domenica 26 febbraio 2012

Premio Lorenzo Montano 2012


“Anterem” è una tra le riviste di poesia più autorevoli in Europa. Promuove la conoscenza di forme stilistiche e di pensiero che trovano nella necessità e nella bellezza le loro ragioni. Pubblica poesie e saggi degli autori più significativi della contemporaneità ed è oggetto di studio nelle principali università e nei licei. Ha periodicità semestrale ed è distribuita in alta tiratura in Europa, in Asia e nelle Americhe. Nel corso degli anni, intorno alla rivista hanno trovato spazio varie iniziative, tra cui il Premio Lorenzo Montano e le edizioni Anterem, iniziative documentate sul sito www.anteremedizioni.it insieme a molte altre notizie sulla nostra attività.
Il Premio è giunto alla XXVI edizione. In occasione della premiazione saranno promosse iniziative pubbliche per dare grande visibilità alle opere dei vincitori, dei finalisti e dei segnalati per tutte le sezioni in cui il Premio si articola: “Raccolta inedita”, “Opera edita”, “Una poesia inedita”, “Una prosa inedita”, “Poesie scelte”.

Il bando della XXVI edizione è disponibile e può essere scaricato dal sito.
Copia su carta del bando può essere richiesta a premio.montano@anteremedizioni.it


Il Premio è articolato in cinque sezioni:
Raccolta inedita
Opera edita
Una poesia inedita
Una prosa inedita
Opere scelte

Giuria del Premio:
Giorgio Bonacini, Davide Campi, Mara Cini, Flavio Ermini, Marco Furia, Rosa Pierno, Ranieri Teti


PREMIO «RACCOLTA INEDITA»
Patrocinio: Biblioteca Civica di Verona
Al Premio si concorre con una raccolta inedita di poesie non inferiore a 200 versi.
Nell’ambito dei lavori pervenuti la Giuria del Premio sceglierà le raccolte segnalate e finaliste.
Fra queste ultime designerà l’opera vincitrice, che sarà pubblicata da Anterem Edizioni, nella collana “La ricerca letteraria”, grazie alla partecipazione della Biblioteca Civica di Verona.
I testi poetici saranno introdotti da una riflessione critica. Il volume verrà presentato sul sito di “Anterem” e avrà ampia diffusione. Sarà altresì inviato a quotidiani, riviste, critici e università.
Al fine di valorizzare i poeti che non hanno mai pubblicato in volume, per le migliori opere prime sono previsti particolari riconoscimenti.

PREMIO «OPERA EDITA»
Patrocinio: Assessorato alla Cultura della Provincia di Verona
Al Premio si concorre con un volume di scritture poetiche pubblicato dopo il 1° gennaio 2009.
Non sono escluse le scritture in forma di immagini o di musica, su supporti video o audio.
Al poeta vincitore, scelto dalla Giuria del Premio tra una rosa di poeti segnalati e finalisti, sarà attribuita, grazie al contributo dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Verona, un premio in denaro.

PREMIO «UNA POESIA INEDITA»
Patrocinio: Prima Circoscrizione di Verona
Al Premio si concorre inviando una poesia inedita, che costituisca per l’autore un momento privilegiato della sua ricerca poetica: un testo che proprio nell’unicità trovi la sua ragione.
Al vincitore sarà attribuito dalla Prima Circoscrizione di Verona un premio in denaro.
Le poesie segnalate, finaliste e quella vincitrice saranno designate dalla Giuria del Premio.

PREMIO «UNA PROSA INEDITA»
Patrocinio: Associazione Anterem
Al Premio si concorre inviando una prosa inedita (sia essa narrazione, saggio breve, nota critica, prosa poetica). Caratteristica di questo Premio è la sua grande libertà stilistica e di genere.
Il testo non dovrà superare le 6000 battute (tre cartelle).
Al vincitore sarà attribuito dall’Associazione Anterem un premio in denaro.
Le prose segnalate e finaliste e quella vincitrice, saranno designate dalla Giuria del Premio.

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA «OPERE SCELTE
Patrocinio: Regione Veneto
Il riconoscimento – speciale e fuori concorso – è destinato dalla Giuria del Premio a un autore che abbia contribuito con il suo lavoro ad ampliare i percorsi di conoscenza che tendono alla verità poetica nella contemporaneità.
Grazie alla decisiva partecipazione della Regione Veneto, allo scrittore viene riconosciuta la pubblicazione, da parte di Anterem Edizioni, di una raccolta di testi selezionati tra le sue opere edite e inedite. Il lavoro viene introdotto da un’ampia riflessione critica.

COME SPEDIRE LE OPERE AL PREMIO
L’invio dei materiali può essere effettuato per posta tradizionale oppure via e-mail entro il 31 marzo 2012.
Spedizione per posta tradizionale (riservata alle opere edite e inedite): le opere vanno inviate in tre copie alla sede del Premio, in via Sansovino 10 - 37138 Verona, Italia.
Su ciascuna delle tre copie va riportata la nota biobibliografica del poeta con indirizzo, recapito email e telefonico.
Spedizione via e-mail (riservata esclusivamente alle opere inedite): le opere vanno inviate con documento salvato in Word per Mac o in RTF o in PDF. Su documento a parte va inviata la nota biobibliografica del poeta con indirizzo, recapito e-mail e telefonico. L’invio va effettuato all’indirizzo di posta elettronica: premio.montano@anteremedizioni.it

CERIMONIE E PREMIAZIONI
I poeti vincitori, finalisti e segnalati leggeranno i propri testi nel corso di un grande evento multimediale che coinvolgerà musicisti, editori di poesia, critici letterari e filosofi, esponenti di siti web e riviste specializzate. Per questi autori la Giuria del Premio proporrà una serie di riflessioni critiche, nell’ambito di un approfondimento teorico sulla poesia contemporanea.
Tutte le opere pervenute al premio – sia in formato elettronico sia su carta – saranno catalogate e conservate, insieme ai manoscritti e ai volumi dei poeti contemporanei più significativi, presso il Centro di Documentazione sulla Poesia Contemporanea “Lorenzo Montano” della Biblioteca Civica di Verona, a disposizione dei critici, degli storici della letteratura e degli appassionati di poesia.
Il compositore Francesco Bellomi, docente del Conservatorio di Milano, dedicherà un brano musicale a ciascuna delle opere vincitrici. Le musiche verranno eseguite durante la cerimonia di premiazione, oltre che essere compendiate sul sito www.anteremedizioni.it e http://www.youtube.it/
Il Conservatorio Statale di Trento “F.A. Bonporti”, sezione di Riva del Garda, organizzerà in Europa una serie di convegni e concerti che prevedono l’esecuzione di musiche originali dedicate ai vincitori del Premio.
Il periodico on-line “CARTE NEL VENTO”, vero e proprio notiziario di poesia, ospiterà approfondite note critiche sulle poesie vincitrici e finaliste, insieme ai più significativi tra i testi poetici pervenuti. Prodotto da Anterem Edizioni, il periodico troverà spazio sul sito http://www.anteremedizioni.it/.
Notizia dell’avvenuta uscita on-line sarà inviata tempestivamente a tutti i partecipanti per posta elettronica.

http://www.anteremedizioni.it/


venerdì 24 febbraio 2012

Brandolino Brandolini d’Adda “da DELIQUI” (dall’antologia Ante Rem. Scritture di fine Novecento”, Anterem edizioni, 1998)


sp arso e spanto
sangue glorioso sfrigolio e rigoglio
di trasferiti e smorti         apriti patria la va va là
valle dei verd’aciduli fiori di fil di ferro
sfrutt truff furt e tuffo
cardiaco: chi perde si perde e le prede
s’infu intrufolano fatalmente
sementi se dimentico se menti se mi temi
sistematicamente mi smentisco
un corpo sotto

investigando fumante terraterra
svi svisc sviscero
muscoli lisci guaine e invasi
d’oros corpo scava scopo
pozza d’occhi e stremi misteri schiusi
a quel limpido
succeder succhi creste scisti schizi
                                      sicuramente
scalini all’olimpo
pensapensa e l’
acrostico socratico
dialoga gemma d’ordine parola
indaga e degenera ragioni che ignoro
nella storia di scarti cris costr sort stricn
ninìn mutanti nel pensier di viola

soliloqui lìquidelìqui miele
di restauro alle cr rr crepe
stucchi e caraffe a pezzi
me e me le cicatrici dolci


La scomposizione/frantumazione a cui Brandolino Brandolini d’Adda sottopone i suoi oggetti poetici fa sì che sulla superficie testuale emerga la componente più lieve, la sonorità, e apparentemente scissa dal significato. E’ solo la prima impressione, la percezione di qualcosa che urge riconoscere, poiché naturalmente già i singoli fonemi appartengono a suoni che sappiamo distinguere. Regole, dunque, se sono da desumere non lo sono mai a prescindere dal senso di cui sono forniti all’interno della lingua. E il senso, in questo caso,  è come trovato proprio tramite gli accostamenti governati dalle analogie sonore.

Tutto infilzato sulla punta del suono. Ed è invero sorprendente il senso che si coagula intorno al suono! Come se ci apparissero combinazioni mai ascoltate prima, mai pensate. Straordinario quel “sementi se dimentico se menti se mi temi”.

Ma la ricerca del senso – e abbiamo proprio la sensazione di essere presenti nel momento stesso in cui si sta costruendo la poesia – con quel “nella storia di scarti cris costr sort stricn“  non è però effettuata senza cernita: esso  viene soppesato, tentato, favolosamente trovato. Ma, attenzione, il filtro c’è e non lascia passare nessun metafisico senso.

Gli oggetti, dicevamo, e il corpo in particolar modo – sia testuale che reale –  risentono di questo smembramento e di questa saldatura inusuale. Essi si ricompongono secondo una metodica differente, non sono più oggetti consueti. Eppure, per la straordinaria statura di poeta di Brandolini D’Adda, la poesia appare come un collage in cui i pezzi risultino incastrati alla perfezione e producano precisissimo senso.

Così ci figuriamo un soggetto che compie riflessioni acri, tenere, crudeli e dolci sulla tomba di qualcuno. Figura, la cui composizione è data da  una collazione di fogli impossibile a ottenersi con altre modalità: modalità tutta fisica com’è il corpo di cui si parla nella poesia pure se decomposto e dove il mentale è un senso che mai si distacca dal sonoro che è, nemmeno a dirlo, ancora fisico.


Biografia
Brandolino Brandolini d’Adda (1928-2004) ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie Da un monte rovesciato, nel 1973 (Scheiwiller, Milano). Sono seguite numerose altre, fra cui: Bifido Trilingue (Sansoni); Desiderata (Rusconi); Quattro castelli a Cison (Canova); Dipinto fuori quadro (Anterem); Sei poesie a senso. Un suo testo teatrale, Picus e numerosi versi sono stati composti in musica da Franco Donatoni e Corrado Pasquotti. È autore di antologie di poesia italiana, inglese, francese e spagnola, delle quali ha curato anche le traduzioni.

martedì 21 febbraio 2012

Chomsky, Foucault “Della natura umana. Invariante biologico e potere politico” Derive Approdi, 2005

 
Il dibattito televisivo a cui partecipano nel 1971 in Olanda Noam Chomsky e Michel Foucault,  e che è riportato in  “Della natura umana. Invariante biologico e potere politico” Derive Approdi, 2005, verte sul problema inerente alla natura umana rappresentato attraverso le posizioni opposte dei due dialoganti.   Da una parte Chomsky, convinto assertore di idee  e capacità innate, il quale nega qualsiasi evoluzione  storica delle idee e delle capacità e, dall’altra, Foucault, il quale afferma che la natura umana è invece presa nelle trame della storia. Questo libro fornisce l’occasione per approfondire la questione non solo attraverso le posizioni antitetiche dei protagonisti del dibattito, ma anche attraverso gli interventi di Diego Marconi, Stefano Catucci, Paolo Virno, i quali rappresentano le seguenti posizioni: Marconi è a favore dell’innatismo difeso da Chomsky, Catucci della storicità e quindi della posizione foucaultiana, mentre Virno tenta una mediazione valutando che nessuna delle due posizioni è completa, ma che entrambe vadano integrate l’una con l’altra.

Per quel che riguarda Marconi, il quale si rifà agli studi della scienza cognitiva, è facile obiettare che l’innatismo di cui parla è relativo alle sole capacità umane e non ai contenuti del pensiero, alla capacità cioè che tutti abbiamo di distinguere i colori o di essere creativi nell’uso del linguaggio, e non certo relativo all’individuazione di principi innati o a un sentire etico comune, il quale resta un prodotto culturale, che è diverso, anche in intensità, in relazione alla comunità d’appartenenza. Cade di conseguenza la trasposizione automatica degli innatismi al campo dei principi condivisibili da tutti (desiderio di una società più giusta ed equa come fosse un’idea che ciascuno essere umano condivida), poiché, appunto, essi non sono riconducibili a innatismi. Né d’altronde è esattala sua interpretazione che riduce la posizione di Foucault al rifiuto totale dell’innatismo, poiché quest’ultimo non rigetta quelli che sono i risultati scientifici relativi alla definizione di capacità mentali, ma di fatto rigetta la trasposizione degli innatismi nel campo delle idee e dei principi. Tant’è che l’opposizione di Foucault nel dialogo con Chomsky è del tutto contestuale all’uso allargato e improprio che Chomsky fa dell’innatismo, oltre che naturalmente all’idea di una “natura umana” come prodotto immutabile e astorico. 

Se Foucault ha condotto una battaglia contro l’innatismo lo ha fatto, in ogni caso, in ragione di una verifica sul campo esperienziale. Nelle scienze umane non si ritrova l’essenza dell’uomo, ma piuttosto la costituzione di una nuova soggettività attraverso la riduzione dell’uomo a oggetto di conoscenza (che coincide con la critica che Foucault effettua nei riguardi dell’antropologia) e la continua costruzione di sé da parte degli uomini in una serie di innumerevoli soggettività differenti che mostrano l’infondatezza di ogni discorso su una presunta natura umana. Il che è un obiettivo diverso dal negare che tutti gli uomini vedono i medesimi colori o che non possono volare.  A tal proposito riporto una sua frase chiarificatrice da “Antologia. L’impazienza della verità”, Feltrinelli, sul fatto che egli rifiuta “una certa teoria a priori del soggetto per poter fare l’analisi  dei rapporti che intercorrono tra la costituzione del soggetto o le differenti forme di soggetto e i giochi di verità, le pratiche di potere, ecc.” poiché il soggetto non si costituisce a priori né è preesistente alle pratiche attraverso cui si riconosce, né esiste un suo fondo umano che debba essere riportato alla luce e liberato da alcuni processi storici, economici o culturali che l’abbiano alienato.

                                                                                                   Rosa Pierno


sabato 18 febbraio 2012

Georgina Spengler



Poiché vi appare come annullata qualsiasi profondità e superficie, dinanzi ai quadri di Georgina Spengler non si riesce a essere certi che i colori riposino su un piano o avvolgano con spruzzi, vapore e nebbie le sale espositive. E’ un colore,  a tratti nebulizzato, a tratti liquido,  in grado di creare persino i sonori effetti di un’acqua che, appena risalita dalle profondità della materia, sia ancora in fase di ebollizione. Una materia colta in tutti i suoi stati: ferrosa, fluida, gassosa, solidificata. In ogni caso materia terrestre colta prima che si formi la natura così come la conosciamo. In questo rapporto materia/non ancora natura ravvisiamo la volontà dell’artista di cogliere le possibilità in fieri, proprio mentre si stanno formando, di ciò che potrebbe prendere appunto qualsiasi forma, ma in cui il colore è già interamente dato. Il che ci impone una considerazione: il colore è la materia.

Il colore, disperso in un ambiente senza profondità né superficie, diventa consistente fino a formare righe, linee, le quali avverano dimensioni spaziali che altrimenti non percepiremmo.  Nella Spengler l’uso del colore è parimenti sostanza e spazio, moto e direzione. Le sue opere: uno straordinario dare inizio al mondo, restituendone, al contempo, la modalità conoscitiva.  La Spengler, se trae da Turner e Monet suggestioni e citazioni, pure, inglobando la speculazione metafisica sulle strutture della percezione,  colloca il suo lavoro in una ulteriore dimensione. In questo senso, il richiamo al titolo della mostra “Oltre l’orto” non indica soltanto l’abbandono della spazialità geometrica con cui siamo adusi rappresentarci, ma disperde il concetto di linea d’orizzonte per fondare sulla sola dimensione concettuale: quell’oltre da superare per  riappropriarci della percezione, in ambiente naturale o interiore non importa. Sarà la perdita del luogo chiuso, delle pareti abitudinarie, del conosciuto, per andare incontro all’altro come entità estranea. D’altronde,  il nostro rapporto con la natura non è dato una volta per tutte.  


Non è possibile utilizzare esclusivamente la categoria del colore di matrice longhiana per definire il lavoro di Georgina Spengler; dovremmo, infatti, pensare che esso rientra anche in quella del disegno. Le linee che si vengono a formare nella densità del colore quasi come per ispessimento, ma motile e di un moto flessuoso, si muovono a fasci, come alghe trasportate da marina corrente e vanno a disegnare qualcosa che somiglia a un paesaggio. Echeggia la grande tradizione della pittura giapponese ed è un turbinio di linee a disegnare profili montuosi, cime e scrosci d’acqua, petali di crisantemo o gorghi d’erba… ma non è che un miracolo analogico ravvisare tali oggetti, per un attimo formatisi sull’onda del colore, come proiettati da un’improvvisa lingua di sole. Giacché in una cascata avvolgente di giallo, arancio, verde, bruno, ribollenti e fluidi, diluiti o deposti come un velo, il quadro si fa e si disfa in una frazione di secondo. Nessuna fissità, nessun congelarsi della forma o dell’immagine. Si ha la sensazione che una figura si stia formando, ma un attimo dopo si è già disciolta nel colore che fluisce come se fosse immerso nell’acqua e non fissato sulla tela. Il crinale su cui il rapporto figura/non figura non si decide è analogo a quello per cui non si può parlare della superficie del quadro, la quale non è localizzabile.

Dimidiata tra superficie e profondità, disegno e colore, moto e caduta, materia e velo, la pittura della Spengler pone al fruitore un inesausto esercizio di captazione, di individuazione, di citazioni, di rilancio. Dinanzi a questi quadri si resta intrappolati da un incessante tentativo di afferrare la chiave di lettura dell’immagine, indecisi sulla disposizione da adottare in merito al sentirsi esterno ad essi o trascinato e avvolto dai colori e dalle linee che ne emanano con la forza di un profumo. Quando si parla di forza dell’arte, della sua capacità di restituirci a una rinnovata percezione, rimettendo in discussione canoniche categorie e suddivisioni, il riferimento è a opere che, come quelle di Georgina Spengler, ci fanno andare oltre quello che abbiamo sedimentato.  L’immersione in un universo dischiuso ai nostri sensi, espandendosi anche la connaturata dimensione temporale, ci scompagina e ci restituisce una dimensione che non sapevamo esistesse, una natura di solo colore, linearmente fluente.

Rosa Pierno         

mercoledì 15 febbraio 2012

Mario Quattrucci “Turcato”da “Gra” Quasar, 2006

 


E’ mondo non rifratto, altro, sua espressione,
preludio di nascita, sentire non oscuro,
germe, gene, forma-vita, embrione in sua memoria,
galassia-granuloma su turchino e azzurro,
seme di millennio suo iridico cammino,
d’atomo itinerario, verità e sogno,
incanto metamorfico in unica pintura
pullula da colore realtà nascosta,
acqua e notte, fluoro oltremarino, karta-segno,
forma d’effettuale viaggio d’astrazione pura,
frangia di cosmo, immagine, luce misteriosa,
ora è colore-forma sola dimensione,
vegetale vita e pelle d’anima contesa,
reticolo di sensi apparizioni ardenze,
bava di mondi ambigua, presenze numinose,
messaggi d’orme astrali e terra di deserto,
gialla terra solforosa, siena e bianco, incerta,
monocromi sondaggi, verdi, neri, squarci,
fasce-porte spalancate su spaziali interni
plurisensi, ranciate annunciazioni,tracce,
lacci su toni d’indaco e viola, fermi
densi rossi  doloranti, o chiari come i rossi
di fabbriche e comizi da cui ci siamo mossi,
fuoco cangiante, moto, libertà variale,
del tempo in divenire combusta evocazione,
alto linguaggio antico, probità attuale.
Non è rispecchiamento ma creazione.




Proprio attraverso l’iniziale contrapposizione tra realtà e mondo interiore è subito procurata da Mario Quattrucci la feritoia da cui sgorgherà la negazione dell’assunto attraverso la derivazione allegorica: “germe, gene, forma-vita”, la quale rapprendendosi, sanguigno flusso, nuovamente sull’esteriore mondo, salderà in una riattivata circolazione, solo più densa, anche il soggetto, rappresentato da “memoria” ed “espressione”.

Segue dappresso, a ruota, l’aggancio tra cellula e galassia, tra microcosmo e macrocosmo a completare le relazioni fra le diverse scale circuitazionali, di cui sarà garante “unica pintura”: quella pittura di Giulio Turcato, di cui Quattrucci sta contemplando in presa diretta le opere. Una sorta di atmosfera turchina invade e disperde i confini, le soglie tra il pensato e il percepito, tra la verità e il sogno.

Questi versi non sono esenti da un preciso taglio critico con cui il poeta vuole rendere corpose le ragioni della propria preferenza, della propria adesione alle opere del pittore: intento davvero originale rispetto alla canonica ecfrasi. Nei versi “ora è colore-forma sola dimensione, / vegetale vita e pelle d’anima contesa” sono in un colpo solo strette insieme sia l’esclusione della  dimensione temporale, sia l’imitazione in quanto rappresentazione di oggetti reali, ove però il legame conduce immediato a una trasmutazione: e ciò che è esterno è ricondotto alla sua elaborazione interiore.

D’altronde, anche la mancata sovrapponibilità tra il deserto e il pigmento con il quale il deserto viene rappresentato dichiara il varco tra i due sistemi (oggetto e strumento), ma anche la loro incompossibilità.

La poesia chiude con un fantasmagorico inno alle plurivalenze, alle create ambiguità, alle forme in divenire per cui un rosso può valere sia per esprimere dolore e sia per rappresentare comignoli e dove il tempo sulla superficie del quadro è soltanto evocato, eppure onnipresente,  infittendo sulla tela un passato che coincide con la cultura tutta.


Biografia

Mario Quattrucci, impegnato per quasi cinquant’anni nella vita politica e sociale, s’è occupato di arti visive, teatro, letteratura. Ha collaborato con giornali e riviste della sinistra.
Narrativa: A Roma, novembre (poi: È novembre, commissario Marè); Il Governatore; La formula; Questione di tariffe…; È normale…; Troppi morti…; Hai perso, commissario Marè; Una vedova per Marè; Che spettacolo…. (insieme ad Alessandra Vitali); Marè in luogo di mare; Fattacci brutti a Via del Boschetto.
Poesia: La traccia; Oblò appannato; Perché un occhio l’osserva; Materia del contendere; Variazioni; Gra; Da una lingua marginale.
Dirige le collane di poesia Segmenti e Gemina delle Edizioni Quasar, e la collana Libri di Poesia della Robin Edizioni.

domenica 12 febbraio 2012

Gio Ferri “Le poetiche del ferro in architettura”

Il saggio ricco di immagini di Giovanni Fontana “Sulla retorica della fotografia” (Territori n.17, 2008) di Eugenio Miccini e sulle riletture fotografiche di Pompilio Fiore mi ha piacevolmente costretto  a rovistare nei miei dispersi archivi per ritrovare una serie di fotografie che scattai nei primi anni ’80 del secolo scorso girovagando per Parigi alla ricerca di alcune testimonianze, macro e microstrutturali, delle diffuse architetture in ferro, prima fra tutte, ovviamente, la Torre Eiffel. Fontana analizzando una fotografia per l’appunto di Fiore che riproduce una scultura in bronzo arditamente verticale e appuntita del Trocadero sullo sfondo sfuocato  della Torre dice, riprendendo un concetto di retorica scritturale, di una “paronomasia..di una addizione ripetitiva: l’elemento scultoreo verticale svetta in primo piano, parallelamente al profilo velato della Torre  Eiffel..mentre il dettaglio plastico si impone nettamente…: è proprio il profilo arcinoto della torre, sia pure nella sua evanescenza, che svolge il ruolo principale della composizione”. Se spostiamo il punto di vista potremo dire che l’accostamento paronomasico sta alla base di tutte le strutture dell’architettura in ferro dell’’800, ma anche, in ferro o no, del ‘900. Funzionalità statica e volontà decorativa vanno sovente di pari passo: per certi aspetti persino il razionalismo più spinto non manca (da Mondrian a Terragni, per esempio) di piacevolezze spaziali non sempre staticamente essenziali. C’è un breve passo di un lungo saggio di Eleonora Fiorani (“Leggere i materiali”, Lupetti, 2000) che giustifica questa condizione: “Anche per il mondo dei sensi vale il dualismo fra materia e spirito e materia  e forma, fra corporeo e incorporeo; vale il primato del logos e della vita contemplativa che diffida dei sensi e delle apparenze e di ciò che ci coinvolge nel mondo concreto..”.
Come è ben noto l’architettura in ferro fu uno dei prodotti di quella rivoluzione industriale che fin dal 1794 (“Corso di scienze delle costruzioni” dell’École polytechnique) realizzò con notevoli risparmi di spesa e di tempo una trasformazione mondiale nella tecnica delle costruzioni, dalla Galérie d’Orleans di Parigi, alla Torre Eiffel (assolutamente esemplare nella sua…poetica inutilità!), alla Stazione King’s Cross di Londra, alla galleria di Mengoni a Milano, al ponte di Oporto, al reliance Building di Chicago..etc., etc, fino – ma non è storicamente ultimo – al Beaubourg parigino. Le infinite costruzioni che si susseguono in più di due secoli presentano tutte, in contesti spaziali sempre di straordinaria ampiezza (com’è logico considerate le proprietà specifiche del materiale  e la sua articolabile resistenza) alcune caratteristiche – insite appunto nella materia stessa – al di là della funzione, decisamente poetiche (nel senso lato del fare). Vale a dire strutturate su di una sintesi formale che si articola fra spazio, scrittura e sonorità. Potremmo insistere, a comprova di questa considerazione, che può apparire paradossale o più semplicemente metaforica, di diffuse caratterizzazioni retoriche (riprendendo l’osservazione di fontana su Fiore) quali l’allitterazione, la concatenazione semico-analogica (una sorta di rima e quindi di ritmicità), la leggerezza ambigua e perciò l’apertura significante, la rivelazione di fascinose microproposte strutturali...il tutto proteso ad una smisurata tensione. Tensione fisico-funzionale arditamente equilibrante, e tensione fantasmatica, vertiginosa, quasi onirica (sognare d’essere in bilico!). Per riprendere Eleonora Fiorani possiamo affermare anche nel caso dell’architettura (soprattutto in ferro) quello che possiamo dire della scrittura poetica: “Il problema infatti non è quello della priorità della vista, l’essere umano è tutt’occhi – si è già detto che in lui vedere è sapere – ma quello del tipo di vista e di sapere. La connessione della vista con il logos allontana il mondo colorato delle apparenze e dei chiaroscuri, dei contorni sfumati, per la nettezza delle forme, facendo prevalere le superfici e il nitore dei contorni. Mira al terzo occhio dell’invisibile. E’ una vista tutta privata della sua tattilità. E’ simile al ‘vedere come’, che per Wittgenstein, interpreta, media, procede per analogie, paragoni, riconoscimenti rispetto al ‘vedere così’ proprio di una visione dell’accadere dell’evento, dell’improvviso balenare, dell’intensità in cui la cosa si presenta: e si vede  qualcosa come ‘qualcosa’, che si può ‘guardare’”. Se vogliamo dire della leggerezza  nell’apertura strutturale possiamo facilmente confrontare le costruzioni in ferro rispetto alle secolari architetture in materiali pieni e ponderali (pietra, terra, mattoni).  Il ferro recita un intrecciato ritmico, uno strutturato, e tuttavia articolabile, poema rispetto alla prosastica compattezza dell’antico discorso architettonico. Basta osservare insieme il Colosseo e la Torre Eiffel! Quest’ultima è trasparente e apre da tutti i lati al paesaggio e al cielo, Il Colosseo divide inesorabilmente lo spazio in campiture chiuse. Certamente anche l’arco romano o la costruzione ogivale posseggono funzionali resistenti aperture, ma la loro solidità le sovrasta e le rende perciò secondarie, sovrastrutturali. Il ferro, la barra metallica, l’intreccio sono l’essenza della costruzione, non pongono ostacoli. Perciò ho detto sopra anche di una sonorità: i rumori naturali e urbani e soprattutto il vento attraversando quasi senza ostacoli l’oggetto architettonico lo fanno vibrare, talvolta addirittura risuonare.
L’intreccio strutturale ricco di allitterazioni, grammaticali e sillabiche, di concatenazioni di analogie consequenziali, sfida l’equilibrio in sequenze dinamiche spettacolari. Ma l’architettura metallica, nella sua macroscopica presenza paesaggistica, risente fortemente anche delle temperature ambientali e ad essa sa adattarsi. Poiché c’è anche una particolare termodinamica dei materiali. I metalli solidi si compongono anch’essi di microstrutture cristalline atomiche che influiscono naturalmente,  e in maniera articolata e autoriproducentesi, sulle macrostrutture. I metalli possiedono una disponibilità termica che appunto li fa reagire alle modifiche della temperatura. Ne deriva insieme una condizione di contenuta instabilità che ne accentua, tuttavia, l’elasticità.
Le architetture metalliche si valorizzano attraverso corrispondenze iconiche (“Pensare per modelli”, Mondadori, 1979): “I modelli legati ai prototipi da corrispondenza iconica sono quelli ai quali si pensa normalmente quando si parla di modelli in senso generico. La corrispondenza iconica è la relazione del modello usata nei modellini giocattolo..Il risultato è di solito la riproduzione nel modello delle forme del prototipo..parola dal greco che significa immagine..”. E’ fin troppo facile vedere nell’architettura in ferro il modello-giocattolo in cui le singole parti si articolano alla ricerca analogica di composizioni equilibrate attraverso modalità ritmiche. Esemplare è il gioco anche fanciullesco delle costruzioni in mattoncino Lego o del Meccano. Il gioco della parola, della lettera, e della struttura verbale, per esempio, in un sonetto è, per paragone, ben più di una facile metafora utile ad interpretare la consistenza strutturale di un oggetto, di una cosa, così come può intendersi anche una poesia.
L’equilibrio strutturale, fra tutte queste aggregazioni, rivela risultati architettonici sorprendenti. Il ponte di Bir-Hakein di Parigi manifesta insieme la propria potenza e la propria elasticità. Regge diverse mastodontiche arcate, pesanti strutture decorative, statuarie, in ferro e in marmo, ed ancora due sovrapposti passaggi per il traffico stradale automobilistico e per la metropolitana sopraelevata. L’equilibrio fondato sulla articolazione dei perni e tiranti si ritrova nella sorprendente leggerezza della struttura a sottili tiranti incrociati che compattano nell’aria la ardita scatola del Beaubourg. L’impalcatura resiste all’equilibrio della tensione, in qualche modo ‘minaccioso’ come lo sono le epifanie, gli abissi interiori consci o inconsci di una composizione poetica con le sue arditezze formali.
Organici, direi quasi biologico-genetici, sono i risultati visivi di queste costruzioni che solo le leggerezze intrecciate del ferro, dell’acciaio, delle loro rispondenze possono donarci richiamandoci decisamente alla bellezza (non è termine eccessivo) delle forme nello spazio. Con un senso di infinitezza che oscilla fra la logica rigorosa e la fantasmagoria irrazionale. Tanto più quando anche il vetro partecipa alla composizione. Ma d’altro canto anche il vetro non è che silice+quarzo-carbonati+ossidi. Composizioni cristalline in parte tipiche anche dei metalli. Gli intrecci aerei e aerati che, da alcuni punti di vista, vengono a formarsi sotto il nostro sguardo metamorfizzano la funzionale e rigorosa geometria delle strutture, creando una con-fusa unità magmatica. Immisurabile secondo i criteri (ingegneristici-architettonici-geometrico-matematici) che sorreggono le medesime equilibratissime strutture. Così che si formano immagini irregolari e conturbanti (quanto lo è l’inconscio) che, forse, solo una geometria dei frattali può in qualche modo chiarirci, tuttavia senza ricondurci alla ragione di una geometria classica (per altro necessariamente sottesa all’oggetto architettonico). Con Mandelbrot (“Gli oggetti frattali”, Einaudi 1987) potremmo dire di “..un termine che il giovane Norbert Wiener prediligeva per descrivere una forma estrema di disordine naturale. Questo temine è caos, ed esso ci consente di rilevare..due osservazioni distinte. Da un lato, la geometria della natura  è caotica e mal s’identifica nell’ordine perfetto delle forme abituali euclidee…, dall’altro, essa evoca piuttosto la complicazione delle matematiche create intorno al 1900 (..). Progressivamente maturatesi, queste due scelte hanno creato qualcosa di nuovo: tra il dominio del caos incontrollato e l’ordine eccessivo di Euclide, si estende ormai una nuova zona di ordine frattale”. Che, possiamo aggiungere, trova non poche corrispondenze nella architettura, nell’arte, nella letteratura, nella musica contemporanee. Dall’assoluto al particolare, per capovolgere una antica aspirazione, si va alla scoperta di quelle spazialità nuove e micro formali, appunto, ma tuttavia più profonde, che sollecitano l’interesse semiologico (e poetico) di Miccini e di Fiore. E di Fontana che ne ha riscoperto le opere.

Gio Ferri

venerdì 10 febbraio 2012

Raffaele La Capria “Capri e non più Capri” Pagine d’Arte, 2011

Che l’amore non sia indenne da odio e persino da indifferenza  è cosa nota, e Capri, essendo amata da Raffaele La Capria, non subisce trattamento diverso.  Potremmo definire il libro dell’autore napoletano, “Capri e non più Capri”, Pagine d’Arte, 2011, un libro d’amore in cui non si sappia discernere la propria vita da quella dell’oggetto amato, né accettare la sua diversità. I ricordi, poi, non sono districabili dal vissuto, anzi quanto più intensamente essi sono vissuti, tanto più ciò che è stato è ancora presente e, dunque, risulta impossibile recidere il controverso legame.

Così, la “Capri” e la ”Non più Capri” coesistono e la questione della prevalenza dell’una o dell’altra si pone come indecidibile. Capri è sia quella magistralmente descritta da un La Capria giovane - e vi prego di leggere il tour de force con il quale così sapientemente ci restituisce le riflettanze dei fondali marini che s’intessono con le trasparenze della superficie acquorea - sia quella deturpata dall’ignoranza e dalla barbarie contemporanea con i flussi turistici di massa che inevitabilmente ne depauperano il patrimonio naturalistico.

La Capria si spende affinché venga presa in considerazione la qualifica di riserva naturale per quello che si configura come un patrimonio dell’umanità, anche se non sfugge che lui ha un ruolo privilegiato, vi ha posseduto una casa e considera l’isola un suo possedimento, anche se, ora, solo interiore.  L’indifferenza di cui a tratti egli si ammanta di fronte alle beltà naturali di Capri è quella stessa dell’uomo che si prepara a lasciarla, a lasciare la vita per raggiunti limiti d’età, e che trova proprio nella bellezza dell’isola, in qualche modo eterna situandosi al di là degli accadimenti umani, il motivo che gli consente di separarsene.  Il testo si dispiega su più livelli ed è anche una sorta di libro contrario al genere del romanzo di formazione, diremmo, poiché riguarda la senilità.

La bellezza è uno dei cardini della riflessione di La Capria: simbolo dell’ideale di eternità, a sua volta intrinsecamente connesso all’eternità degli elementi naturali, consente il distacco: in fondo Capri c’è stata prima di lui e ci sarà dopo di  lui. Egli già conosce come saranno i pomeriggi e i crepuscoli che si avvicenderanno dopo la sua dipartita, persino noiosi e vuoti, e sull’onda di questa certezza può saturarsi dell’amata fino a non più desiderarla.

“Capri e non più Capri” è il libro di un uomo appassionato e viziato, esteta e intellettuale, sazio e insoddisfatto, depresso e pieno di vita – se mai questi potessero essere ossimori – il quale ci consegna un autoritratto intenso e complesso, in cui la prosa risente dei vari stati d’animo, trascinante o un po’ distaccata, sempre ricchissima di citazioni e riferimenti, di rimembranze e di confronti, di rapidissime comparazioni e di prolungate descrizioni.   Il pensiero in La Capria ha un moto spontaneo, umorale, perennemente zampillante, che evade la linearità della riflessione per saggiare gli scarti che l’analogia consente arricchendo percezione e riflessione insieme.

Così ora per noi Capri è sempre Capri, anche grazie a Raffaele La Capria, o forse contro.

                                                                                                          Rosa Pierno

lunedì 6 febbraio 2012

Davide Campi “Le cose nella luce” Anterem, n.83, dic. 2011

Effettuare un esperimento vuol dire ritagliare un ambiente in cui risulta ridotta la complessità del reale, creare un microcosmo in cui le componenti in azione  siano conosciute e verificare il comportamento di un elemento in tale simulato ambiente. Per Davide Campi, nel suo ultimo lavoro “Le cose nella luce” dal n.83 di Anterem, dic. 2011, tale ambiente è dato da una “costante illusione” all’interno del quale “una pulsante chiarezza trascina gli oggetti dai postriboli del sogno alla loro vita quotidiana”.

Dopo avere disposto oggetti alla stregua di una scenografia morandiana, Campi li investe con una luce a ondate, a fiotti: “maree di luce impattano la schiera ordinata delle cose, con il continuo clamore di un’emersione dall’indecifrabile”.  Il bisogno di tenere tutto sotto controllo ci fornisce il secondo indizio, il secondo elemento invariante: colui che scrive è un soggetto spossato da un lavorio frenetico, incessante, che letteralmente si oppone all’invadente realtà come se gli franasse continuamente nel giardino di casa.

L’indecifrabile se non ci fosse volontà di decifrare sarebbe di innocua insignificanza, appena un reperto, colto e subito rigettato, sasso o rametto di infima valenza, e invece è il motore della disillusione: l’indecifrabile colloca il soggetto in stato di allerta perenne. Costringe il protagonista a percepire, ed egli non può staccarsi dall’atto della sorveglianza nemmeno nel sonno, in cui anzi, si amplifica il numero delle immagini al di fuori di ogni controllo.

La luce, che rende presente il mondo:
“ne acumina gli angoli, ne rende abrasive le superfici.
La coscienza viene cesellata da questo passaggio in modo automatico.
Esso lascia un sentiero di graffi e ferite lungo una vita intera.”

I tentativi di matematizzare tali occorrenze al fine di isolarne una legge, individuata la quale si può controllare il fenomeno, paiono votati a uno scacco, poiché nella percezione, passiva, vi è sopraffazione. Il caos del mondo esterno entra in conflitto con la tendenza strutturante della coscienza. D’altronde, il tentativo compiuto da Maurice Merleau-Ponty di approntare un nuovo modo di filosofare che unisse percezione e ontologia per afferrare la risonanza delle cose, l’invisibile, per far vedere attraverso le parole, deve accettare di correre il rischio della passività del soggetto, dell’imprevedibile mutamento degli oggetti.

“L’azione della luce obbliga, prima di tutto, a recepire, sebbene spesso in modo solo passivo”.

Soltanto la rassegnazione pare riuscire a porre un argine, la quale peraltro non consente né pause, né vie di fuga. Mentre la luce “crea solide montagne che, col loro peso esattamente sul petto, trasformano il respiro nel faticoso ansimare  di chi insegue sempre, sempre a pochi passi, sempre indietro”. Se risale alla mente l’immagine dell’insetto capovolto in Kafka, qui, è prepotente un’apertura della coscienza verso il reale, poiché non sa sottrarsi alla malia di queste ondate in cui ogni volta è possibile rinvenire qualcosa sulla spiaggia.

L’attenzione mai deposta portata agli aspetti più cangianti e appena palpabili degli oggetti, i loro riflessi, la loro posizione, il loro giocare a rimpiattino come nel gioco “un, due, tre…stella!” è ciò che emerge come il portato più significativo di questo testo di prosa poetica.  Se l’apparente stato iniziale era quello di un esperimento, ora ci pare che sia la costruzione di un’immagine. E che la sua nascita cancelli l’immagine precedente come un’apparizione che  la sostituisca radicalmente insieme a tutti i suoi vocaboli aventi connotazione depressiva: immobilizzazione, irrimediabile, smorzate, piagate, inadeguatezza, implacabile. In fondo, lucori, fulgori, spigoli taglienti, balzi in avanti, confini attraversati, ombre della notte, urti, impatti, sequenze amplificate, marciano trionfalmente verso la costruzione di un ordine percettivo diverso da quello atteso, ma inevitabilmente costruito proprio da chi desiderava che il mondo apparisse diverso.  

A questo punto poco impressiona che il soggetto percipiente conservi la sensazione di restare sempre indietro. Il testo ci mostra una visione d’insieme, sorta di grandangolo, in cui noi scorgiamo che egli in realtà è all’inseguimento, che non lascia respiro alle cose, che le pedina e ne devia il percorso, che ne ottiene superfici che variano, poiché il soggetto è la luce e la dirige in maniera che alle cose non è concesso fare, che esse devono subire.   

                                                                                     Rosa Pierno

sabato 4 febbraio 2012

Rosalba Carriera



Polveroso pigmento simula le più irriducibili materie: dall’incarnato soave e arrossato alla pelle che riveste il libro tenuto sotto al seno e  dalle vaporose chiome allo scintillante sguardo, ma chiuse a qualsiasi approfondimento da parte di occhio indagatore. Non si penetra nelle intime psicologie di siffatte anfibie creature. Tra nuvole e pesanti sfondi stanno come velieri in teatro, rullanti su finte onde.

Nel punto di luce si metta un punto di bianco e sulla pupilla un punto nero, il contorno dell'occhio si carichi con tinta bruna e il resto di tinta celeste. Il contorno si riempia di una tinta bruna, prelevata dal sottobosco in un’umida giornata, e il resto della luce lo si crei con una piccola punta di nero alla sesta tinta dei colori chiari, sì che a ogni chiarore corrisponda un punto oscuro, che risulti d’indecifrabile individuazione.

Veli aleggiano intorno a seni e collane accelerano il percorso dello sguardo dagli occhi ai capezzoli. Pappagalli poggiati sulla spalla o  corone di alloro fra i sottilissimi capelli riempiono lo spazio non occupato dall’esile corpo.


Che donna dipinga donne è di curioso effetto. Pregiudiziale lente deposta comporta comunque il riconoscimento di una diversa modalità di rappresentare. Marchese o imperatrice, ninfe o ragazze con scimmiette sono colte in miracolo di beltà e di giovinezza a mostrare con sguardo limpido o sfuggente un aerato pensiero e un ponderare estatico: esibiscono fiori nei capelli e fra le mani, pelle di porcellana e dignitoso e fiero portamento; hanno fuggevole presenza e presagito senso del frettoloso scorrere del tempo e rimarcano che la polvere di cui sono fatte è la stessa a cui ritorneranno.

La carnagione tenera di donne, ragazzi o piccoli geni si fa macinando una piccola punta di cinabro nella biacca; ciò serve per le parti  più chiare delle carni.

Persino ritratti di uomini svaporano al vento della storia e, attaccati da sfarinata luce, resistono, ancora per un attimo, allo sguardo dei secoli.

La tinta delle carnagioni di donne e di bambini si compone come la precedente di biacca e di un ottavo di giallolino, eccettuato però della quantità di carminio che vi sostituisce il doppio di cinabro.

Ha gli occhi strabici, Primavera, mentre offre un forbito bouquet di promesse. Instabile senso coglierà bersaglio come sguardo nudo seno? Nell’acre nero su cui fiorisce volto e splendido busto, ultima cosa che si nota è la mano che benigna porge.

Fiori adagiati su corpetti, sete damascate e fiori intrecciati ai viluppi delle chiome donano all’aspetto ridondante concetto.

“Ritratto di giovane donna” non è che uno sgretolarsi in luce o in fine polvere: la materia non avendo altra consistenza. L’apparenza è un ricostituirsi e un svanire nell’occhio, è sufficiente allontanare leggermente lo sguardo e i contorni franano, la seta cangia, i merletti si sciolgono, i petali di rosa svaporano. Persino lo sguardo della donna ritratta non mette a fuoco: essendo sfibrato e illanguidito da inafferrabile realtà.

                                                                           Rosa Pierno