mercoledì 28 novembre 2012

Padiglione Giappone, 13° Mostra internazionale di Architettura, Venezia


Fin dall’ingresso, con i grandi pali scortecciati di cedro provenienti dal maremoto che ha sconvolto il Giappone, che conficcati nella  corte del padiglione lo sfondano per attraversarne la  sala posta al primo piano, il Padiglione Giappone è uno degli allestimenti più riusciti, ma anche uno dei più emozionanti. E meritatamente ha vinto il Leone d’oro per le partecipazioni nazionali alla XIII Biennale di Architettura. L’origine di questo lavoro, nato dal disastro che ha devastato la costa nipponica per 400 chilometri, ha posto una sfida progettuale di non lieve entità agli architetti che sono stati chiamati a ricostruire un luogo comunitario “Home-for All” nella località di Rikuzentakata. Le domande nate quasi da uno stato di inanità rispetto all’immane devastazione a cui è stato sottoposto il territorio, hanno invece ricevuto una straordinaria risposta, capace di costituire uno stimolo anche per problemi architettonici completamente differenti.  

I tre giovani architetti, già affermati sulla scena internazionale, Kumiko Inui, Akihisa Irata, Sou Fujimoto, che l’architetto Toyo Ito decide di coinvolgere effettuano numerosi sopralluoghi, discutendo animatamente fra di loro e chiedendosi: “Potevamo davvero essere utili nelle zone devastate? Per di più, ridiscutendo l’essenza di un’architettura post-catastrofe? Potevamo, noi tre, dare luogo a una progettazione comune? Il risultato avrebbe acquisito una dimensione che trascendesse la singola opera architettonica? Quale poteva essere il valore simbolico di un progetto nato in quelle aree?”. Vi è la necessità di comprendere le modalità in cui la popolazione locale sta reagendo e sta cercando di ricostruire relazioni comunitarie e di provare a immaginare quale tipo di costruzione avrebbe potuto sostenerli, consentendogli di dare uno spazio appropriato alla ricostruzione della loro identità comunitaria. La  capacità reattiva delle persone che aveva, intanto, ricostruito luoghi di fortuna anche con mezzi di recupero diventa così trainante e da qui l’idea di recuperare gli alti fusti di cedro sparsi sul territorio.


Proprio intorno a questa “nascente “ società, nelle parole di Kumiko Inui, si è concretizzata l’idea di un’architettura che tendesse a dare una mano discreta alle potenzialità di tale piccola società, ponendola  in relazione al luogo senza privarla della sua generosità e quindi che fosse più che unicamente funzionale: “Credo che occorra oltre alla molteplicità, ovvero alla capacità di accogliere con benevolenza una pletora di attività, anche la leggerezza che liberi le menti, e un valore simbolico, affinché rimanga impressa nella memoria della gente. A mio parere non dovrà inoltre limitarsi a concettualizzare tali requisiti e a farli confluire in un unico design che li sublimi, ma conferire al luogo la diversità delle visioni del mondo, in relazione alla memoria della vita a Rikuzentakata”.

Il risultato che si può vedere nel Padiglione Giappone consiste in una miriade di proposte, tutte effettuate a partire dall’individuazione di una comune radice formale, che è quella dell’innesto dei materiali che recano il segno della tragedia (fusti, tronchi, canne, arbusti, travi)  in una liberissima composizione di terrazze e tettoie, diversamente dislocate, e su vari piani, le quali consentono un paradigma di infinite declinazioni atte a  favorire la vita comunitaria, in un costante rapporto con l’ambiente e il cui dichiarato obiettivo è quello di convogliare e amplificare il naturale aprirsi della popolazione al proprio vicino in ragione della dolorosa comune esperienza vissuta.


Vogliamo riportare per concludere le parole dell’architetto Toyo Ito: “A partire dall’epoca moderna, l’architettura è apprezzata principalmente per l’originalità. Di conseguenza, i temi primari – per chi e per quale ragione si costruisce – sono andati negletti. Un’area devastata, dove ogni cosa è perduta, offre l’opportunità perfetta per uno sguardo nuovo sull’essenza dell’architettura. Home-fo-all può essere un piccolo edificio, ma pone la questione vitale, della forma che l’architettura deve prendere nella modernità, e oltre”.
                                                               
                                                             Rosa Pierno

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