La poesia è
sempre “in avanti” (Rimbaud) e per questo è profezia. O se vogliamo, va
dove è sempre già stata, là dove il principio di contraddizione (e
dell’irreversibilità del tempo) non ha ancora compiuto i suoi disastri. Al
luogo della (o delle) origini(e). Come dice Ossip Mandel’ŝtam: “La poesia è un
vomere che ara e rivolge il tempo portando alla superficie i suoi strati
profondi più fertili, la sua terra nera torna alla luce”.
Questa nera Terra (la voragine che vibra sotto la crosta del
mondo e dell’io, "vibrazione ininterrotta
di un'apertura" - seppur nella 'negatività' del suo darsi – in
rotta col tempo lineare e lo spazio euclideo), il poeta deve continuare a
innalzarla, a illuminarla. Trasformarla, per alchimia verbale, in Thule, in
Monte Analogo.
Il poeta è l'uomo. L’uomo che riporta la
terra-frammento alla totalità (perduta) del Cielo. E che esperisce con dolore
l'impossibilità 'umana' di quest'atto.
Ma
tutto, di questa terra, dovrà essere offerto alla parola: anche l’afflizione
carnale di un popolo sconfitto, le gesta dell’arrogante custode della polis, i
suoi giri di trapano nel vivo marmo dell’Areopago. La peste di Tebe si perpetua
nel tempo, il poeta lo ripete in nuovi simboli, con la straordinaria fragilità
della sua parola.
Morte sono le magnolie sui viali arsi
dell’alleanza. La poesia deve dirla questa morte, ma sempre le manca la
metafora-‘vortice’, luogo dell’impossibile.
Troppo impetuoso il mare della metafora, e al
pilota-poeta non è consentito deviare dai sillabari, dall’ordine di rotta, che
per un istante.
L’istante, quella lunetta bianca nel senso,
gli basti. Gli basti il suo impeto rovinoso, perché la metafora vive del
medesimo splendore - il senso – che accieca il poeta mentre accosta la riva.
Viviamo, postumi, di deficienze virtuose:
Campana, Artaud, Amelia Rosselli, Cacciatore, Emilio Villa, Blotto e pochi
altri. Per delirio empatico, per sottrazioni e vertigini.
Word in sorrow.
Stecchi pure la parola, non importa. Ma ch’essa rimanga – tremando, arrossendo
- come la scala che conduce la Terra a
quella sua luce perduta, da molti chiamata Cielo. Si azzoppi, ma il suo
claudicare, il suo andare per lapsus faccia brillare fino all’insostenibilità
dello sguardo l’oscuro, il sepolto.
Poiché la luce
è palpito del nero.
Solitudine
dell’essere è l’a-venire del senso.
L’Essere, che la poesia porta al parossismo
dell’apparire, è l’improbabile, l’assente. Come dice Jacques Dupin: “La poesia
non respira, non si distende che tesa dal desiderio dell’altro. Poiché l’altro
è lo sconosciuto, poiché essa è sempre l’assenza…”
La poesia, che non ha dimora propria, è
ospitalità dell’altro (Jabés).
Accolto nella parola poetica, l’altro
riconosce l’impossibilità del dimorare.
Il linguaggio non è la casa dell’Essere, ma
del suo nomadismo.
Oppure: è la mutevole pienezza di una faglia.
Viviamo nell’epoca della desacralizzazione,
della nietzscheana morte di Dio. Dove cercare allora l’Altro? “Il coraggio del
poeta è nel contempo di portare nella lingua il pensiero di Dio che si è
ritirato e di concepire il problema del suo ritorno come una parentesi aperta
in ciò di cui il pensiero è ancora capace” (Alain Badiou). È in riferimento a
questa condizione epocale che va interpretata la solitudine dell’Essere, o
l’esilio al quale l’Essere è condannato dalla scienza, dal linguaggio
istituzionale, dai luoghi comuni dolcificanti di cui il magma sociale ci nutre
ogni giorno.
Essere non significa necessariamente Sublime.
Tutt’altro: è la pastosità bianca di ogni cosa. L’essere che insorge, minima Lichtung,
dalle frange più povere, derelitte e indifese del linguaggio.
L'Essere si annuncia quando il linguaggio
chiede alla poesia di prendersi cura del mondo. Una cura disperata (come in
Benn, Celan, Campana), che, se non redime il mondo, lo porta nondimeno alla sua piena
epifanizzazione, elevando le sue lacerazioni, la sua follia, al Senso.
La poesia infonde “mondo”all’elemento
infimo, lo fa essere-mondo
[“la mela
povera si carica di mondo”, per citare un mio verso, in Taglio di mondo.]
Questa gaudiosa povertà del dire (dire
l’ombra, l’oggetto rifiutato, la perlina smarrita nella sabbia…il rovescio
dunque dell’utile, del monetizzabile) fonda la resistenza dell’atto poetico. La
poesia è atto di resistenza contro la
lingua di comunicazione, che ci assale con la sua ‘violenza vuota’:
vuota d’anima, vuota di senso. Essa risponderà, ad esempio, con la violenza
sottilissima della parola di un corpo che non accetta più la patinata
reificazione in cui l’immagine (clinica, societaria, pubblicitaria) la
costringe.
Sarà
la violenza euforica del dionisiaco, oppure l’ictus tragico del corpo divelto,
violato, massacrato che si ribella. I due sembianti di un medesimo corpo.
Reversibili, entrambi, nell’enigma.
La poesia dice la verità come ossimoro. Dice
le verità plurali e contraddittorie.
La poesia annuncia quell’enigma, o
quell’Ossimoro assoluto che è l’esistenza.
Gilberto
Isella
Nessun commento:
Posta un commento