venerdì 22 marzo 2013

Giuseppe Borrone su “Lincoln” di Steven Spielberg


Regia: Steven Spielberg; Origine: USA, 2012; Durata: 2h 30’; Distribuzione: 20th Century Fox; Genere: Biografico - Drammatico - Storico; Cast: Daniel Day-Lewis, Sally Field, Joseph Gordon-Levitt, Tommy Lee Jones, David Strathairn, James Spader, Hal Holbrook; Sceneggiatura: Tony Kushner; Fotografia: Janusz Kaminski; Montaggio: Michael Kahn; Data uscita in Italia: 24 gennaio 2013


Primi mesi del 1865. La guerra civile di secessione volge al termine, dopo quattro anni di sanguinose battaglie. L’appena rieletto presidente Lincoln spinge per l’approvazione, da parte della Camera dei deputati, del 13° emendamento della Costituzione americana, ovvero l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. Un provvedimento legislativo di portata storica, che il presidente vorrebbe licenziare prima della fine del conflitto bellico. Ma riuscire ad ottenere la maggioranza parlamentare non sarà impresa facile. E machiavellicamente i fedelissimi di Lincoln si muoveranno per convincere e blandire, con prebende varie e promesse di prestigiosi incarichi di lavoro, i deputati riottosi nelle due settimane che precedono il voto. Il più importante atto normativo del 19° secolo è stato ottenuto attraverso la corruzione, sentenzierà sardonicamente il leader dei Radicali Thaddeus Stevens, principale sostenitore dell’abolizione dello schiavismo.
Dopo “Il colore viola” e “Amistad”, Steven Spielberg torna a riflettere sul grande processo di integrazione della comunità nera nella società americana. “Lincoln” può essere letto come un viaggio nella genesi e nelle radici del fenomeno Barack Obama, primo presidente di colore nella storia degli Stati Uniti. Ma è anche, e soprattutto, una grande lezione di etica e di politica, una lucida incursione nei meccanismi che regolano il governo della cosa pubblica. Fin dove è possibile spingersi quando il fine giustifica i mezzi, può la nobiltà di una causa autorizzare trucchetti strategici e procedure poco trasparenti? E il conflitto di interessi tra le comprensibili preoccupazioni familiari – l’opposizione di Lincoln e della consorte all’arruolamento nell’esercito del primogenito, dopo la morte in battaglia di un altro figlio - e l’uguaglianza dei cittadini davanti ai doveri patriottici come può essere risolto?
Nella sua sconcertante attualità e modernità, il capolavoro di Spielberg sceglie una strada cinematografica alternativa alla facile spettacolarizzazione per smontare i congegni della vita democratica di un paese occidentale, mostrandone limiti e contraddizioni. Lasciata alla scena iniziale di battaglia, che evoca la sequenza di apertura di “Salvate il soldato Ryan”, il contributo di adrenalina alla drammaturgia, il film, sceneggiato dal premio Pulitzer Tony Kushner sulla base del libro “Team of Rivals: The Political Genius of Lincoln”, della storica Doris Kearns Goodwin, inanella lunghi confronti dialettici al posto dell’azione per descrivere la costruzione del consenso. Il rifiuto di ogni artificio retorico lascia emergere le crude considerazioni opportunistiche e i compromessi che ispirano anche le più nobili iniziative. La scontata rappresentazione agiografica è sostituita da una ben più interessante descrizione chiaroscurata di un personaggio entrato nel mito, ma spesso imprigionato in una banale e riduttiva ricostruzione biografica.
La statura morale di Abraham Lincoln, nella superlativa interpretazione dell’attore anglo-irlandese Daniel Day-Lewis, già testimone della nascita della nazione americana in “Gangs of New York” di Scorsese, è superiore alle beghe e agli intrighi calcolati. E basterebbe riascoltare il suo discorso finale, sulla pacificazione del paese, dopo le laceranti divisioni e la guerra fratricida, per averne una lampante conferma. Resta tuttavia la sensazione spiazzante e il paradosso di un film che, nel denunciare il lato torbido della politica, ne dimostra contemporaneamente l’altissima utilità sociale e l’indispensabile funzione di salvaguardia dei baluardi fondamentali di un popolo e di una civiltà. Senza inutili ipocrisie né visioni manicheistiche di una realtà più complessa e sfumata di qualsiasi tentativo di ingenua semplificazione.

                                                         Giuseppe Borrone

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