Visione senza luce
Immemore
in un tempo raggelato
Inaffidabile tempesta
sregolata
ma scandita
in un’ipotesi di luce sempre giù
nel giù più scarno.
Navigando ne misurano la voce
poi dimenticano
il peso della voce
Allora giù
fermi a una forma tempestiva
che resiste
al buio nudo
buio avverso che non lascia
Segni tracce esitazioni
ascolto tutto
perché tutti gli animali sono al buio
che ci ascoltano nel tutto
Prepariamoci a contare le parole
a riconoscere gli accenti
Gli animali sono stanchi
il sogno è perso
i sassi gonfiano
le piante e sono nubi sono grandi
Giorgio Bonacini
Le parole diventano di pietra se le produce il dolore, non scalfibili, forse solo ripetibili per dire quel poco che se ne può dire, in quella forma scolpita, fissa che le rende non vane e non precarie. Sono parole a lungo covate, quasi il risultato di una lunga fase di sedimentazione, di una premeditazione capace di rendere ciascun vocabolo un atto insostituibile. Giorgio Bonacini, in questa sua recentissima poesia, inedita, Visione senza luce, ha forse ottenuto l’effetto contrario: rendere lampante la finitezza del dolore.
In tale affresco, illuminato a giorno, giacché il poeta ottiene l’effetto opposto, contrario alla situazione ignota, di cui si preavvisano solo alcuni segni premonitori, ma che sono già sufficienti a illuminare lo stato del vivente, le parole appaiono essere la salvezza, la possibilità di dire e di comunicare, di comprendere se stessi e gli altri. Ogni più piccolo segno o avvenimento può essere tramutato in lapidea parola. Anche se la serenità quotidiana è franta e incombe un minaccioso evento, di cui l’ambiente si fa messaggero – quella natura a cui siamo intimi ed estranei – il linguaggio si fa diga e setaccio, è monumento della precarietà e irruzione nell’eterno.
Rosa Pierno
Nessun commento:
Posta un commento