Immergersi nella lettura delle poesie di Gio Ferri vuol dire ritrovarsi in una stanza piena di riflessi sonori e di echi colorati, di parole che trascorrono come reti a strascico tirandosi dietro come preda altre parole, albatros, à rebours, ivre: sciami di libri classici che ci attraverso con un turbinio di fantasmi e di immagini, i quali divengono, pur se oggetti mentali, carnali, vivide presenze. Non certo di una compresenza indifferenziata si tratta, ma del frutto di una severa scelta, come annuncia la poesia stessa “Il giorno del dio”, che vale per una dichiarazione di poetica dell’autore, del suo modo di vedere la poesia. Giò Ferri prosegue da anni, con i suoi splendidi quattro libri “L’assassinio del poeta”, editi tutti da Anterem, il suo percorso all’interno delle forme metriche tradizionali e di quelle messe a punto dall’avanguardia, mai deponendo una saggia, ironica levità, sigillo di un inevitabile modo, anche metapoetico, di accostarsi a tali forme e di installarsi all’interno di esse con vigile occhio, poiché, sia chiaro, non tutto è consentito: la poesia ha le sue leggiadre/ferree, indeterminate/precise regole.
Fantasmi d’Arcadia
Io mi vorrei che queste tue mèmori storie
di pètrule levighe e sparse fossero in una sola mano
raccoltie così unque eddove diversi prolifici semi
segni arsi e vitali infinitesimi d’ore dolenti e felici
et oracoli di spemi rupestri eppur ancora carezzevoli
così ancora sulla rupe teniamoci – che tu non temi
ed io non m’abbandoni ad astanze colpevoli narcisi egoismi
dolcezze effluvii d’abbondanze inusiti ai sensi comuni
sprecati e disutili ai bàratri inviti ai volupti richiami
e canti vani e manieristiche nautiche peregrinazioni.
Scorrono pètrule – appunto – per queste stanze
carnali e cercano i tuoi spazi minuscoli d’un giorno
d’un’ora ond’io orora m’appresto a sfiorare le impronte
a rimirare il fermo ricordo qui là dove stai e come sai
una ciottolina il bicchiere una seta un sedile un
libercolo smarrito sìmule traccia di sguardi dolcidui
e lontani e inani risorse d’amore.
Le bateau s’amuse sciaborda indefinite istanze
ansioso àlbatro ivre ai bagliori sènsili crede immagini
prènsili alla carne consuma residui d’angosce e non
prova - risente quantunque il canto di quella attenzione
tua sottile umana tanto quanto disumana d’assenza –
quanto lontano è questo giorno – oggi – questo mormorìo
d’acque prolifica rivelazione d’istinti unici – noi -
quanto – io - rivoglia un poco totale disponibile la tua
inobbligata fedeltà così che si disvelino à rebours
meraviglie oceanine feste sull’acque giovinette grida
e lasciti generosi rigeneranti quand’io più
che segnali pretenziosi e immeritevoli altro non dia.
Ma tu uccello-donna pacatamente ascolti generosa
risposta proponi e ciascun dimentica il dolore
invano poiché il volo ampio è muto finché non lascerà
insincere fredde captive classiche scenografie
finchè alle improbabili rive d’Arcadia non s’arresterà
atona e silente la notte degli archi.
Il giorno del dio
Sappi dunque, quantunque si sappia, et ovunque
s’aspettino travolgenti l’ansie del dire e del fare
seppur nascoste e silenti dismisure in verità
estranee ai detti comuni a quelle indigenti istanze
quando ancor dianze la forma serva le mentite istorie
lasci degli dei le spoglie s’appressi alle inani voglie
sappi dunque di quel tempo d’un dio che voglia varcar
le soglie del prolifico et insensato senso.
Sappi che quel dio t’appare quanto tu provi alle viste
ristare non di fabule e vane e menzognere
bensì quando tu fedele ritocchi e carni et ossa
così credi in quel dio e come credi egli possa
giugnere dallo spirito vivo e sanguigno del nulla
così come t’insegna l’acre increduta vision
del meister che guarda e sa eckhart folle di turingia
e dona e suona l’inno della benigna arsura.
Sappi che della poesia amante io mi ritrovava
avante per vanità con color che di molto
sanno e vanno per metafore e ancor per metonimìe
competences e analogie lalangue e metalogìe
sensi e non sensi bataille e lacan et ancor barthes
d’utilità saggi ai viaggi intra parola e segno
et in sostanza pegno di ricerca - e tuttavìa
con qual risorsa di giustezza e di verità ?
Sappi allora ch’egli venne più discreto e confuso
da quelle genti gaudenti verso di me a passi lenti
riguardando con dolcezza e discorrendo della
mia ragion avezza alle dismisure del dire
e del fare che dicon poetare così come
sanno gli maestri antichi delle parole senza
viziosi sensi e artifici bensì sensuali carnali
amorevoli in-dicibili riscritture eternali.
Sappi ch’era quasi un giovinetto e sorrideva
i bianchi denti gli occhi attenti e naturali
virginei ai comuni sensi le sillabe leggere
danzanti in-significanti a quelle dotte sapienze
a me rivelatrici invece d’in-leggibili
misteri et insaziabili immisurabili essenze
così come alcuno mai infine m’era apparso
al mio creativo et arso silente desiderio.
Sappi allora mi sovvenne l’insegnante ovidio
«se costoro l’arte non conoscono d’amare
leggano questo carme e letto dotti amino
con l’arte a vela o remi veloce nave si guida
veloci volanti carri con l’arte si guidi amore
come l’aereo automedonte e tifi abile nocchiero
venere magistra a me tenero amore prepose
invero egli è selvaggio ma ancor docile fanciullo».
Sappi come quel giovine venuto quasi dal nulla
sguardo fiero ma disposti sensi mi rivelò
che l’amor di poesia detto è di segno virgineo
che non guarda le storie bensì sue sensuali forme
questo mi rivelò rivelando se stesso
che appariva puro d’arte e libero d’artifici
tuttavia colmo di vite di sapienza primigenia
contraddetta aurea persona eppure senza maschera.
Sappi allora come allora seppi sebbene nascosto
ch’egli era un semplice dio in quel giorno del dio
dalla originaria carne di mistero e conoscenza
giunto sì dal nulla della prolifica metamorfosi
là dove eternale il segno si fa e si rifà materia
e nuova e senza orpelli là dove ancor si prova
la necessità del dire et oltre per nominare
la verità inspiegata e la sua creatrice essenza.
Danza macabra
(Le cantate di Berna) *
Sarabanda ruota lasciva
folleggia scheletrita Morte
alla gran sagra d’ogni sorte
sine cerebro si svolazza
si contorce canta et impazza.
Furba sturba la vedovella
e il cardinale. Si ribatte
l’anca lo stinco e il femorale
si rimpalla sdentati teschi
usa et abusa santi freschi
spensierata ghigna e digrigna
eppur ‘sì suadente e cortese
invita ciascun et a sue spese.
Teschia generosa non si
risparmia ti tocca e ritocca
e alfin pur ti blocca.
Suona bucine ingiudiziose
fuor del tempo d’ogni Giudizio
poiché sua è l’ora e dello sfizio.
Non impaura le dame e li
cavalieri e chi ancor di false
preci fa mestieri.
E così si piglia e ripiglia
discarniti suoi piaceri.
‘Sì danza l’uom e la femminella
con l’ossa gaudenti
e gli scarsi denti.
E si lacrima pallido
dolor alla sagra
delli morti per chi vermicolo
sempiterno si giace.
Allegranza ossuta invece
canta e tanto scricchiola e
si dà pace.
Quanto la Morte mai si tace.
* Albrecht Kauw nel 1649 riprese ad acquerelli le danze macabre (ora distrutte) dipinte da Niklaus M.Deutsch nel cimitero del convento benedettino di Berna.
Sonetto all’antica per Silvia
Convolano vivide ali di vento.
Amica dolcidula al canto della
speranza. Trascorre di stanza in stanza.
Là dove quando, quello spazio della
mente, lieve egli s’apre lieto al tocco
‘sì pacato e ridente di quel dono
intonso. Ed è pur silente quand’ella
di sé colma l’assenza vuota e stanca.
Perché leggera reca ciò che manca.
Sapiente dismisura, generosa
all’usura disgregata del tempo.
Lascia così svanendo oltre il bagliore
di quell’ore liete la traccia della
quiete ove s’appaga ogni voglia vaga.
Nessun commento:
Posta un commento