Un’impareggiabile lotta con la materia e le sue apparenze: Giorgio Bonacini ha in questa sua raccolta “Quattro metafore ingenue” Manni, 2010, raccolto una sfida postagli dalla natura: ambiente privilegiato di scoperte e di confronto e soprattutto di resa poetica. Il sasso non può trascendere il suo peso, nemmeno se sfiorato dalla luce. Parrebbero alterate le sue caratteristiche dall’impetuoso vento, ma non è ciò che realmente accade. Siamo nello sfolgorante mondo delle apparenze. E dove sono apparenze c‘è inganno. Né è possibile una trascrizione precisa di quanto accade: “I rami / che si staccano / dai rami / / cadono / / e non ci dice / più nulla / della loro caduta / il loro schianto / sensibile”. Lo sguardo carezzevole con cui Bonacini vorrebbe non perdere nulla di quanto avviene, non lo si deve a una volontà di indagine capillare e microscopica, ma a sensibilità tenerissima verso l’esistente. Certo, non è un’indagine ingenua, la consapevolezza delle cerebralità con cui si afferrano i dettagli e li si sistema in complessi unitari è in agguato e Bonacini tiene a bada tale deriva per mostrare, altresì che anche in ambito mentale, ci si deve necessariamente arrestare sulla soglia per non perdere dettagli, per non amalgamare e omogeneizzare pur di ottenere una sintesi: “L’artificio / è equiparabile / al mio / sguardo / / un astratto / rinnovarsi di andature / in carreggiate / fisiche”. Bisogna cambiare passo, allungare anziché accorciare, dilungarsi anziché riassumere. E’ questo il modo di rapportarsi al sensibile, di ritornare a esso, per afferrare al volo un pensiero che si allochi nel mezzo, fra qualcosa e qualcos’altro. Forse il sogno è ciò che consente di cogliere relazioni non canoniche tra le cose, di fissarle in diverso sembiante. Una ricerca tra gli interstizi degli elementi naturali, sul loro limine, scorrendo sulla loro pelle, aggirandosi tra evidenza smaglianti quanto fuggevoli: “non più come foglie / ma già nebbioline / incoerenti e gelate / che danzano a lato / di certe poesie”. Inevitabile che si debba affrontare anche il linguaggio che queste apparenze deve catturare. E’ affascinante il gioco che si instaura tra oggetti e parole. Quella di Bonacini è una lingua che genera zampilli di suoni e riflessi. E, infatti, è anche di tutta evidenza il prestito elegante dalla terminologia appartenente all’ambito musicale, con cui ha seminato il testo: “e induce / il suo canto / tra il ritmo battente / e ciò che soltanto / le ciglia pensiamo”. Ma quello che preme mettere in evidenza è l’intersezione, la promiscuità che viene a crearsi tra oggetti e parole. Se il vento è “una ghirlanda / che circonda / e stringe forte / il canto timido” e se “al di là / di un nome inutile / alla rima / più impietrita /alla corteccia” allora si constata che le parole hanno acquistato durezza e gli oggetti hanno introiettato il canto. E’ da questo traguardo che il dettato lirico di Bonacini si impreziosisce di un pensiero che media, che trova inusitate relazioni, impreviste soluzioni, in una parola: nuove materie. O forse si tratta di quell’unica materia poetica, sonora e sensuale che mai fine a se stessa, ci dispiega dinanzi percorribilità conoscitive intraviste. Che sia un passaggio scavato in via definitiva è lo stesso Bonacini a negarlo: “ Non ho visto mescolanze / non ho visto niente / Il vetro è irragionevole – sottende / nel poema delle cose la figura / del paesaggio, la distanza tra le cose”. Fra occhi e mente risiede un’ulteriore frattura, ma tale distanza non provoca sgomento essendo essa stessa la via dell’esattezza. Il linguaggio ne è travolto e resiste allo stesso tempo. Forse che non è anche il linguaggio apparenza? Giorgio Bonacini non sottovaluta l’equivalenza che si attua fra i due vasi comunicanti. Il sentimento di inabilità sarà esso stesso strumento di riconciliazione. Il linguaggio deve poter “schiudere l’ombra del riconoscimento / l’idea fondamentale di un conflitto”. L’iniquità della ferita sarà movente dell’accanimento che porta comunque a non rimuovere la contraddizione, ma anzi a cogliere in essa la capacità di accoglienza dello sguardo, quasi una sorta di amplificazione che Bonacini definisce “occhio assoluto”. Certo la ferita non si può suturare, anzi resta stillante: “Ma io – derubato, inespresso, tagliato / dal mondo e assediato – sono io ciò che dico / o la lingua è il rumore, l’odiato, la forma / impagliata che stringo?”. L’auspicio è di mettere a punto attraverso la poesia una diversa modalità percettiva e mentale sospesa tra realtà e lingua. Solo a partire dalla consapevolezza si può ricominciare, tentare un diverso inizio. Come quello, appunto, contenuto in questo bel libro.
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