“Pagine aperte”, cm.44,5x49,5x6
Carta riciclata fatta a mano, filo, canapa, colorazione vegetale
Imprime, incide, scava, raspa, cesella, preme, marca: Vito Capone ha trovato nella carta il suo materiale privilegiato, di cui saggia perfino la resistenza. Il cesellatore, d’altronde, è colui che può piegare il materiale ai suoi voleri, senza snaturarlo, giacché dall’operato di un tale facitore, la naturale eleganza della carta ne risulta come amplificata, armonicamente potenziata. L’artista ne forgia la ricezione, la leggibilità, la percezione. Carta: la si sente risuonare grazie alla mano che la sfoglia, per lo sguardo che si avventura sulla sua superficie scabra o attraverso le scansioni, i ritmi che l’artista ha voluto imporgli. L’opera di Vito Capone ha essenzialmente, in tale delicatissimo alveo percettivo, la sua forza oscillatoria, sospesa fra incanto e forza.
Partito da splendidi disegni, realizzati già durante la frequentazione della facoltà di Architettura di Napoli, con lacerti figurali espressionistici, corpi immersi in strutture larvatamente geometriche, con una forte antinomia, quindi, tra astratto e figurativo, prosegue fino al 1979 con tavole dai fitti tratteggi in contrapposizione a brani scritturali. Interrompe drasticamente l’utilizzo di inchiostri e acquarelli per servirsi di un materiale duttile e precario, che traducesse la sua idea di scultura, la quale s’indirizzava all’evidenza della materia in funzione espressiva, con un legame diretto tra segno e superficie. Tale impeto non era, però, disgiunto dal suo interesse per la scrittura-immagine, non solo in linea con le esperienze di Hans Hartung o con i libri tattili di Munari, ma anche con certe ricerche che facevano emergere il volume dal piano, la luce e l’ombra da minime emergenze della tela (Fontana, Castellani), spesso prediligendo l’abbattimento del colore, o scegliendo un colore che facesse corpo con la superficie, e assorbendo le invenzioni dell’arte povera, gestaltica, e neocostruttivista, ma anche quelle abrasive di Isgrò e quelle dell’arte concreta, poggiante su forme primarie ricorrenti, archetipi che davano luogo a continue varianti.
La scrittura viene usata da Capone come cifra, segno primigenio: infatti, i caratteri geometrici di una scrittura simile alla cuneiforme vengono inscritti, a loro volta, in riquadri e cornici: il sostegno resta geometrico, la lettura non è un’opzione praticabile, l’immagine dei cifrari medioevali è affiancata a quella del libro zen. Libro che emerge da antiche rovine e che si accampa nel bel mezzo delle più importanti mostre nazionali ed internazionali, già negli anni Ottanta. Il segno scritturale è presente, in modo ancora più impressivo, in un’opera del 2007: in essa Capone ha inserito un filo di ferro che, mima un andamento calligrafico: la polpa bagnata ha provocato la ruggine che è trapassata sulla superficie col suo straordinario colore. Caso e probabilità rientrano, di conseguenza, fra le carte giocate dall’artista, il quale non è mai astratto, né mai puramente razionalista, restando legato al mondo fenomenico. D’altronde, la carta non si oppone alla forma: con i suoi bordi increspati e ondulati, essa è la forma stessa. La carta riciclata, fatta a mano, viene sagomata da Capone con matrici di creta o incisa dal bisturi e sollevata o scolpita e colorata con pigmenti vegetali. La scultura realizzata con la carta si presenta come immagine da intendersi otticamente e tattilmente. Lavorare con la carta è un esercizio quotidiano, ed è simile a quello di un panettiere o di un giardiniere, indicando, con le stesse parole dell’artista, l’attività di dedizione da cui emerge il prodotto del lavoro manuale. Il che presuppone che l’opera possa essere riprodotta all’infinito, sempre uguale a se stessa. Il monocromatico è, in aggiunta, quasi una riduzione alle sue stesse condizioni di esistenza o di variabilità. Arrivati al nero, non vi sono più margini per ulteriori avanzamenti o per l’espressione individuale, nell’ottica di un riduzionismo che l’ultima cosa che perde è la forma-libro.
Anche quando l’artista utilizza la carta come coacervo, come caos primordiale dal quale tutto può avere vita, forme appaiono con una precisione geometrica: fossili mentali, recapitati da una memoria ancestrale e familiare, a un tempo. Il caos di Capone è domestico, è inondato di sole, calcinato. Eppure, si mostra nuovamente disponibile a intridersi di acqua, a sollevarsi, enfiandosi. La carta appare dura come la pietra pomice, avente la stessa granulosità e, pur tuttavia, in crescita, come un pane messo a lievitare.
Nel 2001, alcune opere presentano un ammasso di elementi che sembrano intrappolati dalla cellulosa, la quale, essiccandosi, li abbia completamente inglobati. Le forme che sono ivi incrostate sono, a ogni buon diritto, forme che nascono dal medesimo sommovimento della materia e non già qualcosa di estraneo che vi sia stato immesso. Tuttavia, non si riesce a districare percezione da conoscenza. La materia contiene le sue future forme. Il passato è influenzato dal futuro. L’oggetto artistico prodotto da Capone ne è come il messaggero, il testimone. Esso porta impresse le memorie che determinano il futuro, il quale è già inscritto nel presente. Ravvisiamo un’analogia con quanto operato da Michelangelo nei suoi Prigioni, giacché la forma emerge dalla materia, qui, però non per eliminazione di sostanza, quanto per pressione. Dall’elasticità del materiale, provenendo quella possibilità di ottenere il palesarsi di una forma geometrica, ancorché di un ammasso efflorescente, che, se è stato schiacciato, può anche estroflettersi un istante dopo.
Ancora del 2001 sono le forme pressate nella cellulosa, che riportano alla mente ingranaggi o sezioni di organismi circolari. Sembrerebbe infranta la soglia che divide l’organico dal non-organico e con essa certe classificazioni che troppo spesso ci illudono sulla possibilità di tenere determinate informazioni separate. Il pensiero della complessità è necessario per comprendere le opere di Vito Capone. Esse richiedono uno sguardo che infilzi insieme materia e idea, forma ed energia, sostanza e rifrazione lucorosa. Anche quando la carta è imbibita da pigmento nero e fratturata come un carbone sembra assumere peso e durezza, modificando le caratteristiche della sua estensione e richiedendo uno sforzo analitico per la sua individuazione. Ma ritorniamo alle scansioni, alle griglie, alle soglie, alle separazioni: Capone usa tali strumenti per evidenziare il caos nel caos, la polpa gorgheggiante e ribollente o il raffreddato magma, riquadrato dalle suddette finestre-caselle. O forme geometriche, nitide e algide, che non affondano, pur alla deriva tra le polpose onde.
La serialità non perfetta, il susseguirsi dei medesimi elementi in modalità anche disordinata, propende per un’enfatizzazione della sostanza, nelle opere del 2003 e del 2004, poiché ogni emergenza proviene dal materiale, il quale espelle o ingloba. Tale assemblaggio afferma sia l’ordine sia il disordine, non escludendo, né preferendo uno dei due. L’artista lascia che il materiale dichiari la sua duttilità, conducendolo allo stremo della sua tenuta; lo assottiglia e lo rimpolpa, facendone essudare le rugosità, le asprezze, e chiedendo, in ultimo, allo sguardo di toccare.
Il libro o le sue pagine hanno una posizione primaria nella lista dei suoi temi. Un libro svincolato dalle parole, che comunque le rammenta, così come i riquadri vuoti che segnalano le figure mancanti ci ricordano che è un libro-summa: c’è l’intera storia del libro in un solo libro. La carta pare servire anche subdolamente l’idea del ‘contenitore di segni’, ma qui le tracce sono quelle stesse della carta, oppure quelle procurate da un filo che tramite un ago, abbia trapassato i punti in cui essa ha ricevuto una pressione maggiore. Il ricamo sta per la metafora della lettura, ma anche quella letterale della sartoria, abilità che Capone ammirava in sua madre. Ha una sua opposta verità, il filo, rispetto al chiarore della fibra essiccata. Nel 1998, esso integra ciò che sembrava disperso, la pagina strappata, viene ricucita, in un accorto lavoro di restauro. E, pur tuttavia, la pagina in tal modo reintegrata, aggancia il nuovo, legandosi al presente, alla dimensione della precarietà che investe i manufatti culturali.
Scrivere è azione che apre a un diverso sistema segnico. Scrivere è apporre segni, prima di tutto visivi, ancorché verbali. Il filo nero attraversa il recto e il verso della pagina, sfondando la bidimensionalità del foglio. D’altra parte, ancora nel 1996, Capone aveva aggiunto, nella fabbricazione della carta, racemi e corde in qualche modo forzandone la tridimensionalità dall’interno. E quanto il segno si differenzi dall’elemento volumetrico, è questione affrontata da Vito Capone in due opere, ancora nel 1996, dove su un cilindro sono cuciti fili neri, mentre da un altro fuoriescono spine, ottenute con la carta parzialmente avvolta a cartoccio e ivi incollate. Siamo a pieno titolo nella scultura, ma, appunto, la carta di Capone non riposa mai sul piano, anche quando si realizza su un semplice foglio. La serie di cilindri di carta annodati da una corda del 2000, non aggancia mnemonicamente soltanto i papiri, perché essi, disposti in verticale, inneggiano a una forma che diviene emblema a prescindere da ciò che l’ha funzionalmente generata! Altri rotoli, i quali risalgono al 1992, sono gettati uno sull’altro e presentano, a riprova, i fili ritorti della biancheria domestica.
Certe filigrane, certi ceselli adornanti mirabolanti brocche d’argento, certe ramificazioni di consunte foglie, sono replicate sulla carta da una maestria sopraffina. E ci invitano a leggere libri interamente tattili. Pagine strappate, incartapecorite, dorate, come quelle del 1993-94, sono incantevoli: vi si può leggere l’essenza tutta fisica di un’intera biblioteca perduta! Operando sulla struttura libro, nel 2007, Capone ottiene trasparenze e profondità, Nel ritagliare le pagine, fa emergere quelle sottostanti, oppure le riduce a trine e merletti. Nel 2002, con l’aggiunta di polpa, crea volume sui fogli: il libro non è più chiudibile. La pagina, assieme alle altre arrotolate, si dispone nello spazio come un macigno, divenendo libro di pietra, oggetto sacro, poiché rappresenta l’essenza del libro raggiunta per il mezzo della sua illeggibilità! Si vorrebbe separare pagina da pagina, scollarle, ridurre il volume di ogni foglio, tirare ciascun filo, sollevare le veline, seguire i canali in cui la corda s’infossa e s’inoltra negli spessori della carta. Quando della pagina rimane soltanto un frastagliato intrico di polpa filamentosa, scomparsi i margini e il volume, come nel 1988 e 1993, è segno che siamo trapassati dalla sostanza alla traccia, dalla polpa alla scarnificazione. La carta si è ridotta a ragnatela, i cui fili, tremuli, sono sostenuti da steli essiccati.
Nel 2006, le trame delle trine divengono a tal punto larghe da inglobare il vuoto, o meglio l’assenza di materia. Se Fontana incideva le sue tele, Capone svuota la materia e vi introietta l’esterno. Ma un riferimento a Fontana lo si può segnalare anche per la contrapposizione tra gesto e materia: mentre Fontana sceglie il gesto e la smaterializzazione dell’opera, Capone sceglie la materia, acuendo la problematicità della sua durevolezza. Alcune barbe, risibili fili e pelurie, si espandono nel vuoto. Il vuoto, per tale tramite, si condensa sotto il nostro sguardo. Scrivere il vuoto grazie alla materia.
Il libro di Capone è il simbolo tout-court dell’homo faber, dell’ostinata passione di un artigiano, che parte da un oggetto per risalire all’origine del manufatto e trasportarlo nel futuro, restituendo ai posteri la totalità dello scibile sulla produzione di oggetti magnificamente artistici e perciò perenni, nonostante, e a dispetto, della materia di cui sono fatti.
Rosa Pierno
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