sabato 23 maggio 2020

Giorgio Bonacini “I segni e la polvere. 52 poesie distrattamente felici” Premio Arcipelago Itaca – 5^ Edizione, 2020




La perfezione non è di questo mondo. Dobbiamo confrontarci con la nostra forma umana, con i nostri limiti. Ma quel che potrebbe essere ambientato in uno scenario  postumo alla cacciata dal paradiso, forse è da trasporsi in ambito prevalentemente culturale, in un teatro che assume connotazioni plurime, dove il canto dalla terra è già canto mahleriano. Ma è anche canto strutturalmente insito nel tessuto poetico, con le rime (guerra/terra/afferra) che intessono fili di autonoma significazione, istituendo un testo all’interno di quello principale e disponendosi in posizioni ogni volta differente, in uno schema iterativo vario. Proprio la rima istituisce il doppio fondo di ogni elemento: ad esempio ristagna/cuccagna, scivoloso/amoroso, fioraia/pietraia, buddista/ nichilista, bagliore/vapore. Nessuna cosa riposa su se stessa ma si avvita nel torbido, solleva fango, da che leggiadra era.
Alla doppia chiave di lettura, che il testo istituisce anche tramite l’incantamento sonoro, è da far risalire quel sorriso freddo, guizzo cinico che diaccia la pelle, derivante da una consapevolezza non deponibile.
Lucida è la torsione con cui si passa dal mero dato fisico alla meraviglia della creazione culturale, per poi ricadere nel disordine dell’equivalenza segnica.


Umida allora
di liquide siepi
non è la distanza
né il muoversi 
troppo che assorbe 
nel ritmo 
un tamburo di guerra
ma ninnoli e note
nel canto alla terra
che ha perso
il teatro
e per te lo riafferra


La tensione fra ciò che si ascolta e ciò che si osserva è centrale. Parrebbe  l’umano venire travolto dalla cascata di percezioni che riceve. Pur anche dagli schermi tecnologici arriva il frastuono che asseconda la volontà di perdersi. Il paradiso appare come di seconda mano, tutto sfavillii e vetrini luccicanti, sbornia che satura e rende satolli. E dentro questa vorticosa congerie di stimoli visivi e sonori, si scorge l’essere umano ridotto a figurina.





La risposta
che addolcisce
e non scolora
ebbra
libera e ciarliera
più fruttifera 
l’ampiezza della voce
fa da gnomo                                           
innomine nel vero
e si appassiona
al finto niente
al quasi uomo


Con la trasmissione del senso di disorientamento, l’incapacità di leggere i segni, pur se affascinanti e scintillanti, con le sonorità colorate che fanno scivolare le strofe verso un fondo più aspro, la silloge precisa la propria ossatura attraverso il lessico preso in prestito da vari ambiti o, meglio, indagando le varie sfere dello scibile, dove non si riesce a trovare un filo comune per le numerose paratie stagne dei metodi conoscitivi. In un frastuono che somiglia alle bolge infernali, l’uomo si trova a essere non più artefice e creatore del proprio destino, bensì un soccombente che sprofonda sotto i colpi delle proprie creazioni.

Giorgio Bonacini passa al vaglio l’ambito artistico col suo reggimento di chiaroscuri; verifica il portato dell’osservazione naturale, ove persino le creature più semplici, ragni, lombrichi, mosche appaiono incombenti; confronta il campo religioso e filosofico con i termini che si oppongono in una guerra il cui il solo scopo pare l’eliminazione dell’avversario. Ed è certo la parola la prima colpevole, essa attraversa tutti gli ambiti conoscitivi e sembra avere da dire qualcosa in tutte le situazioni. Pur anche nel dolore inconsolabile, sembra avere la protervia di voler esprimere un senso a tutti i costi.

Qui si può dire di tutto
se basta un rifugio
un asilo
un’età sottovoce
a far strazio di noi
senza indugio
o  pensare
a un’astuzia precoce
che spazza i dolori
con tanti saluti
duemila alfabeti
e una mano         

L’inganno è ovunque: “un istrione fraudolento” ha forse costruito il labirinto dello spaesamento, della perdita di riferimenti certi, della terra labirintica. Quasi un contrappasso che a ogni avanzamento faccia contemporaneamente retrocedere, che a ogni azione faccia conseguire il suo risvolto negativo.

Sebbene ampie chiazze di cielo sereno, a volte, rammentino che cose splendide accompagnano la nostra esistenza; che basta guardarle, per trarne beneficio, anche se non si sa come collocarle nel sistema generale. Coloisce che finanche una vita ridotta al puro dato esistenziale, fatta di piccole percezioni e di frugale consumo, divenga, rispetto alla pagina con la quale il poeta si rapporta, il vero specchio di una non abbattile propulsione alla parola. E non è d’altronde, questa, una poesia di ridotti, minimali termini: “e mi spengo/e intrattengo pensieri/con l’aria che pare non sia /quella pagina in cui /come sai mi contengo”.

La propensione poetica, pur espletata con rigorosa disciplina, utilizzata come strumento per diradare il caos, far chiarezza nella confusione, setacciando ciò che è spurio rispetto al puro,  è forse anch’essa una chimera? Eppure, uno spiraglio si palesa: all’artificio si può opporre la rete sottile di apparenze percettive, diafane, larvali consistenze, trine e brine da cui dedurre un sostrato meno fermo, eppure altrettanto consistente per la ricerca che raccoglie pagliuzze d’oro, qualcosa intorno alle quali si possa disporre la pagina così come pure la propria esistenza. Tuttavia, la risposta conclusiva non sembra benevola, perché intanto Bonacini ha  condotto un’aspra, serratissima critica alla sua postura umana, ricavando forse una misura tra la sua attitudine osservativa, la sua inclinazione alle cose prive di apparente importanza e la sua visione finale. Ma, la nostra considerazione del viaggio che queste cinquantadue poesie assemblano è quella di un poema che vale come indagine su di sé e sul cosmo e del fatto che dalla loro finita intersezione si aprano spiragli gravidi di nuovi avvii, privi di illusioni.

                                                                                                        Rosa Pierno


                               

                                      

venerdì 8 maggio 2020

Laura Caccia su “Il contorno dell’ombra” di Rosa Pierno, Oèdipus editore, 2020




Un baratro, certo. Quello che un artista o un poeta, nella tensione che ne alimenta l’opera, continua ad affrontare, a scavare. Con il gesto. Con la parola. Nel confronto tra visione e invisibilità, sguardo ed enigma, corpo e desiderio. Quando il gesto e il linguaggio sono impregnati della stessa frattura che una diversità radicale rispetto alle forme espressive e comunicative ordinarie pretende dal pensiero, dal tratto, dal dire. L’esodo dal senso apparente. Il ritrarsi da sé. L’esporsi a una visione sconosciuta, a una parola altra. 

Quello che però Rosa Pierno dichiara, fin dalla premessa, è la condizione di chi vive la frattura non solo come dirompente tratto comune alle due forme espressive, ma soprattutto quale inevitabile abisso che, tra le personali esperienze, poetica e artistica, ne spalanca gli arrischiati passaggi. Mettendo in luce “il baratro tra lo scrivere e il figurare”, sottolineando “lo iato, i regni senza ponte” del suo operare. Un muoversi continuo, spostandosi dall’una all’altra forma, che tra di loro mantengono in equilibrio la comune ricerca, linguistica ed espressiva, ma che lasciano l’autrice costantemente in posizione precaria su una voragine. Come un funambolo su un filo teso su un precipizio, tra opposte sponde. Da una parte il dire, con il suo profondo di parola e pensiero. Dall’altra il gesto, con il suo intenso di materia e visione. 

Cosa comporta passare dall’una all’altra sponda in modo da portare con sé tutto il sommerso, tutto l’oltre, tutto il perturbante che il pensiero sul visibile e sull’invisibile, da un lato, e lo sguardo sul naturale e sull’artificio, dall’altro, richiedono per farsi autentico procedere nello scrivere e nel figurare? Quello che appare pacificato nel lavoro critico che l’autrice porta avanti con passione, muovendosi in un territorio condiviso di ricerca e di esperienza di forme e linguaggi altri, nella presentazione di mostre d’arte e di pubblicazioni poetiche contemporanee, qui dichiara le sue lacerazioni. Il contorno dell’ombra mostra la scelta arrischiata di attraversare ogni volta il dirupo, “un andare e venire senza remissione”, tra partiture linguistiche e campiture di linee e colori che pure condividono la stessa tensione, lo stesso desiderio, lo stesso destino.

L’opera si muove tra pieni e vuoti, luci e ombre, visibile e invisibile, materiale e immateriale. Con una scrittura ricercata, dove la parola a tratti si distende come campitura di colore obliante di sé, a tratti incide come linea graffiante, a tratti ancora si inabissa come ombreggiatura e mistero. In un contesto dove l’artificio domina la scena quale mezzo per ottenere immagini e visioni che vengono occultate dall’aspetto visibile delle cose. “In un continuo scambio tra pieni e vuoti, tra volumi e piani, non è di poco peso l'artificio che ivi si attua”, dichiara Rosa Pierno. Quell’artificio che dà titolo a un lavoro precedente dell’autrice. Che crea fisicamente, e non solo mentalmente, la cosa che nomina. E che, nella raccolta, costituisce l’azione sottostante ai temi che si confrontano ripetutamente nel corso dell’opera: gli oggetti e la loro disposizione miranti a dispiegare un’inedita visione del reale, il gesto e il tratto intenti a modificare il visibile, il corpo e il desiderio mossi ad assediare le immagini, il pensiero e la parola tesi a sporgersi sull’oltre. Attraverso movimenti, in parte messi in atto, in parte lasciati accadere, colmi di inquietudine e di perturbanza: inseguire il contorno dell’ombra e l’enigma che porta con sé, dare forma al vuoto e all’assenza, approssimarsi all’invisibile e creare nuovi mondi, a partire da una diversa, sconcertante visione.

L’artificio che sostiene la sistemazione degli oggetti nella ricerca di una percezione ulteriore agisce come chiave dissonante per farne, e disfarne, immagini e parole. Gli oggetti scelti, tra gli altri panni, ciotole, vasi, bottiglie, pomi, conchiglie, biglie di vetro, fossili, raccontano di un’età arcaica, dell’infanzia dell’autrice, di ritrovamenti casuali, di “forme nascenti e forme in disfacimento”. La scelta della disposizione degli oggetti, nelle nature morte e nelle composizioni oggettuali, da Caravaggio a Cézanne, da Picasso a Braque, da Morandi a Carrà per citare solo alcuni degli innumerevoli artisti che ne hanno fatto molteplice espressione, è parte affascinante della storia dell’arte. Qui gli oggetti, nel loro assemblaggio casuale, diventano comparse in uno scenario incongruo e straniante, dove “recitano una parte impropria, si muovono quando dovrebbero restare in posa e tendono a irrigidirsi se insediati dall’oscurità”. Dove quanto appare “si manifesta a chiazze, a zolle, a morsi”, immerso senza legami in un contesto frantumato e suturato, dove nessuna cosa somiglia a se stessa, molti oggetti sono nascosti, altri sembrano appartenere a un altro mondo. Dove i contorni non coincidono con la forma delle cose. E dove, alla fine dell’opera, sarebbe potuto succedere che un vaso “non sapesse quale profilo scegliere”.

Ed ecco allora il gesto che traccia linee e stende i toni. Non solo per soddisfare il bisogno di dare a forma a un cosmo disgregato, poiché “Mondi conclusi esistono solo sul foglio”, così come il desiderio di entrare il relazione con gli oggetti, quando non si ha “altro modo di possedere tazzine e piattini, forchette e bicchieri, collane e pietre, limoni e teiere che disegnarli”, ma anche per mettere a fuoco tutto quello che la visione e l’artificio creato mettono a rischio nel rapporto con le forme del reale. “Il contorno crea scompiglio, anziché suggellare, con morbida mano d’amante”, scrive l’autrice. E, da qui, il gesto si muove seguendo le crepe, creandone a sua volta, imbastendo cuciture, “creando un ponte che instauri almeno un guado, una possibile intersezione”, lasciandovi comunque sfregi e cicatrici. A volte il tratto è “delicatissimo, come uno sguardo che si esima persino dal carezzare”, altre volte, con il colore, “strìa, erode, sdrucciola, scava”, spandendosi oltre i margini, ambiguo e dissonante. Assecondando soprattutto l’artificio che la visione e insieme il gesto della mano testimoniano, quella “sproporzione esistente nell’animo umano, che dalla natura trae un concetto artificiale”, mettendo fuori scena il sé e il pensiero razionale, abbandonandosi al gesto: “Non scrivo di me, disegnando. Colorando non afferro concetti. Meno il tempo per l’aia, ramazzo le foglie, riordino e sistemo. Il mondo, così come dovrebbe essere.”

Il corpo, però, non dà tregua. Così il desiderio. “Pensare un’immagine è avere un desiderio nella mano”: nel passaggio continuo dal corpo al foglio e viceversa. E così il lavoro si fa ininterrotto, necessita di continui reinizi, di ripetizioni del gesto, del tratto, del dire. Le cose stesse paiono rinnovare la loro nascita nell’uscita dall’indefinito originario, nature morte e vive che abitano “nella memoria e nella fantasia, assediate da una brama senza fondo. Raggiunto che abbiano un supporto, si fossilizzano, strappate per sempre all’indistinto”. Così il corpo. Nel suo stretto rapporto con il supporto cartaceo, con cui condivide ripiegature, strappi, rianimazioni: “Il disegno tenta la forma di quel che gli sovviene senza conoscerne che il desiderio. Poi, sulla carta, l’afferra e la finisce”. E il corpo e il foglio si richiamano l’un l’altro, si intrecciano in una danza aggrovigliata, si arrischiano in una navigazione pericolosa e sofferta: “Un io emerge sempre tra i flutti e sempre, nuovamente, alla vista scompare”. Sulla carta il corpo si inabissa, soppresso, estinto, portando la scena ad un’estraneità che appare persino tale a chi la disegna, e insieme riemerge, infranto e tuttavia in cerca del suo intero: “Quando tratteggi e corpo avranno la medesima consistenza, il disegno sarà terminato”. Dopo averne stanato memorie e desideri, tra secche e infossature, “alcune parti della figura, al fine, galleggiano nuovamente sulla carta, ricomponendone l’unità. L’ideale corpo.”

La mente che sostiene l’artificio messo in atto, alternandosi ai momenti di abbandono, parte dalla scelta di guardare il reale per andare oltre, per mettere in dubbio la visione, per scardinare il visibile. Con pensieri altalenanti: “I pensieri plumbei, gettati alla rinfusa o ordinati e impilati; i pensieri vaghi e incerti che arpionano il cielo e sono privi di concetto; i pensieri che al reale ritornano solo per meglio distogliersene”. Il visibile, con cui la mente si confronta, necessita di essere dissolto, smascherato, sia attraverso azioni di dispersione della concentrazione, per cui la “realtà diviene un coacervo, un grumo indissolto, un rebus irrisolto”, sia attraverso pensieri e gesti volti a creare la visione di un altro, più armonioso e integro cosmo: “L’artista osserva la natura e la emenda con la linea e il colore. Ha in mente un esempio superiore di armonia, un mondo che solo sulla carta appare coeso”. Anche in questo caso, come per il corpo, da riportare a unione. Nello stesso modo la parola cerca la sua unità originaria. Qui, tra le pieghe di un paesaggio insonoro, tutto gesto e visione, corpo e tensione, tra le aperture e le brecce, nei “passaggi mai abbandonati tra vocaboli e colori.”.

Quello che impregna di altro da sé questo paesaggio in cerca di coesione e unità è innanzitutto l’ombra che “vi è elargita come enigma da decifrare”. L’ombra che ha sostanza propria, che si muove in libertà tra gli oggetti. L’ombra che costituisce l’essenza delle cose, che ne garantisce l’esistere: “I volumi ricompaiono asserendo che un’ombra l’hanno ancora. È il rimasuglio della loro volontà di esistere. Un limone è forma e ombra insieme”. L’ombra che nel tratto assedia la materia, che alla fine vi coincide. L’ombra che consente di disegnare le cose non presenti. L’ombra che sulla carta risucchia l’io. Così l’assenza e il vuoto prendono posto sulla scena. Anche il vuoto ha materia sua propria, “è un oggetto a cui repelle il colore” e chiede cura: “Rende felice la decisione di portare la matita sul campo aperto, di vedersela con un segno, il quale impegna il sé in un vuoto ulteriore”. Così come l’inesistenza delle cose, da evidenziare con l’ombra che separa i molteplici contorni di ogni cosa e a cui dare “la massima enfasi, addirittura mettendola al centro della visione. Non si tratta che di dare a bere l’invisibile”. E la parola, mentre parla delle cose del mondo, non parla di questo mondo. Le stesse cose, come le conchiglie, non sembrano appartenere al visibile. E il disegno compone opere infinite “più di quelle che compie la natura” e alla fine si invola “per gli aperti campi, invade e allaga. È un cosmo in rivolta, che soppianta il noto con l’ignoto”.

Questo portare alla ribalta ciò che l’apparire occulta, questo esporre e insieme esporsi nell’aperto della scena, non avviene in modo semplice e indolore. È un infinito ritrarsi, in cui “ne va dell’apparenza del visibile”. Un ritrarsi del reale e dal reale. Della scrittura e dalla scrittura. Di sé e da sé. Dell’altro e dall’altro. Nel tratto e nel ri-tratto. Nell’ambivalenza del ri-trarsi, nel trarsi indietro e insieme raffigurarsi. Quel ritrarsi che, in tale senso, è stato oggetto di riflessione sulla parola e sulla visione, sul linguaggio e sul ritratto, da parte, in particolare, di J.Derrida e J-L. Nancy. E, nello stesso tempo, un estrarsi. Trarsi fuori da sé. Fuori dalla realtà visibile. Fuori dal disegno: “esco dal quadro, non voglio ridurmi a cosa”. In un agire in cui convivono infinite possibilità e infiniti rischi, bellezza e minaccia, artificio e pericolo, Rosa Pierno ci mostra, ancora con un’opposizione, i due aspetti che, nel suo operare, convivono e insieme ne lacerano il fare: l’abbandono al gesto che traccia la scena e insieme le minacce di sopravvento da parte del fondale, la fiducia nel proprio tratto che crea nuove visioni e nello stesso tempo la soppressione sulla carta di sé, la ricerca continua di armonia e la sfida che dissonanze e disarmonie le pongono di fronte. Da un lato “le ore spese a disegnare saranno quelle della giusta comprensione, del valore esatto delle cose, quelle dell’equilibrio totale, della perdita piena, del segno inutile, del segno felice”. Dall’altro: “Disegnare è farsi depredare, qualcosa che non si può sostenere, se non nel modo naturale in cui lo si fa, velocemente, senza riflettere, né valutare; senza impegno”. 

Quello stesso scrivere di opposti, rintracciabile in molte opere dell’autrice. E, qui, lo stesso continuo muovere in opposizione le quinte della scena, tra primi piani e fondali, oggetti e sfondi, nel teatro delle cose e delle ombre. Così come lo stesso incessante spostare lo sguardo, il gesto, la parola tra il noto e l’ignoto, il visibile e l’invisibile, il materico e l’immaterico, il corporeo e l’incorporeo. Come se solo attraverso i contrasti fosse possibile fessurare lo schermo del visibile. Come se solo a partire dagli opposti fosse concepibile spalancare parole e sguardi nuovi. Cercando la coesione oltre il mondo frantumato. Così come l’unità originaria, dispersa nella molteplicità delle forme dell’apparire. Il baratro, indicato in premessa, tra lo scrivere e il figurare si mostra allora quale loro necessario rispecchiarsi sul crinale della frattura che parola e gesto in tensione verso l’oltre hanno provocato nel reale. Nell’invenzione di una lingua e di una visione in grado di lacerare l’apparenza delle cose, in una tensione a mondi altri da far esistere mentre si disegnano, da creare mentre si nominano. A partire da una profonda spaccatura che, nel movimento tra gesto e linguaggio, e viceversa, consenta di non dimenticare l’abisso che occorre varcare per portare il nome a visione, lo sguardo a parola. Una frattura che richiede allo sforzo poetico e creativo di continuare ad attraversarne il dirupo, in bilico tra bellezze e  perturbanze. A salvaguardarne l’enigma. A guadarne il respiro.

                                                                     Laura Caccia