anche guardare attentamente noi stessi e scoprire l’esistenza di un enigma esteriore quanto interiore.
È, davvero, avvicinarci alla nostra vita, riuscendo, se non proprio a toccarla, a comprenderla meglio.
Marco Furia