Sabato 5 maggio 2012, h. 16,30
“La ‘poesia’ e la scrittura formale del ‘fare’”
E’ difficile scambiarci qualche nuova idea sulla “Visual Poetry” (riassumo in una definizione … internazionale le diverse etichette) dopo quanto illustri operatori e critici e storici (solo per far qualche nome, scusandomi con gli altri: Accame, Accattino, Bentivoglio, Spatola, Pignotti, Miccini, Fontana, Perrotta, Lora-Totino, Sitta, Sarenco… ecc…) hanno fatto e scritto in proposito - e ancora oggi egregiamente ci illustrano.
In genere la storiografia critica spazia dalle origini dei Codici Miniati, a Mallarmé,
ai Calligrammes, al Futurismo e via via fino alle Neoavanguardie del Novecento, e alle attuali post-avanguardie. Le metodologie, gli stili, e le motivazioni estetiche o idelogiche sono diversissime, ma tutte si manifestano attraverso la visualizzazione della lettera e della parola. Sovente fino a sconfinare nella pittura: ma allora, fatte le debite eccezioni, sarà bene parlare decisamente di pittura.
La scrittura verbo-visiva, come ben sappiamo, propriamente lavora sulla parola e sulla lettera: che usa ed elabora come materie fisiche, formali ed espressive.
Il supporto in genere non è di grandi misure, bensì ai limiti della pagina o non molto di più. Ed anche se talvolta di grandi misure si tratta pur sempre di una pagina.
Quest’ultima caratteristica giustifica il concetto di scrittura, di grafia e infine di poesia. La scrittura verbo-visiva si legge sulla pagina, o sfogliando più pagine, così come si legge sulla pagina la poesia. La poesia, che peraltro, diversamente dal compatto discorso prosastico, si pone sempre spazialmente e ritmicamente sulla pagina medesima: vedi, esempio principe, Mallarmé.
Ecco, perciò, che la poesia cosiddetta lineare, sotto questo particolare aspetto, non si diversifica dalla poesia visiva. E viceversa. Il gemellaggio tra la poesia lineare e la poesia visiva, riferito alla loro espressiva collocazione sulla pagina trova l’esempio più appropriato nel Sonetto, secondo le classiche tradizionali misure. Il sonetto è infine un oggetto strutturato (direi persino architettonico) e compatto che affronta lo spazio del foglio, al di là dello stesso significato, secondo misure letterali (cioè per lettere e righe o versi, o strofe). Ciò vale ovviamente anche per altre scritture poetiche tradizionali, come la Canzone, il Poema con le sue misurate scansioni, ecc., per non dire inoltre dello spartito musicale, che elabora secondo criteri visivi, di non minore fascino, la comunione fra suono e parola-canto.
Se queste considerazioni formali si possono ritenere non superficiali (vale a dire di banale superficialità) e non del tutto ovvie, potremmo dire (forse paradossalmente)
che una pagina di poesia per il lettore, ma altresì per lo stesso scrittore-poeta, è sempre formalmente una pagina di scrittura visuale. E, per l’appunto, non si tratta di una caratteristica superficiale ma decisamente di senso (oltre il senso del significato contenutistico): altrimenti non si capirebbe perché, anche nella poesia lineare, si debba andare a capo, fra l’altro anche quando il verso sia libero. Per ragioni di ritmo si dirà, ma il ritmo, come in uno spartito musicale, trova le sue scansioni nello spazio (della voce e, quando scandito in silenzio, della mente).
Non so se si possa accettare questa impostazione formale (poesia verbo-visuale uguale a poesia lineare, e viceversa). Ma personalmente (e mi scuso per questa, per altro amichevole e discutibile, pretesa) l’idea e la sua concreta, materica, oggettualità assai mi intrigano e mi costringono a chiedermi – oltre la facciata – in che cosa la scrittura poetica - comunque, se mi è concesso, sempre e ovunque verbo-visuale - trovi appunto il suo senso oltre il senso, per altro sempre ambiguo del significato più o meno ideologico, sentimentale, filosofeggiante e sintattico.
Azzardo una modesta risposta assestandomi sulle dismisure dell’immagine, dello spartito, della voce ancorché silente. Per inciso si può osservare che in termini verbo-visuali - si pensi per es. alla poesia cosiddetta Tecnologica - il suono-voce è sovente visualmente gridato, mentre è sovente più visualmente sommesso nella poesia cosiddetta lineare. Tuttavia non si tratta di una differenza generalizzabile e non limita l’ipotesi d’uguaglianza avanzata.
Il discorso, per questa via, si farebbe troppo lungo e problematico. Perciò mi limito a qualche accenno propositivo e a qualche citazione.
Lo so che posso essere accusato di ovvietà e manierismo se per l’ennesima volta sono costretto a fare un nome forse troppo usurato – tuttavia a mio avviso niente affatto datato in quanto di valenza decisamente fondativa: cito (non me ne vogliate!!) Marcel Duchamp.
E precisamente dagli appunti per il Grande Vetro pubblicati in Italia da A.Bonito Oliva (Lerici 1978) con il titolo Il Mercante del segno, che lo stesso Bonito Oliva definisce ancora “Duchamp il mercante del silenzio”.
Dovrebbero bastare queste definizioni a sostenere la tesi prima proposta, anche se troppo temeraria, in quanto suggeriscono alcuni princìpi-oggetti ai quali ritengo di dovermi comunque ancorare, per la poesia tout-court, lineare o visuale che sia:
il Segno, il Silenzio, la Mercanzia, quest’ultima quale oggetto concreto, misteriosamente (materialisticamente, mentalmente, sensitivamente) tangibile della creatività poetica ed estetica in generale.
Bonito Oliva passa dalla creatività artistica di Duchamp, assolutamente abnorme e squisitamente concettuale rispetto alla tradizione pittorica, alla qualità altrettanto concettuale ed ermetica della scrittura che rileva in particolare nei Morceaux moisis.
Si tratta di aforismi in cui fin dal titolo dominano il non-sense e il gioco di parole, realizzati sulla omofonia nello scambio tra “morceaux choisis” (brani scelti) e “morceaux moisis” (pezzi marci). E’ il consueto rapporto (sovente ambiguo tanto diffuso nella visual poetry) fra oggetti trovati (ready made seppure in collages tratti da giornali, stampe, ecc.) e analogie verbali talvolta… inconsciamente trovate.
E della poesia, soprattutto contemporanea, ma anche classica, così come delle strutture visuali dei Grande Vetro, va rilevata come in Duchamp la “programmatica incompletezza, l’impronunciabilità, e il frammento come illuminazione, pausa”… e suono inaspettato si manifestino (epifanie) entro il vuoto. Anche tra verso e verso, strofa e strofa. E si può leggere con questa propensione appunto un sonetto, una terzina, un enjambement, una analogia sonora o ritmica… Il tutto, in miscellanea, ripeto, seppur programmata (anche il ricorso al caso è programmabile!), entro le dismisure spaziali della pagina.
Possono valere sia per la poesia ‘lineare’, sia per quella ‘visuale’ detti (duchampiani)
del tipo: in fin dei conti (al di là del significato contenutistico, pur sempre ambiguo) il Grande Vetro (con le sue grafie, come noi potremmo dire per un sonetto o una poesia visiva) non è fatto che per essere guardato con occhi estetici (è questo il senso della energia formale prima - perciò primigenia - del senso strumentale o sentimentale).
Sintesi e parafrasi di altri detti di Duchamp che valgono, ripeto per la poesia lineare (che poi tanto lineare sempre non è), per la visual poetry:
Isolare il segno della concordanza tra pausa (riposo) e scelta delle possibilità legittimate da leggi occasionate…
Suono continuo (anche, soprattutto, silente) proveniente da diversi punti che forma una scultura sonora duratura…
Necessità della ‘continuità ideale’ secondo la quale ogni raggruppamento di segni e di parole sarà legato agli altri raggruppamenti da un significato formale rigoroso…
La figurazione di un possibile… Il possibile è solo un mordente fisico… che brucia tuttavia, infine, ogni estetica…
Grammatica = come collegare i segni elementari quali le parole e le immagini in gruppi che diventano idee di azione, di essere…
Tra i nostri articoli di chincaglieria pigra raccomandiamo un rubinetto che smetta di sgocciolare quando non lo si ascolta…
Questa frase, invece di descrivere l’oggetto come avrebbe fatto un titolo è destinata a portare la mente dello spettatore verso altre regioni verbali (per inciso: procedimento tipico surrealista).
Quando il fumo del tabacco sa anche della bocca che lo esala i due odori si accoppiano per ‘infra-sottile’.
L’infra-sottile non è infine, possiamo dire noi, la misura immisurabile del segno poetico, qualsiasi sia l’oggetto e il suo senso, nella poesia cosiddetta lineare, come nella poesia cosiddetta visuale?
* * *
Domenica 6 maggio 2012, h.10,30
“Martino Oberto e l’Anasenso”
Il riferimento è al volume “Il segno irraggiungibile” (ed.Mimesis/Carale 2012).
I saggi e, fra gli altri, gli interventi in particolare, di Adriano Accattino, Lorena Giuranna e Raffaele Perrotta hanno messo in rilievo il progetto anascritturale avviato da Martino Oberto fin dal 1955, anticipatore in buona parte delle esperienze dell’Arte gestuale, dell’Action painting, dell’Arte concettuale e della Visual Poetry.
Ad una osservazione del tutto superficiale, se si prescinde da opere in cui la scrittura rimane ancora essenzialmente pittura (per es.“Anafilosofia”, o Philosophieren”…) le opere gestuali in mostra e in catalogo potrebbero apparire semplici schizzi se non addirittura ‘scarabocchi’ (?!). Tuttavia i relatori mettono opportunamente in rilievo il progetto filosofico-scritturale di Oberto, in cui “Ana”, il nome della rivista da lui fondata, sta per privazione, negazione. Per ‘pulizia’ rispetto ad ogni manierismo di pensiero e di attualità. Ma ancora vale di contro per elevazione e pure per retroazione (contro, appunto). Si fa strada l’ipotesi, sulla quale insiste Perrotta, di un’arte non finita (con intenzione filosofica quindi e non per mancanza di tempo), e, vorrei aggiungere, non mai cominciata. Il segno libero (secondo Accattino), fatto, rifatto, cancellato, ridotto, accumulato, elevato e insieme deprivato (Ana) di senso (ma non di sensitività)… senza interruzione di continuità, diviene quindi il segno dell’assenza come illogica presenza materica.
Sottolineo a mia volta i concetti (tanto accarezzati in seguito) di interminabilità, di poema interminabile, perciò di metamorfosi: biologica e cosmologica. La sintesi cosmologica, dell’universo degli universi, macro o micro che siano.
Le singole opere anascritturali, analinguistiche, esposte e in catalogo non vanno perciò osservate singolarmente come quadri o banalmente pitture, o disegni, bensì come eventi appunto cosmologici o biologici, accidentali, di nascite, morti, rinascite. Potremmo dire dal nulla al nulla, dal tutto al tutto. Viene in mente il detto di Meister Eckhart, secondo il quale Dio non ha figura perchè è Nulla rispetto al visibile e all’intelligibile, perché è nella sua presente eterna evoluzione epifanica, al di là di qualsiasi immagine, intelletto, volontà… Dio è colui che è, e basta! Così il segno di Oberto (e di molti altri, nel secondo ‘900, suoi coevi o dopo di lui) è il segno che è, e basta. Nel quale se vogliamo, possiamo farci coinvolgere non solo intellettualmente, ma essenzialmente, metamorficamente e materialisticamente.
Allora questa non è una mostra da guardare, bensì da vivere.
Gio Ferri