Per indicare un essere che esiste a prescindere dai nostri sforzi di rappresentarlo nella sua totalità, ancorché affrontarne l’individuazione dell’essenza, c’è bisogno di una mappa immaginaria per seguirne gli spostamenti, per segnare gli avvistamenti, per testimoniare di avvenuti incontri. Potrebbe essere un libro dell’ottocento, quest’ultimo di Flavio Ermini “Il matrimonio del cielo con la terra” Edizioni d'arte Félix Fénéon, come, appunto, erano quelli: pieni di figure, formati da vari tipi di carta, opaca e lucida, e colorati con colori pallidi, antichi, quello di cui voltiamo le cartelle, i fogli sciolti, cercando un verso e un ordine che invece non sono stati volontariamente previsti. E seguendo le mappe disegnate e le isole testuali che vanno alla deriva sul foglio ci accorgiamo che le trasformazioni, le ibridazioni di cui leggiamo sono proprio le modalità in cui l’essere appare. E in cui i simboli sono mere trappole, fasulle indicazioni, infingimenti di carta velina dietro cui paludare la fisica presenza di un’essenza che però non si dà allo sguardo. Non può essere che letterario mondo quello che viene messo in scena attraverso queste carte geografiche. Consapevole peraltro che “la coscienza non cela più il Minotauro, né, verso il cielo, l’uscita”. E verrebbe voglia, mentre si legge, di confondere le carte, ancora e di più, di mettere fisicamente in atto le relazioni che appartengono a una conoscenza vissuta come rete e non certo come traguardo. E, forse, perfino qui si tratta di una conoscenza che non può che darsi per frammenti e ove essi venissero accostati mostrerebbero lacune più che zolle a formare continenti. Non nasconde Ermini le modalità del suo percorso: “vuole dare conto di questo passaggio dalla linearità al barbuglio, dal terso all’intorpidito, dalla serenità al turbamento”. Mescolare le carte non vuol comunque dire far ricorso all’irrazionalità per tentare di acciuffare per i capelli quello che sfugge. Una fondazione razionale soltanto consente di scoprire ciò che è il movente della ricerca. Sì, si tratta di esemplare ricerca: di quella che se non trova l’oggetto, alfine ha trovato la forma. La rappresentazione, modalità di espressione che indica l’oggetto della ricerca. La forma è in questo senso, mediazione tra l’oggetto e quanto il soggetto reca con sé di proprio. Soltanto il poeta scrivendo scopre le terre. Forma ibrida sarà appunto quella creata: così dispiegata come un morbido lenzuolo tra poesia e prosa saggistica, tra riflessione e immaginazione. Scopriamo che come vere e proprie terre di mezzo, tutti i concetti espressi da Ermini si trovano slabbrati tra l’assunto e la sua contraddizione, vera e propria medietà in cui i termini non sono stati riassunti , né mescidati, ma toccati, tenuti presenti entrambi, nessuno falcidiato. Sarebbe così forse la terra promessa contenente tutto e tutto insieme.
I poeti sono, dunque, “sempre al limite tra l’esserci e il non esserci”, stanno tra terra e antiterra: “Non si incontra mai il mondo se non dietro il paesaggio, nella sua parte in ombra”. Ove l’attenzione viene posta alla forme cangianti, metamorfiche, che risiedono sul limite, al rovesciamento, all’eccentricità, al rifiutato e rigettato, all’indifferenziato, alla scissione e all’irregolarità, ecco, diremmo essere questi i nomi delle nuove terre. “Scaturisce dalle nostre mani la terra, dove prese molto tenaci vincolano il corpo dell’uomo al corpo oscuro dell’esistenza”. In questo pellegrinaggio attraverso le forme rappresentative con cui costruiamo la nostra cultura è la casa, ma nulla che si possa dare una volta per tutte: “Quel punto d’incontro tra l’inizio e il limite primo, in cui prende forma la nozione di principio, resta un’obiezione contro la vita di cui è l’annuncio”. Un vento gelido percorre queste carte e le nostre schiene di lettori ed è la consapevolezza che tra fisico e mentale non ci sia passaggio: interrotto ogni ponte, ma non lo sguardo che vede la distanza incolmabile. Straordinario esito. Straordinario percorso, di asciuttissima sintesi e lucidissima coscienza.
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