L’ottima introduzione di Massimo
Carboni alla raccolta di articoli e testi per conferenze di Theodor W. Adorno Long
Play e altri volteggi della puntina, Castelvecchi, 2012, intende calorosamente
evidenziare come il filosofo tedesco non abbia inteso azzerare il valore della
cultura di massa, ma abbia cercato, pur criticandone gli aspetti retrivi e
infidi, di sottolineare i vantaggi presenti nella diffusione degli strumenti
culturali attraverso le nuove tecnologie. Carboni, intende, per l’appunto, se
non rovesciare, mettere in dubbio l’idea pregiudiziale di un Adorno che
disprezzi l’arte di massa e la musica di consumo, poiché necessario gli appare
distinguere fra l’appiattimento dei valori culturali e la diffusione degli
stessi. Anzi, precisa
che Adorno considera necessario affinare i propri strumenti per cogliere
l’efficacia di tali fenomeni, spendendosi per analizzarne tutti gli aspetti:
“riconoscimento che un medium non è soltanto un medium, che ogni apparecchio è già il suo stesso uso, che la forma tecnologica genera le sue stesse
ricezioni, le funzioni sociali, i comportamenti individuali e gli stili di vita
che vi sono connessi, crea le proprie modalità di utilizzo, modella e in parte
predecide l’orizzonte di senso entro il quale si produce e si esercita”.
Il Long play è appunto un mezzo
tecnologico che consente una diffusione musicale impensabile prima della sua
apparizione e Adorno ne tesse le lodi. Lo stesso Carboni rileva che Adorno, non
abbassando mai la guardia sulla potenza della banalità nella ricezione di massa
e sulla sua autoindulgenza “votata all’obbedienza e rassegnata alla
mercificazione”, insista allo stesso tempo però nel non contrapporre arte e
seduzione, musica colta e musica di consumo e rifletta sul “progressivo
dissolversi dei confini tradizionali tra i generi, preparando in buona sostanza
il terreno alle attuali considerazioni estetiche sulla medialità”. Nella musica
commerciale si può trovare, inoltre, quella “immediatezza e genuinità” che è
andata persa in quella superiore, recando in sé l’”equilibrio tra la potenza
dell’impersonale e la persistenza dell’individuale”. Sebbene ci sia anche
un’altra ragione per cui Adorno apprezzi in modo particolare l’introduzione del
Long play: libera “dall’accidentalità delle false feste operistiche, permettendo
l’esecuzione della musica in forma ottimale e il recupero di qualcosa della sua
forza e intensità andate perdute nei teatri. L’oggettivazione, vale a dire la
concentrazione sulla musica come vero oggetto dell’opera”.
Nella raccolta affiora un altro tema particolarmente
importante: il ruolo e lo scopo della
critica. I bravi critici trovano solo in sé il terreno in cui coltivarsi e la
fortuna di essere seguiti o meno non ha mai potuto nulla sulla loro capacità di
realizzare nella maniera più propria la funzione della critica. Adorno, enuclea
le caratteristiche che definiscono tale funzione al suo più alto grado, i
compiti sociali, le intenzionalità interpretative, le capacità necessarie. Il
testo, contenuto nella raccolta, Riflessioni
sulla critica musicale verte sulla necessità per un critico musicale di
conoscere la musica, di saper leggere la notazione musicale, altrimenti, va da
sé, parlerà d’altro (“la questione della
tecnica e quella della verità del contenuto non possono essere separate l’una
dall’altra”). La critica “è una forma propria e non è un semplice mezzo” e “ha una funzione
obiettiva ed essenziale e non semplicemente una comunicativa”. E poiché la
spiritualità delle opere d’arte, cioè la loro verità, non è data in modo
definitivo, ma è piuttosto un processo, il critico vi si deve immergere non
adducendo “dall’esterno alcun criterio di giudizio fisso, fermo, già pronto”.
Deve accertarsi dei livelli formali raggiunti e quando questo accada è già
sufficiente a estirpare il pregiudizio sulla relatività dei giudizi artistici,
visto che deve fondarsi sull’”adeguatezza dei mezzi agli scopi”.
Dopo aver debellato il pregiudizio sulla
relatività storica, Adorno, abbatte anche quello sull’apporto dell’individualità
del critico poiché altrimenti “non sussisterebbe alcun rapporto tra il soggetto che conosce e giudica
artisticamente l’opera e la cosa stessa”. Ma nei confronti della pratica
professionale del critico, il filosofo tedesco, fa scoccare un’ultima freccia:
“Capacità critica è l’obbligo morale di portare la differenziazione fino
all’estremo“ e di non stemperarla per piaggeria o convenienza, poiché l’opera
d’arte è un fatto sociale e storico e di questo il critico deve dare evidenza,
estraendola dalla sua pietrificazione e
“ritrasformandola in quel campo di forze” il quale, solo, rende la
“critica vitale”.
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