Nel libro “Proust e Monet. I più begli occhi del XX secolo” Donzelli, 2011, l’autrice, Giuliana Giulietti, tenta di cogliere gli elementi che consentirebbero di valutare l’intenzionalità artistica di Proust e Monet come coincidenti, e in questo tentativo assomma citazioni dell’uno e dell’altro atte a dimostrare, a suo avviso, la loro totale sovrapposizione, mentre non fa alcuno sforzo per individuare le modalità con cui di fatto le due produzioni artistiche, pur condividendo i medesimi interessi, si diversificano in quanto prodotte con mezzi differenti. Vi è un annullamento totale della specificità delle opere, nessuna considerazione per la non comprimibile distanza a cui danno corpo i mezzi tecnici usati da Proust in quanto letterato e da Monet in quanto pittore. E questa è, mi pare, una lacuna essenziale per la comprensione delle stesse. Voglio riportare, a sostegno della mia opinione, una citazione tratta dal libro “Le Muse” di Nancy in cui viene stigmatizzata l’irriducibilità delle arti fra di loro: “Le arti passano “le une nelle altre, e questo non tanto nella pratica di mescolamento o di sintesi ma piuttosto ciascuna per sé, se possiamo dirla così (c’è musica nella pittura). Simmetricamente, le arti si ignorano o si respingono, ermeticamente chiuse le une nei confronti delle altre, e questo anche nel cuore della loro incessante comunicazione (c’è sempre un abisso tra un colore sulla tela e il colore di una sonorità.)”.
Invece, la modalità di lettura della Giulietti tende a colmare qualsiasi distanza tra i diversi mezzi espressivi e così si esprime su Proust e Monet, i quali con “Alla ricerca del tempo perduto” e con “Le grandi decorazioni” ci hanno donato “due tra i più grandi capolavori di tutti i tempi, dove la realtà si presenta metaforicamente come una rete di rapporti, una polifonia di voci, di colori, di riflessi”. E se volessimo cercare qualcosa di maggiormente dettagliato in relazione alla specificità dei due linguaggi artistici troveremmo, ad esempio, questo: “Espressione di una peculiare relazione che con “la natura che non si ferma mai”, la pittura di Monet, in quanto rappresentazione del mutamento, è fatta – agli occhi di Proust – di “metafore” poiché “ogni cosa può essere scambiata o assomigliare a un’altra”. E ancora: “In Proust la metafora non è semplicemente una figura di sostituzione o un abbellimento del discorso, ma la testimonianza – nella pittura e nella lingua – del carattere mutevole, incessante, metamorfico del reale”. Mentre riguardo agli errori che Monet dichiarava di fare nel tentativo di fissare le sue sensazioni, la Giulietti commenta: “Quegli errori, o illusioni ottiche o miraggi, erano la grande eversione di linguaggio che gli permetteva di abbandonare la semplice rappresentazione delle apparenze in favore di una realtà più profonda, come quella che affiora nell’abbondanza di luce, di acqua e di vegetazione, delle Ninfee”.
Ipotizzare un’uguaglianza tra arti plastiche e linguaggio, addirittura imponendo all’arte di coincidere con il linguaggio, disciogliendo qualsiasi residuo, vuol dire evitare l’unico problema che avrebbe senso rilevare nel momento in cui si va a istituire un confronto tra due mezzi espressivi che sono irriducibili l’uno all’altro. Il libro della Giulietti appare come il racconto di una Alice che, anziché passeggiare nel paese delle meraviglie, dove gli incontri non sono proprio scontati e rilassanti, restasse nel giardino di casa a cercare due foglie uguali. Parlare di arte è problematico, affrontarla per tentare di comprenderla non è una passeggiata in fiorite aiuole. E a Proust e a Monet, sono certa, farebbe piacere che fosse mostrato anche in che cosa le loro opere sono inconfrontabili.
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