giovedì 6 ottobre 2016

Flavio Ermini "Della fine. La notte senza mattino" Formebrevi, 2016



Ma come fa una notte a non avere mattino? È ancora più scura, ininterrotta, priva di forme e colori. È una notte priva di dialogo e di alternanza, di mitigazione, di contraddittorio. La sua definizione, non nascendo da una contrapposizione, la renderebbe ancora meno splendente, meno luminosa, meno rischiarabile. Riconoscibili, fra le altre, nel tessuto testuale, le voci di Kafka, Cioran e Dostoevskij, caratterizzano in maniera ancora più serrata il percorso-viaggio che si snoda nel saggio, legando alcune stazioni fisiche o mentali: il monte, le rovine, il crepuscolo, la soglia, la dispersione, la caducità, il silenzio. Boe attorno a cui la notte si rapprende con un'immagine interiore.

Giacché come lo stesso Flavio Ermini afferma nel suo ultimo saggio "Della fine. La notte senza mattino" Formebrevi, 2016: "L'infelicità è inevitabile. Nasce dall'urto tra il carattere illimitato dei desideri e il carattere finito del bene che ogni essere vivente riesce a procurarsi". Vedremo subito come questa sia in realtà  un'opposizione del tutto apparente, poiché se esiste ciò che si fronteggia, se esiste cioè la possibilità di procurarsi il bene, nella sostanza esso non ha alcun valore, alcuna capacità d'incidere nell'esistenza, di bilanciare il male. La quantità di male è eccedente fuor di misura, il timone per orientare la nave è rotto e nulla può per influire sulla rotta della nave che va inesorabilmente a schiantarsi. In ciò consiste l'unica certezza che possiamo avere: moriremo.

In questo senso, se la notte è senza mattino è perché il mattino è ciò che è presente più di ogni altra cosa. Esiste la consapevolezza della morte, perché desideriamo non morire. Solo sotto siffatta mentale luce - nonostante il pensiero non sia strumento sufficiente a farci evitare l'ineluttabile - coincidente con l'atto della riflessione e della scrittura, per quanto entrambe non possano assolvere alla sua eliminazione, pure, sono un baluardo di dignità che per Ermini ci separa dalla pura bestialità, dalla mancata consapevolezza. Il non voler vedere in faccia la realtà spaventosa, ci porta a voler rifuggire, a nasconderci il vero, in una perdita di noi stessi a cui  giungiamo ben prima prima della morte.

Non a caso, delle notturne tenebre condividiamo l'oscurità: la capacità di distinguere  viene meno, il pensiero non puntella nulla. La natura che ci circonda è anche in noi. A nulla servono le categorie quando sappiamo di dover "morire senza che venga riconosciuto un senso alla caduta". Dalla mancanza di senso si generano ombre che intorbidano la nostra vita. Essere persi nell'ingranaggio del processo naturale che ci fa nascere e morire senza che ci sia dato di scorgervi un senso, nemmeno quello del vivere per vivere: ecco che cosa vuol dire per il poeta non avere speranze.

"Siamo risucchiati nei moti vorticosi della materia e della sua irriducibile volontà di annientamento". A ciò nulla si può opporre: ragione, idee, movimento dello spirito, metafisica; più l'uomo desidera più affonda. Desiderare è imbattersi nel limite che non possiamo oltrepassare. In Ermini vi è posto per le carezze, la condivisione, ma sono come una piaga ulteriore, un approfondimento del dolore: anche i nostri consimili muoiono. Una vita senza morte ci consentirebbe di abitare la casa per sempre, eppure non crediamo che in questo modo il dolore si mitigherebbe. Forse, il non detto che essuda da queste pagine, giacché la morte a cui si imputa ogni male, angoscia e sofferenza è astoricamente dato, nel momento in cui viene posta l'equivalenza tra natura e uomo, è che il macigno sulla condizione umana non è sollevabile. Fatta, inoltre, piazza pulita, di ogni illusione, ideologia e fede in una vita ultra mondana.


L'analisi condotta da Flavio Ermini nella sua accecante chiarezza non può non lasciarci intravedere - a partire da affermazioni così assolutistiche sull'infelicità, il dolore, l'angoscia e senza possibilità di remissione - lo squarcio di un ulteriore velo, forse distruggendo anche l'ultimo rifugio, appiglio a cui votarsi. Se morte non esistesse, come sarebbe "vivere"? Se non dovessimo morire, vivere avrebbe maggior senso? 

                                                                               Rosa Pierno

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