domenica 16 luglio 2023

Luciana Bianchera “Il minuto rotondo”, Gilgamesh edizioni, Mantova 2023

 


Il tempo, nel secondo libro di poesie di Luciana Bianchera, Il minuto rotondo, Gilgamesh edizioni, Mantova 2023, sembrerebbe il convitato principale, ma è presto scalzato dall’entità contrapposta, rendendo tutto presente: l’eterno. Due concetti: uno rappresentabile e l’altro no. Certamente, nell’eternità il concetto di tempo perde senso, mentre il tempo percepito richiede di essere declinato non solo in senso psicologico, ma addirittura in maniera creativa, al fine di essere trasformato in tempo proprio, vissuto, incorporato, non solo fisicamente, dunque, ma soprattutto mentalmente. Esso diviene un contenitore in cui riporre ciò che è prezioso: “Ogni vuoto avrà la tua forma. / Un armadio, una stanza / un appuntamento mancato”.

Anche la morte ha a che fare con una relazione paradossale e richiede uno sforzo di comprensione, un’elaborazione. Sapere che ineluttabilmente accadrà, dà modo di abituarsi alla sua presenza. Restituirà agli essere umani quello che nessuna vacanza o sonno potrà concedere. In fondo, sottrarrà la coscienza. Dunque, più che lo scorrere del tempo, limato e lustrato da Bianchera fino a che i suoi minuti non appaiano tondi e levigati come sassi con cui dilettarsi, è la coscienza a dovere essere elaborata, a risaltare quale vera protagonista del proprio rapporto col tempo. Ma anche la morte sembra avere una misura: non la si può valutare se non in rapporto alla vita. Vi è una circolarità evidente che trapassa tra concetti che solo apparentemente sembrano opporsi, fino a rendere ambigui i significati delle singole parole. Vivere non è facile, eppure, è possibile affrontare la vita in innumerevoli modi. Ad esempio, dover sottostare al proprio imperioso desiderio di avere un costume verde e arancio, in età adolescenziale, come fosse tutto ciò che si può desiderare. Per fortuna, a quell’età si è incoscienti; si può procedere a vele spiegate. Ecco, che allora si apre una via dialettica tra i vari gradi di consapevolezza che siamo in grado di raggiungere. Di sicuro, ogni passo esistenziale non è una conquista definitiva. Contraddizioni e pentimenti sagomano il percorso, rendendo parziale la visibilità di un contesto maggiormente ampio. Ma anche lo sdoppiamento rende traballante il visto: in agguato ci sono i doppi sensi. Un simbolo, difatti, può assumere tanti significati. Tutto è arbitrario, a meno di non infondere il proprio sentimento: sembrerà, e già solo per questo, che gli altri significati possano essere abbandonati; è sufficiente che se ne trattenga solo uno: quello che riconosciamo come vero. Cosicché la verità si mostra come funzione di un investimento emozionale. Infatti, quando “le cose / sono solo / quel che sono” rappresentano un vuoto, una perdita. Si configura, in maniera pressante, nelle poesie di Luciana Bianchera, il desiderio di collezionare istanti rapinosi, sensazioni erotiche o travolgenti, che scandiscono, queste sì, altro che il tempo, le peripezie esistenziali: “Quei minuti di luce guadagnati / a gennaio / quando tutto sembrava perduto”. Anche l’affetto verso i propri cari è una conquista e grava sull’assunzione di senso che la poetessa deve attivare. Gli altri, così come la natura, devono essere inglobati in sé e reinvestiti di senso.

Cadono, così, quelle barriere tra la vita e la morte che generalmente si considerano fisse, cementate da rigide visioni, stoltamente inamovibili. “Forse, / nella luce / tornerai”. È ancora la mente che disfa e ritesse. Le soglie si assottigliano fino a scomparire, a divenire inessenziali. Non è forse nella nostra mente che risiedono i nostri cari? E più che “abitare la terra”, per dirla con Heidegger, si potrebbe chiosare codesto ragionamento con “abitare la mente”,  affermazione che stringe tutto in una sola mano. Non per togliere peso alla realtà, ma per indicare il lavorìo che effettuiamo sui dati reali. Morte e vita non sono meramente opposti, si integrano, si completano. La poesia scosta il velo: “induce la trasgressione”. I rifiuti divengono accordi. È con la poesia che  si frequentano luoghi impossibili, persone scomparse, che si accorda la propria persona con la totalità.

La morte “abita i nostri anni / compagna insinuante. / Talvolta la notte / qualcuno riappare / è dissolvenza”.  Reale e mentale, allo stesso modo di vita e morte, non sono scindibili. Chiedere quanto resti della propria vita è domanda retorica, eppure domanda propositiva al tempo stesso. Non è un moto che coinvolga solo le persone, ma anche gli oggetti, i luoghi: la propria casa, Parigi, Venezia, Avignone, la Spagna: “L’anima è il luogo / dei luoghi”, completamente “tessuta d’immagini”. Si cerca un “posto / sull’orlo della sedia”. E quella sedia sembra essere il linguaggio, il quale fa “comprendere il tempo / che ci è dato”.

Vivere allora sarà un tessere e un disfare dove la spola è la parola.


Sogni, stranieri


Ferma immobile 

afferro i sogni della notte.

Espansi

densi di stupore

e tempo arrotolato. 

Enigmi foresti

più intimi di quanto io possa vedere.

Sto immobile 

guardo in questo scrigno di poesia.

Stupefatta di me stessa 

e delle architetture 

che a mia insaputa

disegno

e cancello

ogni notte

con perizia.


sabato 1 luglio 2023

Pierluigi Isola “Terre d’ombra”, Galleria Falteri, Firenze, 2007

 


Le opere di Pierluigi Isola appartengono alla tradizione pittorica che da Poussin e dai vedutisti ottocenteschi giunge a permeare una parte, esigua ma significativa, della pittura nel primo Novecento. Piero Guccione, suo insegnante al liceo artistico, scrive che l’arte, pur essendo finzione, eleva il suo regno d’ambiguità al realismo fattuale di ogni sperimentazione che nell’arte, appunto, si compie. Appare importante sottolineare che Isola inserisce nella sua pittura elementi che rendono tali verifiche iperboliche. Nell’opera Pomeriggio a piazza Cavour (olio su tela, 2006), la dorata luce pomeridiana avvolge gli ultimi piani di un palazzo ottocentesco, le strisce pedonali ripetono astrattamente l’ordinamento ritmico delle colonne della facciata, mentre una lingua di sole illumina parzialmente il fondo stradale di bruto asfalto e l’ombra vi disegna una enigmatica porta che si apre. Non passa nessuno per la via. Forse un pomeriggio d’estate o la citazione di una caratteristica della pittura metafisica. La scena rappresentata è quella di una città museo, visto che sulla parete del palazzo d’angolo si può ammirare un quadro quattrocentesco che rappresenta San Sebastiano. Il quadro attinge a luoghi mnemonici, sorta di caselle ove sono posizionati i tesori che non debbono andare dispersi. Ma la memoria convoca imperiosamente altre immagini in relazioni a quelle indicate; esse vengono suscitate provocando un affollamento visivo. La Sinagoga vista dal Campidoglio (tecnica mista su carta, 2006) non può essere disgiunta dal ricordo delle opere di Corot o Valenciennes. Ciò non accade a cagione di un immagine che, anziché essere prelevata dal vero, è tratta da un repertorio figurativo precedente, dacché sono stati espulsi tutti gli elementi che connotano oramai le città moderne (dalle antenne ai fili elettrici). Persiste quel timbro di luce che s’indora vieppiù sulle pietre tufacee: nella suddetta opera è Jones il nuovo invitato e la luce è quella eterna di Roma. Vera sempre, non modificabile, ma qui come presa all’amo e deposta con mille cautele ed attenzioni sul foglio. È quel che accade anche in Verso il tramonto sulla strada del Sasso (tecnica mista su carta, 2006), quando la mente, nell’osservare l’opera, viene attraversata dai colori e dalle forme di Giotto, del Perugino, fino a infilzare i paesaggisti inglesi della fine dell’Ottocento. Dove sarà intervenuto il cambiamento e, soprattutto, ce n’è davvero bisogno? Non sarà che quell’idea invasiva dei romantici, della novità come esigenza indeponibile in arte, abbia guastato e distrutto la possibilità del lento evolversi delle forme espressive? Fare un passo indietro offre, in questo caso, una maggiore visibilità: l’orizzonte appare curvo, non troppo prossimo e limitato. Ciò detto, Pierluigi Isola non è uomo che non ami i contrasti. Il catalogo della mostra Terre d’ombra, Galleria Falteri, Firenze, 2007, è interessante anche perché riporta alcune considerazioni dell’artista; ad esempio, quelle riguardanti la lotta tra luce e oscurità, ove l’estenuarsi del giorno rende massimamente intenso l’azzurro del cielo o il colore delle cose, ritardando l’avvento dell’oscurità. Il catalogo, che si dipana tra opere e annotazioni dell’artista, riporta alla mente il testo di Cozen sullo studio degli effetti luminosi e delle macchie; tuttavia, nei quadri di Isola, il cielo è sempre sereno, le masse sono portentose, hanno il peso dei macigni, pur trovando una miracolosa compensazione negli inserti geometrici, nei poligoni regolari che la luce disegna. Si vedano, a tal proposito, Pini a Ostia Antica (olio su tavola, 2006) e Lungotevere in Augusta (olio su tavola, 2007). Isola non trascura la composizione né gli oggetti rappresentati; certamente li fa colloquiare con astrazioni geometriche che lanciano l’opera verso destini speculativi. Ciò nonostante, l’artista apre un contenzioso tra elemento naturale ed elemento geometrico, nel quale la loro differenza si assottiglia. L’asserzione che in natura non si dà linea o punto o cerchio viene fatta traballare, viene scossa. La predilezione espressa è quella di una prossimità della natura e della geometria che, a tratti, si riduce fino alla coincidenza. La mente umana  trasforma il dato naturale, astraendo. Si tratta di una natura che senza l’uomo non sarebbe rappresentata e, certamente, la natura come la conosciamo è il risultato di un’elaborazione mentale, ma nell’arte si tratta anche sempre di una formalizzazione che presenta molteplici livelli di senso. Nel disegno Rovine circolari #1 (tecnica mista su carta, 2006), la trasparenza dei colori di ascendenza cézanniana induce a comprendere la stratificazione che si attua nelle opere di Isola e la conseguente e necessaria azione di riconoscimento che esse richiedono al lettore per essere correttamente intese. Senza questo passaggio a ritroso, non si dà spinta in avanti. È nelle risorse dell’arte la possibilità di agganciare un tempo che sia afferrato nella sua profondità prospettica e presentato su un solo piano. Da una nota dell’artista si evince che egli è alla costante ricerca di una soglia, di un limite tra cose eterogenee, come può esserlo il passaggio da un tempo a un altro, dal reale al mentale, dal visibile all’invisibile. Sovente, Isola istituisce un dialogo tra ombra e luce, tra cose che c’erano ieri e ancor oggi persistono, oppure che si presentano in compagnia di elementi contemporanei innestati in un paesaggio altrimenti non caratterizzato cronologicamente. Ma le opere di Pierluigi Isola sono anche un inno alla mirabile mente umana che può vedere non solo quello che è reale, ma anche quello che ricorda. L’artista nomina la nostalgia, ma essa è piuttosto una condizione desiderante.

Tali soglie non sono prese nel medesimo vorticare turneriano, nel quale non si distinguono più i confini degli elementi naturali, con gli oggetti squassati dalla furia degli elementi o dispersi nello sfarinìo lucoroso. In Isola i contorni appaiono spesso netti; taglienti, se presi nel dominio dell’astrazione, oppure morbidi e stondati, se appartenenti al dominio organico. Luce e ombra sfaldano o assemblano. Non vi è una gerarchia relativa alla concretezza fisica; le architetture, le chiome arboree, i dossi e i canali sono ugualmente disegnati dai gradienti della visibilità, tuttavia, non si dissolvono mai.

Il rapporto che il primo piano instaura con gli elementi retrostanti della composizione è usato da Isola per disporre, sulla superficie più vicina allo spettatore, ma non per questo maggiormente definita, segni, lettere, tracce di un’iscrizione. È quanto si osserva, ad esempio, in Dalla spiaggia di Vendicari (olio su tavola, 2006), ove il primo piano del paesaggio campestre appare come luogo di iscrizione di un segno, più che la rappresentazione di un dato naturale: gli steli di gramigna sembrano mimare una scrittura. Al pari del rapporto tra natura e geometria, di cui scrivevo prima, anche quello tra iscrizione e architettura passa attraverso un medesimo imbuto, poiché vi è tra esse una forte prossimità, anche se non si estingue mai in una completa coincidenza. Come la scrittura, anche l’architettura è un prodotto umano. Pierluigi Isola pone in luce le forme nella loro diversità strutturale, evidenziando il particolare rapporto tra senso e significante che si genera ogni volta nella specificità delle forme espressive. 

Ritornando al tempo non segnato, sgorgante dalle opere di Isola, cito a titolo esemplificativo il quadro Il Tevere a Ponte Garibaldi (olio su tela, 2007), nel quale i diversi stati della materia sono restituiti nella luce pomeridiana che polverizza le sostanze in un pulviscolo d’oro, finendo con l’annullare anche i diversi istanti del reale.  Davvero il reale non è mentale? Si direbbe proprio di sì, dinanzi a questa cartina di tornasole.


                                                            Rosa Pierno