Presso
la Galleria Spazio Nuovo, Roma
Un lavoro sull’architettura della
città di Roma, quello di Camilla Borghese, motivato da una necessità interiore,
da quel sostrato che configura un sé non concettualizzato, che opera come
desiderio, e in modo tanto forte da portare a uno studio appassionato e
serissimo, è il focus della spirale della ricerca effettuata sugli edifici
romani, a partire dai monumenti romani per giungere a quelli situabili
cronologicamente a cavallo delle due guerre (De Renzi, Moretti, Libera), ma non
configurantesi su un doppio binario, giacché non si tratta che di un
allargamento della sfera di riflessione visiva e di esplorazione di un oggetto
impegnativo quanto lo è quello architettonico e, inoltre, così variamente
composito e stratificato come quello romano, di cui alla Borghese interessa
mettere in luce il gioco di invarianti.
Seguendo l’artista su questa pluralità
focale, in cui di volta in volta vengono messi sotto osservazione alcuni elementi:
intere, facciate, viste parziali, dettagli - e addirittura di difficile
individuazione a causa dell’ambiguità del reperto per il ravvicinatissimo punto
di vista - si assiste per questi ultimi a un prodigioso cambio di scala, in cui
il dettaglio vale per il tutto. Con enorme difficoltà, anzi, si risalirebbe
all’intero: lo sguardo si affossa nelle pozze di ombra liquida procurata alla
colonna di granito da scalfitture e abrasioni, mentre rifluisce via lungo la
curvatura addensandosi come mercurio nero su questa materia oramai refrattaria
alla storia, quasi ricondotta alla sua
origine da uno scatto che la sorprende, che la immortala prima che divenisse
altro: elemento architettonico.
Che, d’altronde, l’ombra sia trattata a
pieno titolo come materia compositiva, ce ne eravamo resi subito conto proprio
notando la sua assenza nella fotografia che ritrae il portico del Palazzo dei
Congressi di A. Libera all’Eur, dove la Borghese ha voluto far emergere per
mezzo di una luce indiretta il segno progettuale insieme alla raffinatezza dei
materiali, lo sgombro spazio delimitato da linee: una scatola volumetrica ritmata
dalla stessa luce. E, ancora, per restare nell’ambito del particolare, si veda
la fotografia che ritrae il basamento della Chiesa di San Carlo alle Quattro
Fontane del Borromini, la quale non
presenta l’architettura come costituita da un abaco di forme, ciascuna avente
la sua autonomia, ma altresì scavata in
un unico blocco di pietra, affiorata montagna in una sola notte, nata
direttamente dalla terra. Nel senso che uno dei caratteri del monumentale è la
sua incidenza nella nostra esistenza come qualcosa che oltrepassi la soglia di
artificio, divenendo connaturale, ordine e scala di riferimento quasi fisico. Riferirsi
al monumentale, dunque, per trarne la misura e dall’architettura desumere
ordine, ritmo, rapporto: quasi un logos visuale. Nella magnifica dorata
tessitura delle colonne del Tempio di Adriano in piazza di Pietra emerge,
protagonista, la luce, usata come fosse
una superficie riflettente su cui il ritmo della cesura dei rocchi dilapida la
sostanza lapidea degli stessi per farsi oleoso miraggio. Ed è dalla rete
concettuale fin qui fissata che vogliamo passare a quella che pare essere una
rappresentazione dell’oggetto architettonico vista sub specie aeternitatis.
Immagine di perfetto nitore e
magnificamente scolpita da sfumatissime gradazioni o minerali concrezioni d’ombra
è quella che chiude in uno scrigno percettivo non scardinabile la facciata di
Palazzo Barberini (edificato con il concorso di Maderno, Borromini e Bernini), la
quale, bloccata in una luce aurea che la congela come in una bolla atemporale,
ci appare fissata nell’eternità del non afferrabile: la bellezza certo non ama
nemmeno i confronti: è assoluta in sé e questo Camilla Borghese lo evidenzia
con alcune fotografie che ritraggono il monumento anziché come ente, come
disarticolato, inframmezzato ad altro materiale, coabitante con gli elementi
spuri con i quali è costretto a venire a patti: ringhiere, tettoie, coperture,
corrimano, vegetazione, ove forse più forte è l’accezione di monumento come
reperto. In ogni caso, la Borghese, sempre scegliendo quelle inquadrature che
presentano dell’architettura le regole classiche della progettazione:
simmetria, rapporto tra pieni e vuoti, proporzioni armoniche. Alla legge soggiacente nel manufatto
architettonico che emerge vieppiù nella serie di fotografie delle facciate di
edilizia residenziale di cui parlavamo all’inizio, la Borghese presta il suo
sguardo per trasmetterci la folgorante sintesi di un connubio che non è quello fra
soggetto e monumento, ma è il frutto di un riconoscimento che si materializza
nell’altro fattosi pietra.
Rosa Pierno
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