Più che rappresentare i luoghi che John Keats deve avere incontrato
durante il suo viaggio in Italia in cerca della sua guarigione e di quel
contatto con una cultura latina lungamente sognata per aver rielaborato il
lascito della cultura greca, i quadri dipinti da Georgina Spengler ritraggono
visioni, paesaggi trasfigurati da un testo che si sta scrivendo mentre si
guarda dal finestrino della carrozza, a rimarcare l’artificiosità del concetto
di natura, la costruzione culturale del dato percettivo: da sempre difatti già inestricabilmente
intrecciati sono ciò che si percepisce e ciò che si conosce.
Se in alcuni quadri il dato paesaggistico è immediatamente
individuabile, la baia di Gaeta, il Lago Albano, la campagna romana, in altri è
l’invasività, la persistenza del colore a sommergere i particolari, a diluirli,
diremmo, con il pigmento stesso che s’espande sulle tele e invade la nostra
immaginazione. E’ sul colore oleoso, morbido e pastoso, che si vede scorrere,
come fosse uno schermo, il nastro testuale che percepiamo avere la sequenzialità
di una pellicola filmica.
In ogni caso, il paesaggio è sempre sottoposto a delirante
trasformazione, a diluizione o a ispessimento tramite il pigmento. Il verde
copre tutto come fosse un inchiostro che annebbi la vista per rendere presente
la voce interiore. Sarebbe stato davvero
interessante, in questo riuscitissimo esperimento di multiple sovrapposizione
effettuato da Georgina Spengler in occasione della mostra tenutasi a Roma presso
la Keats-Shelley House, dal 1 novembre al 15 dicembre 2008, ascoltare
effettivamente le poesie di Keats durante la contemplazione visiva, quasi per
constatare che testo e quadro ingaggino una lotta in cui nessun elemento può avere il sopravvento.
Dal dettaglio alla totale mancanza di particolari, dalla figura
all’informale, la Spengler non effettua cesure,
domina i linguaggi piegandoli all’espressione dell’enigma condensato
nel trapasso tra sguardo e logos, tra natura e poesia. E infatti questi molteplici livelli sono precisamente
individuati quanto al tempo stesso costeggiati come solo si può fare con
l’impensato. Nel lavoro della Spengler pare che proprio l’indicazione di questi
trapassi sia il soggetto, e soggetto inesplicabile, poiché esso deve essere
solo accennato, non ulteriormente sviluppato, al fine di conservare il nucleo
generativo, la forza motrice, di essere, insomma, la fucina creativa del
dialogo tra le diverse forme espressive. E di pari passo va la considerazione
che il medesimo lavoro sull’immagine abbia il suo motore propulsivo proprio
nella pluralità di possibili significati cui dà luogo, nessuno dei quali
fissato una volta per tutte.
Ciò naturalmente si sposa anche con la naturale attitudine del poeta
John Keats, il quale intendeva individuare nella bellezza il luogo in cui la
razionalità si fonde con il sentimento in una indefinita connessione attraverso
cui il mondo appare trasfigurato e sublimato in poetica invenzione.
I dipinti divengono pagina scritta in cui non il testo ha valore, ma i
colori con i quali esso è dipinto, gli sgocciolamenti, le indecisioni, gli
sfondi, la mancanza di lacune, in un tutto pieno che in fondo attesta la
visione che la Spengler condivide con John Keats. La scrittura diviene pittura,
a tratti si riconosce un paesaggio, un elemento di natura, ma siamo ben
piantati nell’interiorità di Keats e per traslazione in quella della Spengler. La
scrittura si dissolverà insieme al paesaggio per lasciarci dinanzi a un quadro
che è la somma variabile e mobilissima di poesia e pittura.
Rosa Pierno
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