Menabò è un nuovo quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria diretta da Stefano Iori ed edita da Terra d’Ulivi di Elio Scarciglia.
Rilevare il medesimo nome della celebre rivista Il Menabò, voluta da Elio Vittorini e Italo Calvino, con il sostegno editoriale dell’editore Einaudi, e che fu sulla scena letteraria e culturale dal 1959 fino al 1966, è indice della volontà di riprendere alcuni fili che furono dapprima presenti ne Il Politecnico di Vittorini e poi, inevitabilmente, trasmessi anche alla successiva impresa. In particolare, l’attenzione era tutta rivolta all’autonomia della letteratura e del pensiero rispetto alle ideologie politiche, ma anche all’apertura verso le diverse branche del sapere, nella giusta visione di una convergenza e di un’auspicabile integrazione delle materie, anche le più lontane, anziché la conservazione della loro forzosa separazione in settori stagni. Si parla delle materie umanistiche e delle materie scientifiche, ma anche delle relazioni da istituirsi con maggior vigore fra le branche dei singoli settori, come, ad esempio, tra arte e letteratura.
Naturalmente, a sessant’anni di distanza, i problemi e le soluzioni sono diverse e dunque il volersi riunire sotto un nome-simbolo è appena un’indicazione, un volersi posizionare in una prossimità. Non scenderemo nel dettaglio dei problemi o delle indicazioni, ma vogliamo solo esporre quali sono gli elementi sui quali la nuova rivista vuole puntare.
L’integrazione visiva è una componente sulla quale la rivista si articola, in quanto il verbale non è visto come elemento predominante, ma è come smussato e relativizzato, preso nella coesistenza con una alterità ad essa irriducibile. Si ha sempre sotto gli occhi, la duplicità radicale delle forme espressive, quasi un monito, oltre che uno stimolo. E anche i testi critici riguardano le due forme espressive senza soluzione di continuità. Al modo in cui lo sono gli argomenti storico-scientifici.
Le modalità di presentare i poeti, i letterati, gli scienziati e gli artisti sono di taglio diverso e presentano una grande mobilità: testi critici, articoli, interviste, schede, rubriche per un pubblico variamente attrezzato, com’è giusto per una rivista che voglia ampliare la propria base e diffondere la cultura. Oggi l’impegno passa per la diffusione, per i contenuti chiari, vari e diversificati. Ma anche attraverso il confronto con la poesia europea, soprattutto con quella che non ha avuto la fortuna di essere portata al grande pubblico per vari motivi.
Il comitato di redazione è arricchito da un poderoso numero di collaborazioni che operano nei diversi settori culturali. E il taglio internazionale, con le redazioni di Cracovia e i corrispondenti dalla Romania, da Londra e da Rhode Island, indica la necessità di aprirsi a un dibattito quanto più ricco e complesso possibile.
Ma vogliamo porre al centro della nostra nota il testo di Stefano Iori, che, con poche, ma centrali puntualizzazioni, mostra tanto la grande capacità di apertura, quanto il negarsi a definizioni sommarie e dogmatiche che sono, a nostro avviso, il vero veleno di ogni odierna comunicazione:
“Artisticamente in generale e poeticamente in particolare si crea ciò che sfugge, quello che non si ha o che non esiste ancora, l’oggetto della nostra ansia di mortali o della nostra speranza d’infinito. In buona sostanza si crea ciò che esce dai confini del già visto e sentito: una lingua nuova per una nuova sensibilità del vero”.
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