Sono le frasi appartenenti al dominio quotidiano a procurare lo sconcerto, nel nuovo libro di Mario Fresa Bestia divina, La scuola di Pitagora editrice, 2020, poiché immesse in un tessuto incistato da sconnessure grammaticali, da fratture fra genere e numero, da incongruenze tra sostantivo e aggettivo. Le proposizioni immediatamente riconoscibili, in un testo congegnato in siffatto modo, finiscono col brillare di vivida luce, immesse, come sono, in un terreno fangoso, in una palude manganelliana. Due esempi: “Lo sente piangere e sa pure decifrarlo camminando” e “Quando sviene al millesimo, gli pare quasi di non aver paura”.
Le proposizioni che appartengono al linguaggio comune, quelle con le quali esprimiamo i nostri stati d’animo, il dolore o il piacere, gli affetti, le percezioni, gli stati fisici, appaiono come una sorta di scatola chiusa, non ulteriormente verificabile. Messe a sfrigolare con l’incongruo, perdono la banalità che deriva loro dall’uso consueto. Se si afferma di avere mal di denti, vuol dire che si è già in grado di associare la frase all’infiammazione e che si sa che colui che ascolta, se ha ricevuto la medesima educazione, è in grado di comprendere il significato della frase. Wittgenstein ha dedicato uno scandaglio senza pari allo studio del funzionamento linguistico e qui, con Fresa, vediamo compiersi un ulteriore avanzamento.
“Quando sviene al millesimo, gli pare quasi
di non aver paura. Dice: pestare notte,
mettere l’ombra a posto; sono mantelli e
piccole sventure. Cadiamo da un odore familiare”
di non aver paura. Dice: pestare notte,
mettere l’ombra a posto; sono mantelli e
piccole sventure. Cadiamo da un odore familiare”
Nello scrutare quello che accade quando il senso e il non-senso sono accostati, si nota, infatti, una tendenza a ricostruire un senso compiuto, il quale appare comunque bloccato – in conseguenza di un punto che segue ‘perché’, oppure di un verbo che esprime un’azione che è incongruente con il soggetto – sia grammaticalmente sia semanticamente. Prendiamo pertanto atto che il tentativo di cavarne un significato appare sotto scacco. La valenza semantica ha tuttavia una tale forza da illuminare anche le cose che sembrano giacere inerti. Quel “non avere paura”, intanto, si è arricchito visivamente di ombre, mantelli, odore, notte, stomaco…tutto un insieme di specificazioni che fanno a meno della struttura sintattica, ma che si assiepano fino a corroborare il significato consueto dandogli una fisicità, una caratterizzazione prima inesistenti. La proposizione “quando ho paura” al poeta non è sufficiente ad esprimere alcunché. La mescola di immagini che la costellano, con le nuove inserzioni linguistiche, concorre a delineare un’aureola di sensazioni, e che importa se esse coincidono con frammenti memoriali derivanti dalla letteratura. La casualità è parte del mondo. E nemmeno il lettore desidererà, a questo punto, sovrapporre a siffatto cosmo un ordine che provenga dall’esterno. Il senso, d’altronde, non ha nemmeno bisogno di essere precisato. Esso circonda l’oggetto o la situazione rappresentata, esala come un odore, uno dei sensi di cui Fresa parla con più insistenza. Il disordine totale o l’ordine totale sembrano equivalersi. Non c’è disordine che non divenga ordine a suo modo nella mente del lettore incallito. Nel disordine così come nell’ordine vige un’attenzione autoriale alle analogie e alle differenze, le quali divengono il carbone gettato nel motore del testo. E Fresa sfrutta la capacità di tale avvertito complice per sciogliere i nessi causali, i soggetti, gli oggetti, i precetti e i pensieri come in un acido, badando alla costruzione inflessibile della sua macchina svitante e ricomponente. Si può fare riferimento alla decostruzione derridiana perché restiamo ben lontani da una ricomposizione che trovi un fondamento. Se nel testo non s’individua un significato univoco è perché lo scopo della macchina testuale sembra essere quello di esporre le sue infinite possibilità semantiche, anche mediante il confronto con testi molto distanti, al punto che pare di sentire, leggendo, il piede che affonda nell’acquitrino, il senso che produce stridii e la sensazione di vorticare in una sorta di amalgama, il quale mostra un alto grado di coesione, poiché facente riferimento a una sola materia: quella linguistica.
In ogni caso, non sarebbe corretto sovrapporre qui una lettura psicanalitica del disordine che si oppone all’ordine, dove le immagini allucinatorie che proteggono dai conflitti tra l’io e il mondo, svuotano la realtà e annullano il divenire per indirizzarsi esclusivamente verso il desiderio o la paura. In una scrittura priva di libertà non saremmo più in regime artistico. Invece, sono proprio l’apertura e la trasformazione a innescare in Bestia divina quel procedimento che indirizza verso molteplici prodotti culturali, di cui il testo ci appare sempre più una non celata mappa. La distanza tra l’ossessione dell’identico e della differenza fa concludere a Derrida che follia e sapere scientifico condividono la volontà di determinare il senso, ma, appunto, il testo letterario ha una libertà che sopravanza entrambi. Ed è in questo dominio che Mario Fresa sviluppa il suo testo, sfidando impervie vette e affrontando impavido la sfida posta dal senso: recide, dove ci aspetteremmo continuità, e sutura, dove ci attenderemmo fratture.
In alcune poesie, chiarissimi sono il soggetto e lo svolgimento, come in Rifugio dedicata a Franz Kafka. Ma Merlino, il Servo, la grammatica noiosa, Nievo, il paladino, Fiordiligi, il lupo, Francisco Goya, Veronica, la Maestra, Kurt, Anna, Goffredo, lo spettro, Bach non sono semplici citazioni che si rinvengano nella memoria di qualcuno che ha perso il senno e conseguentemente i nessi logici: ciò che é certa e ben salda è l’operazione ove personaggi e autori hanno la medesima sostanza, il medesimo corpo.
Non soltanto i nomi di autori letterari, ma anche alcune singole parole fanno scattare serrature e porte nella mente del lettore: “Mio padre è un serraglio” ha tanto di mozartiano, “la bambina” instrada verso Lolita, “l’amante” verso il cinese del testo di Duras. Al lettore è richiesta una decifrazione fulminea oppure perde il treno: tutto dipende dall’ingordigia delle sue precedenti letture. Nè importa che le sue determinazioni coincidano con quelle dell’autore. L’importante è fare il giro in giostra, avvicinandosi in tal modo al modo in cui usiamo il linguaggio e a quello che esso ci consente, compresa l’esplorazione dei suoi limiti, oltre che delle sue possibilità.
Questo per dire che nessuna parola nel testo di Fresa ha più un significato reale, ma ne ha uno esclusivamente letterario, “l’amica è bruna e sedia” fa scivolare verso i ritratti picassiani di Dora Maar, mentre “blatta “ e “commessi viaggiatori”, sono due dei mille modi in cui si dice Kafka. Ecco perché quello di Fresa è un testo metaletterario che non contiene nulla di psicoanalitico.
Anche le note concorrono al testo, non sono apparati esterni, hanno il medesimo piglio pirotecnico della sua scrittura e, a volte, non sono affatto la specificazione di un riferimento testuale. Decifrare non è atto che venga richiesto al lettore: si vuole la sua partecipazione a tutto quello che succede nel testo, senz’altra chiave decrittatoria. Il flusso o scatta o non scatta, questo dipende appunto dalla cultura di colui che legge, come accade nel Finnegan’s Wake di Joyce. La lettura scorre sulla superficie del testo, il quale non ha fondo, non ha una ulteriore profondità.
Il linguaggio lancia, inoltre, una sfida all’immagine, poiché se l’assunto inderogabile è che esso non ne riuscirà mai a venire a capo, pure, le descrizioni di quadri si rincorrono in tutto il poema, tentando di inglobare l’opera visiva nei propri materiali. Eccone una del quadro di David che immortala la morte di Marat nella vasca da bagno.
“La carne ti galleggiava su piuttosto bene.
Si prende in tasca un’esplosione e ancora non lo sa. Lo troveremo al bagno,
quasi più gonfio, pronto a guardare
il mondo con la giusta pietà che si conviene:”
Si prende in tasca un’esplosione e ancora non lo sa. Lo troveremo al bagno,
quasi più gonfio, pronto a guardare
il mondo con la giusta pietà che si conviene:”
Ancora un esempio: Goya ci appare attraverso l’ecfrasi di un suo celeberrimo quadro: “e ci si ama perfino nel minuto / del fuoco ben tirato sugli occhi”.
Ed, ancora, Nicolas De Staël con la sua pittura a zolle: “La sua è una morte simile ai turisti; lo prende insieme / e ci dipingerà Nicola, l’ambizione, / i nervi sotto. E chi t’incontra è quasi tardi, / e preme; ordina il mondo a scatti, a brandelli:”
Il riferimento al regime iconico, affrontato con una così virulenta affezione linguistica, depone per una lettura che porta in evidenza ciò che non ha un significato direttamente verbale. Quasi una pareidolia, che legga forme distinte, preveggenze e predestinazioni in un ammasso di macchie pigmentali. Se Mario Fresa nel linguaggio insegue anche la descrizione del visibile, è solo per frantumare le immagini nel caleidoscopio linguistico. Le icone restano sul bordo degli eventi, schiacciate dall’irrilevanza che condividono con il reale. C’è una gerarchia valida per colui che scrive e non coincide con quella di colui che dipinge. Non potrebbe altrimenti esserci il meraviglioso amalgama che ritroviamo fra i versi e le lasse di Fresa e il salto di scala che pretendono per situarsi a un ulteriore livello, dove è la struttura a reclamare la posizione centrale. Far vedere con il linguaggio è azione metaforica pari a quella che Dante ha inteso costruire con la sua Divina Commedia.
La “memoria sterminata di quaggiù” è divenuta verbo al quadrato. Più che memoria, infatti, è linguaggio che opera nel linguaggio. E certamente quello che se ne può dire è che mai l’espressione verbale perde senso. Sempre rilancia e sempre mostra la sua metamorfica, mai espugnabile significazione.
Anche il meraviglioso finale “O la finiamo, o diventiamo nulla” è degno di figurare accanto alle paradossali conclusioni dei testi beckettiani. E finché si leggerà si potrà continuare, che è come dire che non si può smettere di scrivere. Inoltre, “stanza vocabolario” o “odore vocabolario” rimandano anche all’ambito spaziale e percettivo in cui la scrittura/lettura si produce, a conferma che il soggetto di questo libro è la lettura effettuata da un lettore. È essa che plasma la vita di ciascuno scrittore: non si scrive che con i libri degli altri, così come non si legge mai un solo libro alla volta.
Una scomposizione e una ricomposizione, pertanto, quella di Mario Fresa, che non intende tracciare un nuovo senso, nuovi percorsi analitici, e che sarebbe riduttivo presentare come valore memoriale, memoria storica letteraria e iconica, essendo un’azione totalmente afferente alla materia linguistica, alla polisemia che scintilla, illuminante la notte nera della consuetudine, per penetrare con coraggio nella materia catramosa e cristallina del linguaggio, potente e ineluttabile.
Rosa Pierno
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