mercoledì 9 marzo 2016

Giorgio Morandi


PITTURA

VASI E BOTTIGLIE

Spinge la tavolozza ai limiti del visibile, smorza la distanza tra i toni, chiude le imposte, brucia l'immagine nella retina. Finché i colori si distinguono sperimenta il punto limite rispetto al quale la luce può ancora ammantare le cose, scivolare e tornire gli oggetti.

Sembra bruciare oggetti e fondale con la fiamma ossidrica. Più che vasi paiono tronchi fossili, boccali ossidati, reperti di un'era arcaica.

Certi gialli acidi rimpolpano la materia e servono a distanziare i vaghi toni da ceramica giapponese che tendono, invece, ad astenersi dall'esistere e danno allo sguardo la preminenza sul tatto,  arretrando fino a dove la mente si sperde.

Per contro si può, con abbrunato pigmento carico di spenta polvere, caricare di materia oggetti consunti e ridargli un nuovo nome.

Ciò che è denominato natura morta, viva non è mai stata. Conchiglie, pipe, vasellame non producono nemmeno ombra. Pensiero non si rintana in questi vuoti gusci.

Dovrebbero essere volumi, poligoni, cilindri, le bottiglie e i vasi assemblati come soldatini in sghemba parata. Invece sono trattati come superfici: si afflosciano l'uno sull'altro, producono risibili ombre, tentano di stare in prima fila coi soli toni più squillanti!

In un continuo dichiarato scambio tra pieni e vuoti, tra volumi e superfici, non è di poco peso l'artificio che ivi gioca la sua mano. È un dichiarare che sarebbe convenzione considerare la bottiglia un cilindro e il piano una superficie. Colore s'incarica di mostrare lo scambio, di ripristinare il dubbio. Nulla sarebbe certo sotto il sole, nel quadro!



Tant'è che alcuni vasi e brocche si addensano come le pieghe di una tenda, mostrando superfici ripiegate. Anzi, in tale ispessimento di materia, nemmeno più si distingue ciò che è in primo piano e ciò che sta dietro: bricchi e portacandele si stampigliano l'uno sull'altro e l'ombra vi è elargita come enigma da decifrare.

Acquerellata sagoma di ceramico bricco diviso in due zone dalla luce e dall'ombra, o smangiucchiato da un’abbacinante fonte luminosa, dichiara la propria inconsistenza come oggetto appartenente al reale e apre a considerazione di cognitiva specie.

Un solo colore ravviva l'intera serie di poco distinguibili trapassi di tono e denuncia un'estraneità rispetto al materiale ceramico, implicando una diversità non riducibile alla sostanza.

Se allampanati cilindri svettanti sulla mensola interrompono il flusso del lucore, triangolari bottiglie si smaterializzano tramite colore, scandendo spaziale ritmo.

Oblunghi recipienti potrebbero essere stati messi lì per indicare che contengono vuoto, che circondano con la loro sottilissima lamina un concavo ristagno d'aria. Addossati, se ne ristanno come una dimostrazione che sfida l'intuizione.


Che vivida presenza la palla bicolore nell'assemblaggio di ramati bricchi e scatole di latta! L'ombra, demandata a fingere con il suo obliquo menare profondità spaziale, cede il posto ad affermazione mendace che coagula senso con la sola presenza.

Certi toni da spolvero, da tenue ubriacatura, da seta impalpabile, menano lo sguardo per l'aia, non mentendo sulla reale portata dell'apparenza. Apparecchiano un piano degno di ogni sottilissima disquisizione.

Potresti pensare un concetto che avesse tali gradienti di luminescenza, tali inafferrabili barbigli, che fosse in grado di tenere ferma la mente su baluginanti contiguità e incommensurabili distanze?

Ce n'è abbastanza per riconoscere che fu pittore paradossale, poco incline a credere a quel che vedeva.

                                                                       Rosa Pierno

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