Nelle opere di Gianni Paris in mostra, ricoprenti un intervallo temporale che va dal 1995 al 1999 e che vengono presentate per la prima volta in Italia, la massa cromatica favorisce e al contempo impedisce l’insorgere delle figure e delle forme animali o paesaggistiche. Una pittura del silenzio, quella di Gianni Paris, artista ticinese, che ha amato allontanarsi dai clamori della mondanità per dedicare ogni istante della sua vita ad essa, nel suo atelier di Melano (Mendrisio). Paris è stato anche autore di numerosi libri d’artista in cui le immagini si accompagnano a una calligrafia solo apparentemente dotata di senso. La scrittura quanto più perde leggibilità tanto più diviene immagine. Tali segni, aventi parvenza linguistica, svolgono per Gianni Paris una funzione centrale: tracciano un diario. Il lavoro di trascrizione esistenziale, il registro di impulsi, visioni, diktat, rivelazioni, larve figurali, accenni che si susseguono nella psiche trovano in tal modo una registrazione non labile dell'energia mentale dell’artista.
La pittura è per lui un esercizio iperbolico che rivendica ogni atto conoscitivo. Alla pittura, che sussume disegno, colore e gesto, Paris sottomette la forma, come elemento secondario. Pura pittura in cui è il colore che assume valenza prioritaria rispetto alla forma. Il colore è affetto da inesausto moto e articola lo spazio enfiandosi e sgonfiandosi. Lo spazio è, anch’esso, misura e funzione del colore. Spazio e tempo sono emanazioni della massa cromatica, dunque, e mai ciò che è a priori. Una posizione che scalza la costruzione teorica di Kant e riconfigura la percezione, quando il suo scopo sia l’atto del dipingere. Vedere per dipingere, in un’immota sospensione, dalla quale scaturisce, quasi per contrappeso, il moto dal quale ogni cosa origina. Una pittura dell’origine, che trae da uno stato indistinto i caratteri che la definiscono. Pittura del cosmo terragno e acquoso. Delle prime albe, dei terreni ferrosi, dei manti erbosi. Il colore ha un peso e una massa e articola gli equilibri della composizione oleosa, come una marea che cresca e si abbatta sulle nascenti forme.
Il pigmento, trascinato da un pennello di setole dure a destra e a manca, non si deposita, continua a fluttuare, a incunearsi, a slegarsi, a volteggiare in candidi o plumbei cirri oppure in arrotondate colline, creando continuamente nuovi equilibri e disarcionando i precedenti. L’immagine dipinta da Paris non sta mai ferma. Inutilmente si penserebbe alle forme di Bacon, le quali, se si deformano, lo fanno però raggelandosi alfine in una smorfia. Paris inventa forme senza fissità, le quali possiedono il moto continuo di ciò che si trasforma incessantemente. E la sostanza delle cose, una volta che sia divenuta coincidente col colore, diviene assuefazione alla luce. Se la massa può vedersi solo grazie al colore, se il colore può vedersi solo a causa della luce, allora la forma è data dalla luce. Ma è una luce che nasce nel colore. Tutto è ricondotto a questo principio basilare della pittura. Forse, Paris, è uno degli ultimi accaniti e più strenui fanatici della pittura-pittura.
È naturale che la luce nel quadro sia interamente funzione del colore, ma la meraviglia di certi albuminosi chiarori che si dispiegano dalla pasta oleosa è insuperabile! Altrettanto lo sono, le terre di Siena bruciate che si ossidano in catramosi neri, sfondanti la superficie del quadro. Quando la massa dell’impatto si ritrae, s’intravede la luce del mattino. La luminosità traspare dalle zone inerti, lasciate libere dalle masse cromatiche. Se un fondo paludoso ristagna, si legge ancora, nel suo inviluppo, il vortice generatore. Forse è nell’ombra che incubi e figure si rivelano e si agitano fin nei meandri della storia universale.
I colori appartenenti alla gamma delle terre, dei verdi-oliva, dei bianchi sfolgoranti nel placarsi della stesura cromatica rivelano una forma soggiacente: quella del paesaggio. È la medesima gamma di due fra gli artisti più singolari degli ultimi secoli: Goya e Morandi. Fra le loro opere, Paris tende ancor di più la corda per lanciarsi nel suo spericolato percorso.
Certe motilità delle setole che smuovono la pasta pittorica, certe rifrangenze della luce sbattenti sulle creste materiche, rendono ancor più tremolante l’immagine, ostacolando il suo addensamento e facendola impazzire come un amalgama incongruo. Miracolo della capacità mentale di Gianni Paris, il quale ci conduce a ravvisare una figura quando maggiore è la disarticolazione ottica, il disfacimento figurale. Per questa cagione dicevamo degli incubi notturni, di un onirico stato in cui la lucidità appare come un miraggio sotto un’ironica luce lunare. Si raffigurano teste bovine, becchi di aquile, ali di corvo, dorsi montuosi, destrieri al galoppo, elmi e scudi, pesci boccheggianti. Ma è appena un’impressione, subito rifluita nel sommovimento della materia cromatica. È il colore a decidere la forma e a dissolverla.
A dirla tutta, il colore si arroga la creazione dell’universo, la distinzione delle materie. Nel suo ribollire libera le essenze: la luce sembra più un risultato che un mezzo che renda visibili i colori. I cremosi pigmenti muovendosi sulla tela mostrano la verità della materia prima, quando se ne enucleino le estensioni cartesiane (peso, movimento, grandezza, figura, disposizione delle parti). In qualche modo Paris si oppone a Morandi, pur derivandone, poiché nel mondo ordinato e pulito della natura morta di Morandi, dei suoi paesaggi a zolle, l’artista ticinese vi introduce un moto caotico, il moto originario. Se vi sia ordine nel mondo è una legittima domanda. Non v’è ordine per Paris, ma solo caos. Caos che appare come un brodo caldo, dove si stiano formando gli aminoacidi della futura forma.
Quando Paris allenta la morsa e fa sfiatare le turbolenze del magma pittorico, le trame si allargano e il bianco prevale come pura luminosità che allenta il rinserrarsi figurale; il segno delle setole prevale, separa, allevia e fora. Il gesto, che è indissolubilmente legato alla stesura della materia pigmentale, modifica e trasforma l’apparenza della materia, al fine di imporgli la propria significazione. Il pennello modula la superficie dipinta, dispone e disloca, determinando differenti sottigliezze nello strato, svelando direzioni di sviluppo, creando superfici opache o riflettenti. Gli andamenti del pennello, guidati dal gesto che crea i rilievi, forgiano le emergenze plastiche. La cornice bianca, segnata da una riga bianca che contorna la pittura, è a sua volta circondata da un colore ocra chiaro e omogeneo e solo dopo, in seconda battuta, emerge il bianco della carta a rammentarci che i supporti della pittura non sono elementi secondari, ma partecipano alla formazione dell’immagine dipinta.
Una cornice, spesso presente nell’opera di Paris, tirata come a delimitare il regno della pittura rispetto alla neutrale zona franca del passe-partout è, dunque, un ulteriore segnale per il riguardante. Non solo finestra da cui rimirare un paesaggio preso nel vorticoso formarsi e disfarsi delle masse, ma anche delimitazione a cui attenersi per non cadere nella trappola pittorica. Per sentire lo iato tra realtà e quadro.
Rosa Pierno
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