Il lungo graffio di una traccia morta
(Appunti su Scarto di Jacques Dupin, scomparso il 27 ottobre 2012)
(Appunti su Scarto di Jacques Dupin, scomparso il 27 ottobre 2012)
Jacques Dupin
(1927-2012) è considerato uno dei maggiori poeti francesi. Ha vissuto un
momento tra i più significativi della cultura parigina del dopoguerra, dando
vita nel 1967 alla rivista Ephémère, terreno
d’încontro di artisti e poeti, e la cui immagine di copertina portava la firma
di Alberto Giacometti. I suoi libri sono stati pubblicati da Gallimard e da
altre importanti case editrici. In italiano sono apparsi: Massicciata (Scheiwiller), Nulla
ancora, tutto ormai (Dadò) e l’antologia Divenire della luce (Garzanti), tutti a cura di Delfina Provenzali.
Gilberto Isella si occupa da anni della sua
opera. Recentemente ha tradotto e curato la raccolta Scarto (Lugano, Opera Nuova, 2011).
La comba
Ricettacolo e matrice, scrigno di enigmi
notturni e custode di un’arcaica ‘volontà di potenza’, la “comba oscura”
rappresenta per Jacques Dupin l’ultima
versione di un simbolo familiare. Pur mantenendo i tratti del biografema
indicante i luoghi dell’infanzia, in Écart/Scarto essa si carica di
connotazioni multivalenti. Un luogo fisico, all’inizio: valle stretta e
allungata tipica dell’Ardèche, la terra nativa che ha lasciato molteplici
segnali nell’opera dupiniana. L’espressione geografica-geologica si traduce
tuttavia presto in metafora scrittoria. Anche il paesaggio poetico di Dupin è
per natura impervio, scosceso, franoso, ricco di avvallamenti e faglie che
operano continue deviazioni e cesure rispetto al terreno uniformemente
soleggiato della langue, alla sua confortevole linearità.
Il paesaggio tabulare, spoglio e cadaverico,
ridotto fin da principio all’astrazione di uno schema, (“cima” e “fondo”, le coordinate strutturali di Scarto) è
lì a testimoniare “il lungo graffio/di una traccia morta”. Gli è solo concesso
di sovraesporsi, alleggerirsi (“fondo e cima presto alleggeriti”) fino a raggiungere, per opera
dell’”inchiostro che evapora”, una sorta di imponderabilità alle soglie
del divenire fantasma, della scomparsa:
Tabulaires, fond et cime Tavolati,
fondo e cima
et selon l’écliptique creusant
e secondo l’eclittica
le songe à midi che scava il sogno a mezzogiorno
n’étant que l’ample griffure non altro che
il lungo graffio
d’une trace morte di
una traccia morta
fond et cime allégés soudain fondo e cima
presto alleggeriti
par l’encre qui s’évapore dall’inchiostro che evapora
Tra
frammentazione e ombre minerali inabissate,
delimitanti il luogo del corpo e della parola, si muove l’immaginario
dupiniano. Nessuno, meglio dell’autore, potrebbe riassumerne le ambizioni:
Poesia, congiunzione di tratti
sparsi e e frantumi eretti, legame intrecciato di lineamenti nemici. Fragile
autorità del respiro infinito della voce spezzata. Denudamento ad opera del
fuoco che fa sorgere la lingua attraverso il corpo – manciata di torba, sale,
ceneri – la lingua stessa, la lingua senza la lingua – e il suo riso che
sfregia la notte, illuminando l’altra notte che si erge e ne prende il posto.
Come
ogni luogo nascosto o ripiegato su di sé, la “comba oscura” richiama la scena
primaria dove l’io poetico riconosce il proprio destino di
‘essere-per-la-scrittura‘ in quanto ‘essere-per la-morte’: facile avvertire, in
un verso della raccolta, l’assonanza tra “combe” e “inscription
de la tombe”). L’oscurità non genera oblio, bensì una memoria
intermittente e anamorfica. Una memoria tanto prodiga nel dispensare i
pittogrammi della lontananza ‘interiore’, quanto implacabile nel manometterli,
nel sottrarli alla presa diretta della significazione, nel vomitarli sotto forma
di scorie o rovine, di scarti dunque. Scarti del senso, figurati
attraverso gli scarti ambientali che il soggetto incide sulla propria pelle.
Ma la comba è soprattutto lì per suggerirci
le coordinate topologiche entro cui avverrà la produzione poetica del senso,
lungo un percorso costellato di antitesi e ossimori. Potrà allora configurare
la “gabbia indelebile” ma anche la sua soglia, la camera oscura del dormiente
con la luce invisibile che vi si raccoglie, l’implosione della parola e del
respiro e nel contempo lo spiraglio (la “breccia nel muro”, come dice una poesia di Lo sparviero), o ancora la finestra: “L’ombra attraversa
la finestra quando dormo”. Passaggi che consentono evasioni, o per dire meglio, il sempre problematico e
contraddittorio dupiniano ’’arrischiarsi’ verso il fuori. Anche quando il fuori
si rintana in retri, stamberghe e ripostigli, paradossali siti
dell’aperto-chiuso, scarti di ogni luogo ‘alto’ dell’Essere. La comba,
nell’altro-da-sé, non fa che replicarsi:
Moi j’occupe à fleur de peau Occupo a
fior di pelle
le galetas le cagibi la souillarde la stamberga il retro il ripostiglio
le ciel ouvert il cielo
aperto
crachin de langue, succulence acquolina in bocca, succulenti
d’un gratin de cardons dans le four cardi gratinati
al forno
et le nombreà fleur de peau e il
numero a fior di pelle
le portail hors de ses gonds il portale
sgangherato
quand le sable s’amoncelle mentre la
sabbia si accumula
on fusille dans les cours si fucila
nei cortili
le vide, le feu qui écrit il vuoto,
il fuoco che scrive
la faille du corps la faglia
del corpo
le vide ravale fleurs et tatouages il vuoto inghiotte fiori e tatuaggi
posant sur mes yeux éteints posando sui miei occhi spenti
l’odeur de la neige odore di
neve
Lo sciame
Lo sciame, inteso come metafora di
disseminazione linguistica che scompone la parola fino all’ “l’elementarità del
proprio corpo significante” (Bigongiari), è un importante elemento distintivo della poetica dupiniana. Esso traduce le
vibrazioni, i flussi di quell’essere-stato che si predispone a-venire:
Oscilla nella luce del giorno una
poesia astratta ma configurativa : linee, punti, intervalli, velocità,
spazio…Schemi che si abbozzano, si orientano, accedono al visibile, ancora
legati a un dato giacimento terrestre e passionale, mossi da energie
compulsive, rischiose…
Lo sciame, ovvero “una poesia astratta ma
configurativa” in perpetua, luminosa oscillazione (“oscilla nella luce del
giorno”) sopra un magma che evolve. La poesia di Dupin – che coniuga il rigore
di Kandinsky (“linee, punti, intervalli”) con la matericità delle partiture
visive-visionarie di Pollock, Hajdu, Soulages o Tapies - è instabile, sfuggente alla presa diretta
come il terreno naturale o la tela da cui essa trae succhi e umori: “un nuovo
spazio, di cui scintillano gli spigoli/ e le linee oscuramente riflessi”.
Se ne
può solo toccare l’interna distanza da sé. Al presente non è ancora. Avverrà
forse, ma dopo aver subìto, esattamente come quel terreno o quella tela,
contraccolpi, scarti e scoscendimenti d’ogni sorta, e sempre rischiando di
trasformarsi in un ammasso di rovine. Al momento la vediamo agitarsi, fetale,
in una “comba oscura”, nel grembo di una “notte, rinchiusa nelle parole, la
notte che spinge, che si stira…”.
La latenza
Tutto è in latenza, ma solo in quanto
prefigurazione nascosta di significato. Dupin, nella sezione in prosa L’unghia
del serpente confessa di non saper nulla delle “figure che potrebbero
sorgere, né della loro origine che dovrà mancare”. Confessa quindi
l’impossibilità di dire - riguardo al
proprio io e alle figure, all’io-figura - l’origine, la nascita, e infine la
natura come evidenza che si fa evidente al toccare, al percepire, o alla mente
che dovrebbe trascriverla in totalità, in Idea. Il suo non-sapere è bagnato
dalla grazia terribile e inebriante della noche oscura, che testimonia
l’attraversamento infinito e privo di mappa di un’estensione non misurabile, al
di fuori di qualsiasi relazione assiale
‘da luogo-a luogo’:
Nella
notte, un corpo. Combustibile e conduttore della scrittura. Un corpo. Terra immensa, aperta, che profuma.
Che non ha misura. Né centro, né guglie, né limiti. Una terra, o un corpo senza
origine – insonne, inumano – offerto al godimento dei mostri, che sregola i
ritmi, scuote i vuoti del foglio e il diradarsi del respiro.
L’agire scrittorio
La scrittura poetica – nella sua indicibile
genesi incorporata nella storia del soggetto – è il sonno che illumina (“Dormire
camminando, scrivendo”), e anche la traccia del disorientamento di trovarsi qui
e in nessun luogo. Essa è sempre, come insegnano Rimbaud e Char, posta “in
avanti”.
Essere “in avanti”, sopravanzare – e solo
grazie a questa ‘oltranza’ tentare paradossalmente la mimesis della
natura a-venire in quanto frutto di reminiscenza – significa per Dupin saggiare
fino al limite estremo le virtualità cognitive dello spaesamento-spossessamento,
in altri termini consegnare la poesia a
un’avventura del segno e del senso non ascrivibile a un sapere preliminare o a
una tesi ontologica. È il poeta medesimo ad individuare i fondamenti
del proprio agire scrittorio nei luoghi irrappresentabili della cecità e del
sonno: “Scrivere è forse un sonno più mobile che si circonda di comparse?” (Morene),
o anche “La cecità è l’obbligo d’invertire i termini e di anteporre il cammino
e la parola allo sguardo“ (Ib.) Così da
raggiungere pienamente, in Scarto, l’esperienza della morte simbolica,
condividendo con Blanchot l’idea che lo scrivere sia strettamente implicato con
la morte:
La notte
scrive. Allargando lo spazio, facendo traboccare la pagina, polverizzando il
cerchio di pietre. E reclutando la morte.
Scrittura e scarto
Se in Dupin la scrittura è implicata geneticamente
nel corpo, ne deriva che anche la geografia corporale s’impernierà sulla
scissione e sullo scarto in tutte le sue variabili: faglie, combe, avvallamenti
oscuri. È il corpo, questa ‘singolarità
plurale e differita’ (come interi capitoli dell’arte occidentale novecentesca
documentano, da Klee a Mirò, da Dubuffet a Wols) che dà il via al processo
metaforico più intrigante nella poesia dupiniana. In Scarto l’impossibile ricongiungimento delle membra entro l’unità
corporea trova un parallelismo, più fisico che mai, nel campo della lingua:
Si tracciano righe al veleno. Ci si
tocca. Questa parola è una spalla, questa un ginocchio quest’altra l’ombelico della
sposa asintotica. È lei che respira la lavanda e la via lattea. Raduno di nuovo
le lettere del libro che ho bruciato. Io lancio i coltelli, tu lasci andare lo
sparviero. Candela contro candela, nella notte più nera, e la trasparenza di
una libellula marina.
Lo scrivere è un rito catastrofico che ha la
sua pointe nel ferire, nel
sui-ferire della parola, rito autosacrificale necessario alla medesima per
accedere all’ordine del poiein. Il quale, è vero, perseguirà sempre una
“congiunzione di tratti sparsi” – secondo il dispositivo modulare e la sintassi
ellittica che caratterizzano lo stile dupiniano
– ma facendo dei singoli “traits épars” i veri punti di fuga del testo,
attraverso cui l’affioramento del rimosso, o di ciò che risulta semplicemente
remoto (il tormentato romanzo familiare, il paesaggio minerale dell’Ardèche, la
comba) è reso possibile. Potrà così riverberarsi in noi anche la “notte agitata”,
il “lontano interiore” di una voce amica (Henri Michaux) che fa appello ai
nostri ricordi più cari : “La notte agitata – scriveva l’amico lontano e più vicino - il lontano
interiore, la vera voce degli scorticati vivi e il più sensitivo dei fiori
nittalopi”. Parole incise nella carne come l’inesorabile sentenza
della macchina nella kafkiana Colonia penale. Ferite, abrasioni del
testo che culminano con il suo dissolvimento, quando alla vista e all’ascolto
non rimane della parola che lo sciame fonetico primario, centrifugo e senza
leggi.
Ecco dunque
il pro-ferirsi, il dirsi dello strazio : rotta interminabile (“Io cammino
interminabilmente”) verso la preda da sottrarre all’astratta purezza dello
spazio che la contiene. Una rotta inaugurata da una sorta di slancio immobile
che, dietro la simbologia dello sparviero (“Lo sparviero è il simbolo, più del
predatore, della preda riportata al punto di partenza del volo del rapace”,
scrive Bigongiari), ci riporta agli artifici dislocanti della scrittura
(“lancio di pietra”, “scoscendimento”), alla legge della sua transitiva
intransività; qualcosa di diverso, insomma, dalla generica dimensione
‘autoreferenziale. Qualcosa di più oltrante.
Gilberto Isella
La differenza, lo scarto si neutralizzano così
in una sorta di identità ambigua e spettrale: nascita e morte congiunti
nell’alveo della “comba oscura”, viso non ancora apparso alla luce che già
prefigura la “maschera funebre”. Enigmi dietro i quali sta all’erta la cecità
veggente del poeta.
le bois des genoux croûteux
il folto dei ginocchi
dans la cour d’école coperti di croste
nel cortile
scolastico
lisse d’obséquieux méplats
piatta superficie
de masque funèbre che ha lineamenti ossequiosi
di maschera funebre
terrain de fouilles, entame
terreno di scavi, avvisaglie
de hauts-fonds di fondali
la nuit où sautent les baies
la notte dove saltano le bacche
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