Prima ancora che con gli essere umani,
il rapporto principale è con le cose, è con esse che si cerca disperatamente un
colloquio. Nonostante, infatti, ne “Il
mio nome è Inna”, Moretti&Vitali, 2012, (postfazione di Alessandra
Pigliaru), ultimo lavoro di Ida Travi, ci siano quattro personaggi, è la sola Inna che sembra parlare, con voce accorata, agli
altri (vogliamo effettuare un breve riferimento al fatto che la donna,
l’adolescente, il bambino, la vecchia sono personaggi iconici che ritroviamo
anche negli altri libri di Ida Travi e che in quanto pure immagini hanno
valenza mitica); tutti e quattro però si relazionano con le cose (oggetti o
elementi naturali), attendendone una risposta risolutiva. Parrebbe trattarsi di
un vero e proprio panteismo, un ritorno a un sentire naturale, organico al
mondo circostante, se non fosse che contemporaneamente la voce di Cassandra si
sovrappone a quella di Inna per affermare che nemmeno a questo bisogna credere
o per dire che bisogna credere e non credere contemporaneamente: poiché questa
è la doppia natura affettiva e inaffidabile delle cose. Ci riferiamo al fatto
che la proiezione di sé negli oggetti quotidiani non è mai ingenua, è sempre
già macchiata dall’umano, come anche la
pochezza delle parole, la loro insufficienza è da mettere al bando, a tal punto
che si potrebbero usare soltanto i gesti, le azioni.
Questo assumere i caratteri delle
cose, addirittura l’identità: “eravate la pietra ardente”, questa personificazione
degli oggetti: “La maniglia piangerà sotto la mano” e “sotto il tavolo
arrossisce / lo sgabello a tre gambe”, questo
attribuire una finalità alle cose: “Non c’è dubbio, non c’è dubbio / queste
cose sono qui per noi” vuol dire avere creato un elenco delle relazioni che è
possibile stringere con gli oggetti – e
non solo quelle istituite alla luce del sole, ma anche quelle tessute
nell’ombra – poiché a tratti sembrano più importanti della presenza degli esseri
umani, fra cui, lo ripetiamo, non c’è dialogo, ma solo un appello che ciascuno
rivolge all’altro senza mai ottenere risposta. Persino la nostalgia di non
essere cosa entra a far parte dell’elenco: “Volevo crescere con loro / volevo
vivere con loro / tra gli attrezzi” giunge a una trasformazione del soggetto in
cosa: “Piove sull’acqua, piove sul ferro / il petto è più freddo della
schiena”.
C’è, però, accanto al terrore di
perdere le cose, o che non più funzionino, il terrore di diventare un oggetto:
“ – bisogna vivere da umani, lo capisci? –“. In ogni caso, se vengono meno anche
gli oggetti viene meno il fondamento del soggetto, il quale non può fare
affidamento su nessuna trascendenza. Nessuna ricerca dell’essenza, nessuna
metafisica. A suffragio della nostra ipotesi anche la mancanza totale del simbolo: un libro che
è un ammasso di oggetti e in cui mai si determina la prolificazione di un senso
astratto. E immediatamente a ridosso si rileva che i mezzi linguistici messi a
punto dalla Travi sono limitati all’uso di sostantivi e di verbi: pochissimi
aggettivi. I versi hanno un andamento prosastico, ridotti all’osso gli
strumenti retorici della poesia.
Il corto circuito fra gesti e cose
sarebbe sufficiente a tracciare il fondo oscuro da cui provengono gli umani e
il chiaro albume verso cui si dirigono. Ma del resto proprio al linguaggio è
affidato il compito di designare le terre, il percorso, le cose, le relazioni,
sebbene si preferisca la parola detta a quella scritta, la quale è guardata con
maggior sospetto, quando non respinta con ribrezzo (e si tenga conto di questa
posizione che è agli antipodi rispetto a quella di Jacques Derrida).
“Ogni grido è uguale al silenzio, ogni
cosa / è uguale al silenzio // Anche l’occhio lo sa / anche il piede lo sa // anche
il letto / è diventato bianco”. La parola, le cose, il soggetto collassano nel
silenzio: sembra un’agglutinazione, un rendere alfine appartenenti al medesimo
comune fondo anche le cose più differenti. Pure il tempo è sottoposto alla
medesima personificazione: “Un’ora se n’è andata / È uscita dalla porta” e
“l’orologio ti guarda / l’orologio capisce tutto”. Il tempo sembra utile a
porre le tacche distintive, quasi una misura scientifica a cui appellarsi nel
paradosso della propria posizione umana; serve forse solo a tracciare le
apparenti coordinate di una storia, di una narrazione, di cui, peraltro, si
sono rigettate tutte le convenzioni:
prima e dopo, causa ed effetto, inizio, svolgimento e fine, in una completa
perdita di riferimenti.
E’ davvero come stare a osservare una
mosca imbottigliata di cui si possono osservare i moti che la sfiniranno. Si
salta la frattura solo con gli occhi chiusi, solo dimenticando ciò che si sa e
persino le profezie di cui il testo è disseminato. A tutto togliendo credito, a
ogni cosa credendo. Eppure, si direbbe che la natura qui abbia ruolo autonomo
rispetto agli oggetti: “Tu metti il fiore nell’acqua / e il fiore si riprende /
Il fiore non sa quel che fa / ma quel che fa è meglio”. È la natura che
garantisce la continuità: “Il sole sorgerà un’altra volta, te lo giuro / cresceranno le mele rosse”. Miracolo
dell’esistere. Di cui peraltro i figli sono il testimone più concreto di
qualsiasi parola: “I figli sono fiori / un giorno si levano il berretto / e
parlano come mai avresti sperato”.
Abbiamo fin qui seguito
pedissequamente il libro per ritrovarci all’ultimo capitolo “Ur il ferramenta”
in cui i fili vengono tirati e quello che poteva definirsi come un continuo
smottamento tra angoscia e speranza, tra un ritrarsi e un aderire del tutto
genericamente riferibili all’esistenza umana, ora si mostra – come se con una
lente si fossero restituite le giuste proporzioni alla figura dipinta in
maniera deformata, (celebre l’esempio
presente nel quadro “Gli
ambasciatori” di Hans Holbein) – un luogo dove l’angoscia ha raggiunto il
massimo grado dell’esperienza umana: il lager, ma anche il luogo in cui la
speranza per rinascere può solo ricollegarsi alla natura. Disseminati nel testo
i termini campo, filo spinato, baracche, non lasciano dubbi e risucchiano come
in un imbuto senza fondo il senso dell’intero testo.
Rosa Pierno
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